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Un appello per l’abbandono definitivo di quel Protocollo Europeo che viola i diritti umani

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Nel 2022 il Consiglio d’Europa aveva sospeso sino alla fine del 2024 l’adozione del Protocollo Aggiuntivo alla Convenzione di Oviedo che autorizzerebbe il trattamento coatto e l’istituzionalizzazione delle persone con disabilità. Ora, però, lo stesso Consiglio d’Europa ha ripreso a lavorare su quel documento, chiedendo un parere alla propria Assemblea Parlamentare. Nel rilanciare la campagna “Ritirare Oviedo”, il Forum Europeo sulla Disabilità ha inviato l’Assemblea Parlamentare a formulare un parere negativo La sede del Consiglio d’Europa a Strasburgo (foto di Candice Imbert)

Nel giugno del 2022 il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa aveva deliberato la sospensione dell’adozione del Protocollo Aggiuntivo alla Convenzione sui Diritti Umani e la Biomedicina del Consiglio d’Europa del 1997 – meglio nota come Convenzione di Oviedo – fino alla fine del 2024, come scrivemmo anche su queste pagine.
Si parla, va ricordato, di un Protocollo avversato dalle principali organizzazioni di persone con disabilità europee perché in contrasto con la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità (e non solo). Infatti, il Protocollo stesso, se approvato, autorizzerebbe il trattamento coatto e l’istituzionalizzazione delle persone con disabilità in violazione degli articoli 14 (Libertà e sicurezza della persona), 15 (Diritto di non essere sottoposto a tortura, a pene o a trattamenti crudeli, inumani o degradanti), 17 (Protezione dell’integrità della persona) e 25 (Salute) della Convenzione.
Per sensibilizzare sul tema l’EDF, il Forum Europeo sulla Disabilità e l’MHE (Mental Health Europe) avevano lanciato a suo tempo la campagna informativa #Withdraw Oviedo (“Ritirare Oviedo”) che aveva riscosso numerose adesioni.

Ora che siamo nel 2025 l’iter per l’adozione del Protocollo è ripreso e l’EDF ha rinnovato il proprio «appello al Consiglio d’Europa affinché abbandoni la proposta di Protocollo che autorizzerebbe il trattamento forzato e la coercizione nell’assistenza sanitaria nell’area della salute mentale».
In tal senso, il Forum ha reso noto appunto che «il Consiglio d’Europa ha ripreso a lavorare su un Protocollo che supporterebbe i trattamenti forzati e la coercizione [nei confronti delle persone con disabilità psicosociale], nonostante le nostre richieste contrarie. La ripresa dei lavori rappresenta una battuta d’arresto rispetto alle raccomandazioni positive elaborate durante la sospensione del Protocollo. Invitiamo pertanto l’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa a esprimere un parere negativo che si opponga a questa iniziativa».

«Il Consiglio d’Europa ha cercato di regolamentare il trattamento e il collocamento forzati delle persone con disabilità e problemi di salute mentale in strutture sanitarie – si legge ancora nella nota dell’EDF –. Questa proposta ne consentirebbe l’uso continuato, consoliderebbe l’istituzionalizzazione e creerebbe conflitti giuridici nei Paesi che hanno ratificato la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità».

A causa delle diffuse critiche conseguenti all’attività di sensibilizzazione promossa dall’EDF, nel 2022, come accennato, il Consiglio d’Europa aveva sospeso i lavori sulla bozza del Protocollo Aggiuntivo, e aveva concentrato la propria attenzione sullo sviluppo di strumenti finalizzati a promuovere l’autonomia nell’assistenza sanitaria nell’area della mentale. In particolare, è stata elaborata una bozza di Raccomandazione sul rispetto dell’autonomia nell’assistenza sanitaria nell’area della salute mentale (disponibile, in inglese, a questo link), che l’EDF ha accolto con favore, mentre la CEDU (Corte Europea dei Diritti dell’Uomo) ha svolto una specifica indagine sui Diritti delle persone in relazione al collocamento e al trattamento involontario in strutture per la salute mentale (il cui rapporto di ricerca è disponibile, sempre in inglese, a quest’altro link).
Ora però, come detto, i lavori sul Protocollo stanno riprendendo e in previsione di questo momento, l’EDF, assieme a una coalizione di dodici organizzazioni della società civile e di organismi per i diritti umani, ha pubblicato un documento nel quale anche il Comitato ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità ha ribadito molte delle preoccupazioni già espresse dalle organizzazioni europee.
E tuttavia, il Consiglio d’Europa, contro il parere dell’EDF, ha revocato la sospensione, decidendo di riprendere i lavori sulla bozza del Protocollo aggiuntivo, e ha trasmesso la bozza stessa all’organismo consultivo del Consiglio d’Europa, l’Assemblea Parlamentare, per un parere. Da ciò l’invito del Forum Europeo sulla Disabilità a quest’ultima affinché il parere che è chiamata ad esprimere entro il prossimo mese di aprile sia negativo, in contemporanea con il rilancio della già menzionata campagna informativa #Withdraw Oviedo. (Simona Lancioni)

Per ulteriori informazioni sulle iniziative legate al Protocollo di Oviedo: Markaya Henderson markaya.henderson@edf-feph.org; Ufficio Comunicazione EDF (André Felix), andre.felix@edf-feph.org.
Il presente contributo è già apparso nel sito di Informare un’h-Centro Gabriele e Lorenzo Giuntinelli di Peccioli (Pisa) e viene qui ripreso, con minimi riadattamenti dovuti al diverso contenitore, per gentile concessione.

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Verso la Giornata Mondiale delle Malattie Rare, tra arti, discipline umanistiche e scienza

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Esplorare il modo in cui la creatività, intesa in senso ampio, possa servire a promuovere la ricerca scientifica e ad aumentare la consapevolezza sulle Malattie Rare, coinvolgendo sia la comunità scientifica sia altri “mondi” (professionisti delle arti, scuola, giovani): è lo scopo dell’incontro del 20 febbraio promosso dal Centro Nazionale Malattie Rare dell’Istituto Superiore di Sanità, insieme a UNIAMO, la Federazione Italiana Malattie Rare, in vista della Giornata Mondiale delle Malattie Rare “Scienza e arte che procedono insieme”

Sempre in vista della Giornata Mondiale delle Malattie Rare del 28 febbraio (Rare Disease Day), dopo il primo evento del 13 febbraio, dedicato alla qualità dell’informazione e presentato anche sulle nostre pagine, il Centro Nazionale Malattie Rare (CNMR) dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS) e UNIAMO, la Federazione Italiana Malattie Rare, ne proporranno un secondo per il  20 febbraio, sempre presso la sede romana dell’ISS (Viale Regina Elena, 299), dedicato questa volta alla contaminazione tra arti, discipline umanistiche e scienze, finalizzata alla promozione della salute e definita con il termine inglese Health Humanities, ciò che secondo i promotori dell’evento «può contribuire significativamente anche alla sensibilizzazione nell’ambito delle Malattie Rare».
«L’intento – viene spiegato infatti – è quello di esplorare il modo in cui la creatività, intesa in senso ampio, possa essere un veicolo per promuovere la ricerca scientifica e aumentare la consapevolezza sulle Malattie Rare, coinvolgendo sia la comunità scientifica sia altri “mondi”, come quello dei professionisti delle arti, della scuola, dei giovani».

«Integrare la presa in carico delle persone con patologia attraverso le cosiddette Health Humanities – sottolinea Annalisa Scopinaro, presidente di UNIAMO – significa avere ben presente e dare il giusto peso a una visione olistica della persona, che è composta da mille sfaccettature e non riguarda solo la condizione patologica. Le Health Humanities rappresentano una grande risorsa, in quanto si esprimono in diverse e varie attività, come un vero e proprio punto d’incontro tra cultura e scienza, che ci permette di ampliare il concetto di salute e di benessere della persona».

Da segnalare poi che durante lo stesso incontro vi sarà anche la premiazione di Rare Reels: Pegaso goes digital!, un concorso condotto tramite Instagram, che oltre ad UNIAMO e ISS, ha come partner l’Agenzia Italiana per la Gioventù, All Digital e Creative Skills Week, per coniugare creatività e digitale, promuovendo la conoscenza delle Malattie Rare tra i giovani e del Pharma-HUB Project Logo & Visual Identity International Contest. (S.B.)

Per ulteriori informazioni: health.humanities@iss.it (Ilaria Palazzesi).

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Qual è la reale qualità di quei percorsi di specializzazione sul sostegno ottenuti all’estero?

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«Esprimiamo forte preoccupazione – scrivono dal Collettivo Docenti di Sostegno Specializzati – per il crescente fenomeno della specializzazione sul sostegno ottenuta all’estero, promosso da numerose agenzie formative che hanno trasformato la formazione dei docenti in un mercato redditizio. Si tratta di un fenomeno che solleva interrogativi sulla reale qualità di quei percorsi e sul loro impatto sul sistema scolastico nazionale»

Esprimiamo forte preoccupazione per il crescente fenomeno della specializzazione sul sostegno ottenuta all’estero, promosso da numerose agenzie formative che hanno trasformato la formazione dei docenti in un mercato redditizio. Negli ultimi anni, infatti, si è assistito a un proliferare di corsi destinati quasi esclusivamente a candidati italiani, presentati come un’alternativa più semplice e veloce rispetto al percorso ufficiale previsto in Italia. Questo fenomeno solleva interrogativi sulla reale qualità di questi percorsi e sul loro impatto sul sistema scolastico nazionale.
Alcune agenzie formative, inoltre, per dare maggiore credibilità ai loro corsi, affermano di applicare un numero chiuso per l’accesso ai percorsi di specializzazione all’estero. Ma su quali basi viene stabilito questo limite? Chi decide il numero di posti disponibili? Esiste una reale selezione, oppure si tratta di un semplice espediente per aggirare la normativa italiana?

In Italia, il numero di posti per il TFA Sostegno (Tirocinio Formativo Attivo) viene stabilito annualmente dal Ministero dell’Università e della Ricerca in base a criteri oggettivi, vale a dire:
° Le richieste delle scuole, ossia il numero effettivo di docenti di sostegno necessari per garantire il diritto all’istruzione inclusiva.
° La capacità formativa delle Università accreditate, che devono garantire un percorso di qualità con personale qualificato e tirocini formativi obbligatori.
° Le indicazioni ministeriali, che regolano la programmazione per evitare un eccesso di specializzati rispetto alle possibilità di impiego.
Al contrario, l’etichetta “numero chiuso” nei percorsi di specializzazione all’estero appare come un semplice escamotage per conferire un’apparenza di selettività e aggirare la normativa italiana.
Pertanto, la vera domanda è: chi verifica l’effettiva trasparenza di queste prove di accesso? Esistono commissioni indipendenti, come in Italia, che valutano i candidati con criteri rigorosi? Oppure siamo di fronte a un sistema costruito per facilitare il conseguimento del titolo senza un reale filtro meritocratico?

L’eventuale riconoscimento di questi titoli, senza una verifica rigorosa della loro equipollenza, avrebbe conseguenze gravi per il nostro sistema scolastico. La specializzazione sul sostegno in Italia è nata infatti con un numero contingentato, per garantire la qualità della formazione e rispondere al fabbisogno effettivo delle scuole. L’inserimento di migliaia di docenti specializzati all’estero rischia invece di compromettere l’equilibrio del sistema, creando un eccesso di figure professionali che non potranno essere assorbite, aggravando la precarizzazione della categoria.
Oggi, centinaia di migliaia di docenti TFA in Italia sono ancora in attesa di stabilizzazione. Ha senso introdurre nel sistema nuove figure formate attraverso percorsi poco trasparenti, mentre chi ha seguito un iter selettivo e strutturato in Italia continua a vivere nell’incertezza lavorativa?
Inoltre, la cosiddetta “sanatoria” proposta per questi titoli si basa sull’idea che possano essere equiparati ai percorsi italiani con una semplice integrazione formativa. Ma il nostro modello di specializzazione è il frutto di anni di esperienza nel campo dell’inclusione scolastica: possiamo davvero permetterci di abbassare il livello di preparazione per favorire logiche di mercato?

Chiediamo quindi con forza che venga attuato un sistema di verifica rigoroso e trasparente, che impedisca il riconoscimento di titoli ottenuti tramite percorsi nati con il solo scopo di bypassare le regole italiane. La formazione degli insegnanti di sostegno non può essere ridotta a una mera transazione commerciale: è un pilastro fondamentale per la qualità dell’inclusione scolastica e per il diritto degli studenti con disabilità a ricevere un’istruzione adeguata.

*collettivodocentispecializzati@gmail.com.

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Benessere senza età: invecchiare bene anche con la sclerosi multipla

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Come cambia la sclerosi multipla dopo i 60 anni? Quali sfide affrontano le persone che convivono da decenni con la malattia? A queste domande cerca di rispondereBenessere senza età”, videopodcast realizzato dall’AISM (Associazione Italiana Sclerosi Multipla), in collaborazione con il collettivo “Mettiamoci la Voce”, disponibile in quattro puntate a partire da oggi, 18 febbraio, su Spotify e sui social della stessa AISM Realizzazione grafica curata dall’AISM per il progetto “Benessere senza età”

Come cambia la sclerosi multipla dopo i 60 anni? Quali sfide affrontano le persone che convivono da decenni con la malattia? A queste domande cerca di rispondere Benessere senza età, nuovo videopodcast (vodcast) realizzato dall’AISM (Associazione Italiana Sclerosi Multipla), in collaborazione con il collettivo Mettiamoci la Voce, disponibile in quattro puntate a partire da oggi, 18 febbraio, su Spotify e sui social della stessa AISM.

«Il progetto – spiegano dall’AISM – nasce per sensibilizzare e informare sulla gestione della sclerosi multipla in età avanzata, con particolare attenzione ai cambiamenti fisici, psicologici e terapeutici legati all’invecchiamento. Adelina, Nadia, Simone e Paola, sessantenni con la malattia, raccontano la loro esperienza insieme a cinque esperti, offrendo uno sguardo concreto su un tema spesso trascurato. Se infatti la sclerosi multipla viene spesso definita come “malattia dei giovani”, per l’esordio di essa tra i 20 e i 40 anni, oggi – grazie ai progressi della ricerca e all’allungamento della vita – sempre più persone con la patologia arrivano alla terza età. Ma come affrontare questa fase della vita nel miglior modo possibile? Uno stile di vita sano gioca un ruolo chiave nel benessere: mantenersi cioè attivi fisicamente, mentalmente e socialmente aiuta a contrastare i sintomi e a migliorare la qualità della vita. Alimentazione equilibrata, esercizio fisico, relazioni sociali, pensiero positivo e accettazione dei propri limiti sono aspetti fondamentali per un invecchiamento più sereno con la sclerosi multipla».

Ogni episodio del videopodcast, dunque, grazie all’aiuto degli specialisti, affronta un aspetto chiave per la terza età, quando oltre alla sclerosi multipla subentrano i disturbi tipici dell’invecchiamento. Nel primo episodio si parla di ricerca e comorbidità, insieme a un neurologo e a un medico di famiglia, nel secondo di mobilità e riabilitazione con un fisiatra, nel terzo si approfondiscono le strategie per mantenere l’indipendenza funzionale con un terapista occupazionale, nel quarto, infine, si affronta il tema del benessere psicologico e della gestione dell’umore con una psicologa.
«Una preziosa opportunità – commentano dall’AISM – per ascoltare testimonianze dirette e ricevere consigli pratici per affrontare al meglio questa fase della vita».

«Abbiamo voluto creare questi videopodcast – commenta Francesco Vacca, presidente nazionale dell’AISM – per dare voce alle esperienze dei pazienti e degli esperti, rendendo le informazioni facilmente accessibili. La sclerosi multipla è una malattia complessa e ogni storia è unica. Questo progetto non è pensato solo per le persone con la malattia, ma anche per chi si prende cura di loro e per chiunque stia affrontando i cambiamenti legati all’età. Offriamo infatti approfondimenti utili, soluzioni pratiche e supporto emotivo per vivere al meglio questa fase della vita».

Come detto inizialmente, per la realizzazione del progetto, l’AISM ha collaborato strettamente con Mettiamoci la voce, collettivo genovese da anni attivo a livello nazionale nella produzione di podcast e audiolibri, oltre a gestire un’Academy dedicata alla lettura espressiva. (B.E. e S.B.)

A questo link è disponibile una scheda sulle persone con sclerosi multipla che hanno partecipato ai videopodcast, a quest’altro link un testo di ulteriore approfondimento sul progetto. Per altre informazioni: Ufficio Stampa e Comunicazione AISM (Barbara Erba), barbaraerba@gmail.com.

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Giornata Nazionale del Braille: l’inclusione abita nel linguaggio

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Alla vigilia della ventottesima Giornata Nazionale del Braille, l’UICI di Roma (Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti), con il patrocinio dell’IRIFOR di Roma e in collaborazione con l’Università La Sapienza, ha promosso per la mattinata del 20 febbraio l’evento denominato “Una lingua per tutti – L’inclusione abita nel linguaggio”. Per l’occasione diamo spazio anche a un ampio approfondimento sulla figura di Louis Braille

In occasione e alla vigilia della ventottesima Giornata Nazionale del Braille, l’UICI di Roma (Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti), con il patrocinio dell’IRIFOR di Roma (Istituto per la Ricerca, la Formazione e la Riabilitazione dell’UICI) e in collaborazione con l’Università La Sapienza della Capitale, ha promosso per la mattinata del 20 febbraio l’evento denominato Una lingua per tutti – L’inclusione abita nel linguaggio (Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università La Sapienza, Piazzale Aldo Moro, Roma, ore 9.30-14).«Si tratterà di un’importante occasione di confronto e sensibilizzazione – spiegano i promotori dell’incontro – sull’importanza del linguaggio e della comunicazione accessibile per le persone con disabilità visiva. Un evento che vedrà la partecipazione di esperti del settore, accademici e rappresentanti istituzionali, che discuteranno il ruolo del Braille e di altri linguaggi inclusivi nell’abbattimento delle barriere comunicative». (S.B.)

A questo link è disponibile il programma completo dell’incontro, a ingresso gratuito (per ulteriori informazioni: ufficiostampa@uicroma.it (Giovanni Fornaciari).

Louis Braille
Il 21 febbraio sarà la ventottesima Giornata Nazionale del Braille, evento istituito dalla Legge 126/07, che porta il nome di Louis Braille, nato a Coupvray, non lontano da Parigi, il 4 gennaio 1809.
Il padre era un modesto artigiano che viveva fabbricando finimenti per cavalli. A tre anni, giocando nel laboratorio paterno, il bimbo si ferì gravemente ad un occhio con una lesina. Le premurose cure dei genitori non valsero a frenare l’infezione che rapidamente si estese anche all’altro occhio, portandolo nel giro di un anno alla cecità assoluta.
A 10 anni, Louis fu accolto nell’Istituto Reale per i Giovani Ciechi di Parigi (INJA – Institut National des Jeunes Aveugles), fondato da Valentin Haüy nel 1784. Il giovane Braille manifestò molto presto le sue qualità, suscitando lo stupore degli insegnanti, soprattutto per la capacità di concentrazione.
In quel momento, il piccolo mondo dell’Istituto guardò con estrema attenzione all’invenzione di Charles Barbier de La Serre, ex ufficiale di artiglieria, il quale aveva ideato un sistema di scrittura, chiamandolo “scrittura notturna”, costituito da punti in rilievo i quali, a suo dire, avrebbero consentito ai militari di leggere al buio, per non essere individuati dai nemici. Barbier pensò quindi di far testare la sua invenzione proprio agli allievi dell’Istituto per i Ciechi di Parigi.
Quel sistema, però, risultava piuttosto complesso e poco pratico, perché fondato su due colonne parallele di sei puntini ciascuna. E tuttavia, l’esperimento fu accolto con entusiasmo dai giovani allievi, alcuni dei quali – e tra essi Braille – iniziarono una corrispondenza con Barbier, utilizzando il suo laborioso metodo.
Rispetto ai numerosi tentativi precedenti per far leggere i ciechi, Barbier aveva introdotto una novità molto significativa per chi avrebbe dovuto leggere con le dita: aveva cioè sostituito i punti in rilievo al tratto continuo (ovviamente in rilievo), utilizzato da Valentin Haüy per stampare i primi volumi per i suoi alunni. A quel punto la speranza di poter trovare un modo per scrivere adatto ai ciechi e un’innata attitudine per la ricerca metodica condussero Braille, pur ancora adolescente, ad intuire il valore che avrebbe potuto assumere la disponibilità di un sistema di scrittura semplice e razionale.
Non è noto se altri, fra quei ragazzi, abbiano condiviso il desiderio di trovare la soluzione a un problema da loro ritenuto prioritario, oppure se Braille si sia dedicato alla ricerca solitaria, sostenuto unicamente dall’entusiasmo e dalla fede, tipici della sua età. Egli riconobbe per altro il suo debito verso Barbier de La Serre, ma esclusivamente a lui va il merito di essere riuscito ad ottenere risultati definitivi, dopo alcuni anni di studio tenace e sistematico sulla posizione convenzionale di punti impressi su cartoncino. Era il 1825, Braille aveva 16 anni e il suo sistema poteva dirsi virtualmente compiuto.
Nel 1829 pubblicò Procedimento per scrivere le parole, la musica e il canto corale per mezzo di punti in rilievo ad uso dei ciechi ed ideato per loro, opera con la quale fece conoscere la scrittura da lui inventata, che è quella ancora oggi utilizzata dai ciechi di tutto il mondo.
Per tutta la vita dovette lottare per fare accettare il suo sistema. Il direttore dell’Istituto parigino, Pierre-Armand Dufau, ordinò che i ciechi non si avvalessero del sistema ideato da Braille, ritenendolo una crittografia utilizzata unicamente dai suoi alunni per non fargli comprendere ciò che in segreto si sarebbero comunicati fra di loro.
Solo nel 1850 fu stampata la prima opera in Braille, ma fuori dalla Francia!
Il 27 settembre 1878, poi, al Congresso Universale per il Miglioramento della Sorte dei Ciechi e dei Sordomuti, tenutosi a Parigi in occasione dell’Esposizione Universale, vennero respinte tutte le perplessità e le incertezze e ci si pronunciò per l’adozione del Braille convenzionale con i sei punti originari. Seguirono nel 1917 l’adozione del Braille originale anche negli Stati Uniti d’America, nel 1929 il riconoscimento internazionale della Notazione Musicale Braille e infine, nel 1949, su decisione dell’Unesco, l’uniformità dei vari alfabeti Braille, cosicché il sistema venne adottato nelle lingue arabe, in quelle orientali e nei dialetti africani, diventando così il metodo universale di lettura e di scrittura dei ciechi di tutto il mondo.
Louis Braille morì nel 1852. Nel 1887, a seguito di una sottoscrizione nazionale, venne eretto a Coupvray un monumento in suo onore. La sua casa natale accoglie ora il Museo Louis Braille, affidato alle cure della WBU, l’Unione Mondiale dei Ciechi.
Nel 1952, in occasione del primo centenario della morte, la Francia gli rese finalmente onore, accogliendone le spoglie mortali nel Pantheon di Parigi, tra i “grandi” della nazione.

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Disturbi cognitivi nella malattia di Parkinson: si possono trattare?

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“Disturbi cognitivi nella malattia di Parkinson: si possono trattare?”: sarà questo, il 20 febbraio, il tema del nuovo incontro online nell’àmbito di “Non siete soli”, ciclo di webinar a partecipazione gratuita e aperto a tutti, nato da un’idea della Confederazione Parkinson Italia e della Fondazione Fresco Parkinson Institute, rivolgendosi alle persone con la malattia di Parkinson, nonché ai loro familiari e ai caregiver Particolare di una delle foto di Giovanni Diffidenti che compongono la mostra “NonChiamatemiMorbo”, promossa dalla Confederazione Parkinson Italia

Sarà dedicato al tema Disturbi cognitivi nella malattia di Parkinson: si possono trattare? il nuovo appuntamento previsto nell’àmbito di Non siete soli, ciclo di incontri online a partecipazione gratuita e aperti a tutti, iniziativa nata a suo tempo da un’idea della Confederazione Parkinson Italia e della Fondazione Fresco Parkinson Institute, rivolgendosi alle persone con la malattia di Parkinson, nonché ai loro familiari e ai caregiver, con l’obiettivo di informare e migliorare la loro qualità di vita, accrescendone le competenze legate alla gestione degli aspetti clinici, psicologici e sociali della malattia.
Giovedì 20 ottobre, quindi, come sempre alle 17, si parlerà, come detto, di disturbi cognitivi nella malattia di Parkinson, con la moderazione della neuropsichiatra e psicoterapeuta Paola Ortelli e l’intervento della psicologa Gabriella Santangelo. (S.B.)

Per iscriversi al webinar del 20 febbraio e per ulteriori informazioni: segreteria@parkinson-italia.it; info@frescoparkinsoninstitute.it.

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Teatro Patologico: attori e attrici, non persone che “soffrono di disabilità”!

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Degli attori e delle attrici del Teatro Patologico – perché questo sono, attori e attrici – sul palco di Sanremo si è detto che «soffrono di disabilità, che la vita senza di loro sarebbe una noia pazzesca» e via di questo passo. Si è persa quindi ancora una volta un’occasione, pur in buona fede e con le migliori intenzioni, di usare le parole giuste. Ma cerchiamo di rimediare con il racconto di Maria Rosaria Ricci su cosa fa il Teatro Patologico le cui attività meritano visibilità senza stereotipi Il Teatro Patologico sul palco del Festival di Sanremo (Photo-by-Marco-AlpozziLaPresse)

“Sono solo canzonette”, l’ha cantato Edoardo Bennato, ospite in una delle serate dell’ultima edizione del Festival di Sanremo. Ed è vero, la manifestazione, che dovrebbe avere come punto nevralgico la musica, i cantanti e le canzoni, in realtà è uno specchio del Paese e anche veicolo di messaggi che plasmano punti di vista.
Tra i protagonisti extra musica di quest’anno, la disabilità, sottolineata in diversi passaggi, dal ricordo di Sammy Basso alla presenza della top model Bianca Balti, che si sta curando per un tumore, fino all’ospitata dei ragazzi e delle ragazze del Teatro Patologico. Del primo si è detto che «pesava come una mela», la seconda aveva messo in chiaro di non essere su quel palco in veste di malata, ma di donna, però è stata presentata come un’eroina, sottolineando il suo coraggio e non il suo lavoro, ovvero indossare abiti con eleganza. Degli attori e delle attrici, perché questo sono, attori e attrici, del Teatro Patologico si è detto che «soffrono di disabilità, la vita senza di loro sarebbe una noia pazzesca» e via di questo passo.
Ancora una volta, dunque, la disabilità sinonimo di malattia, ancora l’infantilizzazione delle persone adulte con disabilità mentale, ancora pietismo e non persone e basta che fanno cose, lavorano, si divertono e hanno molteplici caratteristiche tra cui la disabilità, ma non sono la loro disabilità. Si è persa quindi un’occasione, ancora una volta, in perfetta buona fede e con le migliori intenzioni, ci mancherebbe, però anche se si potrebbe obiettare che il festival di Sanremo non è la vetrina per parlare di questi argomenti, in ogni caso quando si fa, bisogna farlo con il linguaggio giusto.
Cerchiamo in parte di rimediare raccontando cosa fa il Teatro Patologico le cui attività meritano di essere conosciute senza stereotipi. Lo facciamo con questo testo di Maria Rosaria Ricci. (Stefania Delendati) 

Il Teatro Patologico sul Palco dell’Ariston
di Maria Rosaria Ricci
Il Festival di Sanremo 2025, sotto la guida esperta di Carlo Conti, ha confermato ancora una volta il suo status di evento musicale più atteso dell’anno, registrando ascolti da record. Ogni serata si è trasformata in una celebrazione della musica e dello spettacolo, regalando al pubblico momenti di grande intensità emotiva.
Oltre alle esibizioni di artisti di fama nazionale e internazionale, il palco dell’Ariston ha ospitato personaggi di rilievo e approfondito tematiche di forte impatto sociale.
Tra queste, la disabilità è stata protagonista di un dibattito che ha suscitato opinioni contrastanti: se da un lato la visibilità garantita da un evento così seguito rappresenta un’importante occasione di sensibilizzazione, dall’altro emerge la necessità di una narrazione più accurata e rispettosa, affinché l’inclusione non diventi solo uno slogan, ma una realtà concreta.
In questo scenario, la partecipazione del Teatro Patologico ha segnato un momento di straordinaria rilevanza artistica e sociale.
Si parla di una realtà romana che prende vita nel 1992 grazie a Dario D’Ambrosi, attore e regista visionario e che rappresenta un’esperienza teatrale innovativa, coniugando espressione artistica e terapia per le persone con disabilità, in particolare con disturbi psichici.
Negli anni, questa esperienza ha ottenuto prestigiosi riconoscimenti internazionali, culminando nella creazione del primo corso universitario al mondo di Teatro Integrato dell’Emozione, in collaborazione con l’Università di Roma Tor Vergata.
Il fondatore ha dedicato la propria carriera alla fusione tra teatro e psicologia, studiando negli Stati Uniti il rapporto tra arte e disagio psichico e portando in Italia un approccio innovativo, che ha trasformato il modo stesso di intendere il teatro come strumento terapeutico. Le sue produzioni teatrali, realizzate in collaborazione con attori professionisti e persone con disabilità, sono state rappresentate nei più prestigiosi teatri del mondo, tra cui il leggendario La MaMa Experimental Theatre Club di New York.
Grazie dunque alla sensibilità del direttore artistico Carlo Conti, per la prima volta il Teatro Patologico è salito sul prestigioso palco dell’Ariston, scelta che ha permesso di portare sotto i riflettori il valore dell’arte come strumento di inclusione, dimostrando che la cultura e lo spettacolo possono essere realmente accessibili a tutti e tutte.
Per il Teatro Patologico non è stato solo un riconoscimento artistico, ma un importante traguardo sociale, un segnale forte che conferma come il teatro possa essere un luogo di libertà, crescita e riscatto per tutti.
Un messaggio chiaro, dunque, ovvero che l’arte non ha confini, e che includere tutti significa arricchire la società intera.

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“Un progetto di vita sostenibile, tra lavoro e autonomia abitativa”: se ne discuterà a Pisa

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Si terrà il 27 febbraio a Pisa, promosso dal locale Coordinamento Etico dei Caregivers, il convegno sul tema “Dall’eccezione alla quotidianità: un progetto di vita sostenibile, tra lavoro e autonomia abitativa”

Si svolgerà a Pisa, il prossimo 27 febbraio, Dall’eccezione alla quotidianità: un progetto di vita sostenibile, tra lavoro e autonomia abitativa, convegno promosso dal locale Coordinamento Etico dei Caregivers.
Il progetto di vita individuale personalizzato e partecipato è uno degli aspetti disciplinati dal Decreto Legislativo 62/24, attuativo della Legge 227/21 (Legge Delega al Governo in materia di disabilità), che è attualmente in fase di sperimentazione. L’evento si propone come un momento di approfondimento, dibattito e confronto per costruire una prospettiva concreta.

Come accennato, l’incontro si terrà il prossimo giovedì 27 febbraio (ore 17), e sarà ospitato nella Sala Borsa Merci della Camera di Commercio Toscana Nord Ovest (Piazza Vittorio Emanuele II) a Pisa.
I lavori saranno moderati da Gian Luigi Ferrari dell’Università di Pisa e introdotti da Maria Antonietta Scognamiglio, presidente del Coordinamento Etico dei Caregivers. A seguire, il tema Caregivers: esperienze e prospettive sarà sviluppato da Michela Silvestri (psicologa), Stefania Costantini (educatrice) e Alessandra Greggio (agronoma), mentre il compito di trattare l’argomento Oltre lo spazio individuale: strumenti del territorio e dimensione sociale è stato affidato a Serafina Vella (dell’ARTI, la Rete dei Centri per l’Impiego della Regione Toscana), Marco Michelucci (della Cooperativa Aforisma), Stefano Carboni (della Cooperativa Arnera), Anna Catrozzi e Alice Sensi (della Società della Salute della Zona Pisana).
Le conclusioni, infine, saranno tratte da Alessandra Nardini, assessora della Regione Toscana all’Istruzione, ai Centri per l’Impiego e alla Formazione Professionale, da Serena Spinelli, assessora della Regione Toscana al Welfare e all’Integrazione Socio-Sanitaria, e dalla già menzionata Antonietta Scognamiglio. (Simona Lancioni)

 

 

Per ulteriori informazioni: info@caregiverspisa.it.
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Moda adattiva, quando l’abito abbatte le barriere

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«Ci sono almeno cinque direttrici di diversità che sono state a lungo escluse dal mondo della moda e che, anche per effetto di azioni di attivismo crescente, hanno cominciato a farsi strada, chiedendo di essere considerate, a tutti i livelli: età, etnia, forma (taglia), genere e infine disabilità»: lo si legge nel testo “Tu es canon. Pour une manifeste de la mode inclusive” (“Oltre il canone. Manifesto della moda inclusiva”). Entriamo dunque ad esplorare il mondo della moda adattiva

Il primo germoglio della moda adattiva si trova alla metà del secolo scorso negli Stati Uniti, con i capi studiati per i reduci di guerra che per le sopraggiunte necessità dovute ai traumi subiti nel conflitto, avevano bisogno di un abbigliamento più pratico. Pratico e basta, non conforme ai gusti personali, non un vestito, ma un’“uniforme” che doveva assolvere soltanto al compito di essere comoda da indossare e togliere, senza concessioni alla bellezza.
Negli Anni Cinquanta, sempre negli USA, arrivò il primo marchio, Functional Fashions, impegnato specificatamente nell’ideazione di capi inclusivi. Bisogna aspettare quarant’anni per la scossa che accese i riflettori sul diritto di ogni uomo e ogni donna di sentirsi a proprio agio indossando un abbigliamento sia confortevole che bello, con il quale esprimere la propria personalità. Nel 1998, infatti, Alexander McQueen fece sfilare in passerella l’atleta paralimpica Aimée Mullins con indosso protesi in legno da lui intagliate, la prima top model con disabilità.
Lo stesso anno sempre McQueen sfidò di nuovo le convenzioni sul magazine «Dazed and Confused», con n numero speciale intitolato Fashion Able?, dove i soggetti presentati erano persone con disabilità, tra cui di nuovo Aimée Mullins e il ballerino David Toole al quale erano state amputate le gambe a causa di una malformazione. Nelle parole che accompagnavano il servizio fotografico si sottolineava come l’ambiente della moda tramandasse un ideale di bellezza irrealistico, mentre avrebbe dovuto essere uno spazio e un veicolo di inclusione, una rappresentazione delle “diversità”.
Il “manifesto” dell’Adaptive Fashion, anglicismo che sta appunto per “moda adattiva”, era scritto. Non si parlava ancora apertamente di coniugare nel concreto lo stile alla vestibilità, ma queste iniziative misero in luce le esigenze delle persone con disabilità, una “fetta di mercato” fino ad allora non considerata.

Sono passati più di due decenni e questo comparto della moda è cresciuto, arrivando ad un volume d’affari globale di 350 miliardi di dollari nel 2023. Una cifra che non deve stupire, visto che solo in Italia 3 milioni di persone hanno una disabilità e se ci allarghiamo ai cinque continenti arriviamo al 16% della popolazione mondiale.
Dietro l’abbigliamento adattivo c’è ricerca estetica che segue le tendenze della moda e ricerca funzionale per trovare accorgimenti in grado di agevolare la vestizione di persone con disabilità diverse, permanenti o temporanee. Per questo troviamo scarpe che calzano senza bisogno di stringhe da allacciare, capi senza cuciture o con etichette semplici da rimuovere, pantaloni con passanti in vita, maniche che si infilano con facilità, bottoni a pressione o magnetici, vestiti “accorciati” per chi si muove in sedia a rotelle e rischia di impigliare l’abito nelle ruote, cerniere magnetiche o apribili con una sola mano e dotate di grandi linguette per essere facilmente afferrabili, ampie aperture del collo, ma anche tasche nascoste per i tubi dell’alimentazione, le stomie o i cateteri.

Appurato che anche l’abbigliamento può essere una barriera da superare, quanto è diffusa questa consapevolezza tra le persone con e senza disabilità? Se lo è chiesto Zalando, noto sito di vendita online di moda, che ha lanciato l’anno scorso la sua prima collezione di abbigliamento sportivo adattivo, sviluppata per e con il contributo diretto di persone con disabilità che praticano sport, avvalendosi anche della collaborazione di Ottobock, leader nel settore delle protesi e degli ausili. Un impegno iniziato nel 2022 con una selezione di abbigliamento, calzature e accessori prodotti con attenzione alla funzionalità e al design, divenuto concreto con speciali filtri che consentono una migliore scelta degli articoli online, grazie a immagini dettagliate e chiare descrizioni che oggi prosegue con una ricerca condotta dall’istituto di ricerca YouGov su 1.500 italiani, tra cui oltre 200 con disabilità, per capire quale sia il grado di conoscenza della moda adattiva.
Primo dato: l’81% degli intervistati non sa cosa sia. Un po’ meglio tra le nuove generazioni che mostrano una maggiore sensibilità verso l’argomento. A sorprendere è il fatto che il 70% delle persone con disabilità non abbia mai sentito parlare di moda adattiva, il che sottolinea le sfide che dovranno affrontare l’industria e il commercio del settore. Soltanto il 21%, infatti, è stato in grado di menzionare esempi di aziende che già offrono articoli di abbigliamento e accessori accessibili.
La moda è considerata il terzo campo meno inclusivo per le persone con disabilità (24%), dietro a trasporti (50%) e urbanistica (44%). Alla domanda su quali caratteristiche dovrebbe avere una collezione di moda adattiva, il 36% ritiene importante la descrizione dei prodotti che metta in evidenza le caratteristiche “speciali” dei capi, il 20% desidera una selezione ampia e variegata, il 19% prezzi abbordabili e testimonial con esperienza diretta della disabilità (15%). Di contro, i principali limiti evidenziati sono la poca consapevolezza dei brand (41%) e i costi elevati (38%). Il 60% ritiene che la moda adattiva non sia esclusiva delle persone con disabilità, ma che lo sviluppo di essa potrebbe essere utile per tutte le fasce di età, pensando ad esempio alle persone anziane che hanno difficoltà di movimento.
Come canali di acquisto di abbigliamento adattivo, il digitale è scelto dal 35% dei rispondenti, particolarmente apprezzato per la possibilità di evitare negozi affollati e non sempre accessibili. Per le persone con disabilità gli eventi e le sfilate rappresentano il canale più adatto per conoscere la moda adattiva (37%), a cui seguono i social media (32%), i testimonial (31%) e i media tradizionali (28%).
La ricerca evidenzia inoltre una fiducia diffusa in merito al futuro, tanto che il 58% ritiene che sempre più aziende negli anni a venire proporranno capi di questa tipologia, un dato che aumenta al 67% tra i più giovani e arriva al 69% per le persone con disabilità intervistate.
Tra le strategie che potrebbero rendere la moda adattiva più visibile, al primo posto vi sono le recensioni online di persone con disabilità che mostrano l’uso dei capi (30%), seguono comunicazioni mirate da parte delle aziende (26%) e la creazione di un’area dedicata sui siti dei brand e della vendita online (18%).

Il potere della moda al servizio della disabilità, ovvero una domanda centrale: perché si crede che le persone con disabilità non siano interessate alla moda? Il punto chiave è che se si vuole che il fashion sia inclusivo bisogna dare la parola ai diretti interessati.
È quello che hanno fatto Elisa Fulco, storica dell’arte contemporanea che si occupa di responsabilità sociale d’impresa e di inclusione sociale attraverso la cultura, Teresa Maranzano, che dal 1999 al 2008 ha diretto l’Atelier di pittura del Centro di riabilitazione psichiatrica Fatebenefratelli di San Colombano al Lambro (Milano) e che attualmente lavora per l’Associazione ASA-Handicap Mental di Ginevra, e Roberta Paltrinieri, professoressa ordinaria di Sociologia dei Processi Culturali e Creativi presso il Dipartimento delle Arti dell’Università di Bologna, di cui è anche vicedirettrice.
Insieme hanno redatto Tu es canon. Pour une manifeste de la mode inclusive (“Oltre il canone. Manifesto della moda inclusiva”), un testo che è un lavoro collettivo portato avanti da venti persone di ASA-Handicap Mental, provenienti da luoghi diversi, con differenti disabilità o senza disabilità, che si sono interrogate su una pluralità di temi, mettendo al centro i bisogni e i desideri degli individui. Il manifesto, disponibile in formato ebook, edito da FrancoAngeli e scaricabile gratuitamente a questo link, ricostruisce la storia e le origini della moda adattiva, confrontandosi con i meccanismi di inclusione e di esclusione portati avanti con l’imposizione di canoni estetici costrittivi. In esso si racconta come rappresentazione delle differenze, attivismo, equità, partecipazione e co-progettazione siano alla base di un processo di revisione in corso anche all’interno delle scuole di moda.
Grazie alle testimonianze delle persone con disabilità, Tu es canon trasmette con chiarezza perché il diritto allo stile sia da considerarsi un diritto primario e universale che accomuna tutti e tutte. «Le persone con disabilità affrontano molte barriere nella loro vita e l’abbigliamento non dovrebbe essere una di queste. Non vogliamo vivere in un’uniforme di pantaloni da jogging e magliette, ma spesso non abbiamo scelta», parola di Victoria Jenkins, fondatrice nel 2016 del marchio Unhidden, il primo brand di moda adattiva a far parte del British Fashion Council.
Victoria, ambasciatrice di Models of Diversity e co-fondatrice di No Comment Required, una linea di abbigliamento incentrata sulla rappresentazione positiva delle persone con problemi di salute mentale e disabilità, ha di recente collaborato alla creazione di 49 capi inclusivi a un prezzo accessibile, disponibili da gennaio di quest’anno presso 31 negozi Primark, azienda irlandese con punti vendita di abbigliamento in numerosi Paesi europei, tra cui l’Italia, e negli Stati Uniti. Questa collezione si basa sul successo della biancheria intima adattiva Primark, lanciata nel 2024, e la campagna promozionale presenta modelle con disabilità.

In conclusione, la moda fornisce un punto di vista privilegiato per parlare di inclusività a tutto tondo e non a caso è stato uno dei primi àmbiti in cui si sono viste persone di diverse etnie, e aspettative rispetto al corpo che si sono evolute, accogliendo ad esempio modelle dalle forme morbide. Come si evidenzia nella prefazione di Tu es canon, «ci sono effettivamente almeno cinque direttrici di diversità che sono state a lungo escluse dal mondo […] della moda e che, anche per effetto di azioni di attivismo crescente, hanno cominciato a farsi strada, chiedendo di essere considerate, a tutti i livelli: età, etnia, forma (taglia), genere e infine disabilità. Parlare di inclusione e di diritti della moda […] significa appunto considerarla come un fenomeno in cui i bisogni, le aspirazioni, il desiderio di riconoscimento che devono potersi esprimere non sono solo quelli del canone dominante, ma che anzi quest’ultimo va ridefinito in modo inclusivo».

*Direttrice responsabile di Superando.

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Il diritto all’inclusione non è una concessione, ma un principio fondamentale che riguarda tutti e tutte

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«Desideriamo esprimere la nostra solidarietà – scrivono dall’Associazione sammarinese Attiva-Mente – alle persone con disabilità degli Stati Uniti, che da queste settimane vivono con molte meno certezze riguardo alle tutele dei loro diritti. E lo facciamo gridando con fermezza che il diritto all’inclusione non è una concessione, ma un principio fondamentale che riguarda tutti e tutte. Difenderlo significa costruire una società più giusta e rispettosa della diversità» L’americano Edward (Ed) Verne Roberts (1939-1995) è stato la prima persona con grave disabilità a frequentare l’Università di Berkeley in California ed è riconosciuto come uno dei “padri” del movimento mondiale per i diritti e la vita indipendente delle persone con disabilità

Desideriamo esprimere la nostra solidarietà alle persone con disabilità degli Stati Uniti, che da queste settimane vivono con molte meno certezze riguardo alle tutele dei loro diritti.
Da decenni, il Programma DEI (Diversity, Equity and Inclusion) rappresenta un pilastro della sicurezza sociale americana, sia a livello nazionale che internazionale. Si tratta di un insieme di strumenti concreti per garantire pari opportunità e abbattere le barriere che limitano milioni di cittadini negli Stati Uniti e, attraverso l’Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale (USAID), per sostenere le comunità più vulnerabili nei Paesi in via di sviluppo. Oggi, queste comunità si ritrovano improvvisamente senza sostegni fondamentali persino per la loro sopravvivenza. A loro va tutta la nostra solidarietà.
Le iniziative del DEI, da cui per altro dipendono migliaia di funzionari e impiegati, mirano a ridurre le disuguaglianze sistemiche in settori fondamentali come l’istruzione, la sanità e l’occupazione, fornendo soluzioni mirate alle diverse esigenze delle comunità.
Tutto questo è gravemente minacciato. Il 20 gennaio scorso, infatti, nel suo primo giorno in carica, il presidente degli Stati Uniti Trump ha emesso un ordine esecutivo che smantella significativamente questi strumenti e, successivamente, un altro che congela (si spera momentaneamente) i fondi federali a favore dell’inclusione delle persone statunitensi con disabilità.

Questa notizia sconcerta e desta molta preoccupazione, se pensiamo che proprio negli Stati Uniti sono partite le rivendicazioni per i diritti delle persone con disabilità, portate avanti con grande coraggio sin dagli Anni Settanta – come le storiche proteste all’Università di Berkeley in California per la Vita Indipendente –divenute poi vere e proprie leggende, modelli di riferimento globale per l’inclusione e l’accessibilità.
Non solo: Trump ha insinuato che le politiche di inclusione lavorativa possano avere influito sul recente incidente aereo avvenuto a Washington, attribuendolo – senza alcuna prova – alla presenza di controllori di volo con disabilità.
Così facendo, non si fa altro che alimentare intenzionalmente i pregiudizi e distorcere il dibattito sull’inclusione, trasformando chi chiede pari opportunità in un facile bersaglio.

La storia ci insegna che le persone con disabilità sono spesso le prime vittime delle politiche discriminatorie e dei regimi autoritari. Lo storico tedesco naturalizzato statunitense Henry Friedlander sottolineava come l’esclusione nazista non nacque all’improvviso, ma si sviluppò progressivamente, attraverso una sistematica opposizione all’uguaglianza. La strategia era chiara: insinuare l’idea che alcune vite fossero un peso per la società, fino a giustificarne la marginalizzazione.
Solo pochi giorni fa, in occasione del Giorno della Memoria del 27 gennaio, avevamo pubblicato una riflessione sul valore della dignità umana. Ricordavamo come la negazione della dignità sia sempre il primo passo verso l’esclusione e la discriminazione. Oggi ci troviamo di fronte a un nuovo vergognoso attacco a questo principio fondamentale.

Le barriere che incontrano le persone con disabilità non sono solo fisiche, ma anche culturali ed economiche. Abbatterle significa eliminare i pregiudizi attraverso politiche concrete: investire in accessibilità, fornire strumenti adeguati, garantire ambienti inclusivi per la scuola, il lavoro, la socialità, la vita pubblica e così via. Piuttosto che affrontare seriamente queste sfide, si preferisce invece creare alibi, per eludere le responsabilità e trasformare la questione in una disputa politica.
L’indignazione, tuttavia, sembra essere merce rara. Salvo poche eccezioni, infatti, ancora più allarmante è il silenzio che accompagna questo doppio attacco del Presidente degli Stati Uniti. Un silenzio che, purtroppo, si riflette anche nella nostra realtà sammarinese, dove abbiamo atteso che qualcuno intervenisse, confidando che almeno su temi di tale rilevanza si levasse una voce di denuncia da parte della politica, dei sindacati, e da parte di chi, a qualsiasi livello, dovrebbe difendere i principi di uguaglianza e giustizia sociale.
Sottovalutando vicende di questa natura, si rischia di invertire il cammino verso una società realmente inclusiva e non abilista, consentendo ai pregiudizi di radicarsi ancora di più.
Pertanto, nel ribadire la nostra solidarietà, gridiamo con fermezza che il diritto all’inclusione non è una concessione, ma un principio fondamentale che riguarda tutti e tutte. Difenderlo significa costruire una società più giusta e rispettosa della diversità.

*Attiva-Mente è un’Associazione della Repubblica di San Marino (contatto@attiva-mente.info).

Sui temi trattati dal presente contributo di riflessione, segnaliamo, sulle nostre pagine, i seguenti testi:
° Una diffamazione collettiva di tutte noi persone con disabilità di Salvatore Nocera.
° “Vite indegne” e “silenzio assordante”, due pericolosi ossimori di Stefania Delendati.
° A chi accosta la disabilità all’incompetenza rispondiamo con la foto di una deputata spagnola con disabilità.
° L’Unione Europea finanzi le organizzazioni di persone con disabilità colpite dai tagli USA!
.
° L’Unione Europea non può colmare il vuoto lasciato da altri.

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Antonio Di Bella nuovo presidente dell’ANMIL

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Antonio Di Bella è stato eletto alla Presidenza Nazionale dell’ANMIL (Associazione Nazionale fra Lavoratori Mutilati e Invalidi del Lavoro), subentrando a Emidio Deandri, costretto ad abbandonare la carica per ragioni di salute Antonio Di Bella, nuovo presidente dell’ANMIL

«Farò del mio meglio per una carica che mi onora enormemente. Pur nelle difficoltà, interne ed esterne del momento, il dibattito nel nostro Consiglio Nazionale ha dimostrato la volontà di continuare a operare per preservare e potenziare il ruolo della nostra Associazione nella tutela delle vittime degli incidenti sul lavoro e delle malattie professionali, invalidi, orfani e superstiti, e portare avanti tutte le iniziative per la sicurezza e la prevenzione nei luoghi di lavoro la cui necessità è dimostrata anche dai dati relativi al 2024 resi noti dall’INAIL»: lo ha dichiarato Antonio Di Bella, dopo essere stato eletto alla Presidenza Nazionale dell’ANMIL (Associazione Nazionale fra Lavoratori Mutilati e Invalidi del Lavoro), subentrando a Emidio Deandri, costretto ad abbandonare la carica per ragioni di salute. (S.B.)

A questo link è disponibile un testo di approfondimento sulla notizia. Per altre informazioni: comunicazione@anmil.it.

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PEI e PDP: documenti obbligatori, ponti tra l’esclusione e la realizzazione

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Sono temi assai spesso presenti, sulle nostre pagine, quelli relativi al PEI (Piano Educativo Individualizzato) e al PDP (Piano Didattico Personalizzato), riguardanti studenti e studentesse con disabilità, DSA (Disturbi Specifici di Apprendimento) o altri Bisogni Educativi Speciali. Ma ricapitolare il quadro complessivo non fa certo male e per questo diamo spazio al presente approfondimento di Marie Helene Benedetti, presidente dell’Associazione Asperger Abruzzo

Molte famiglie si trovano di fronte a un problema ricorrente: nelle scuole, alcuni docenti non rispettano l’obbligatorietà del PEI (Piano Educativo Individualizzato) o il Piano Didattico Personalizzato (PDP). Questa situazione non solo genera confusione, ma mette seriamente a rischio il diritto allo studio e all’inclusione degli studenti con disabilità o con Bisogni Educativi Speciali (BES).

Cosa sono PEI e PDP?
Il PEI è un documento la cui obbligatorietà è sancita, per gli alunni con disabilità certificata, ai sensi della Legge 104/92. Esso definisce gli obiettivi educativi, gli strumenti compensativi e le misure dispensative necessarie per garantire un percorso scolastico adeguato e inclusivo.
Viene elaborato dal GLO (Gruppo di Lavoro Operativo per l’Inclusione) e, per legge, deve essere letto, firmato e applicato da tutti i docenti dell’alunno. Raccomandiamo sempre ai genitori di firmarlo previa integrale lettura, e se hanno dubbi sono tenuti a chiedere chiarimenti ai docenti stessi. Per legge i genitori devono anche partecipare materialmente alla stesura di questo documento.
A questo link sono disponibili le Linee Guida Ministeriali per il PEI.
Il PDP, poi, (Piano Didattico Personalizzato) è un documento che riguarda gli studenti con DSA (Disturbi Specifici dell’Apprendimento), come stabilito dalla Legge 170/10 e anche tutti gli alunni con BES (Bisogni Educativi Speciali), secondo la Direttiva Ministeriale del 27 dicembre 2012.
I BES comprendono tre grandi categorie: studenti con disabilità (che hanno un PEI), studenti con disturbi evolutivi specifici (come DSA, ADHD-Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività, disturbi del linguaggio, funzionamento intellettivo limite), e studenti con svantaggio socio-economico, linguistico o culturale. Per questi ultimi, il Consiglio di Classe può decidere di attivare un PDP per garantire il supporto necessario. Inoltre, in situazioni di disagio, anche di natura psicologica o legata a difficoltà temporanee, il PDP può essere redatto anche in assenza di una diagnosi clinica.
Questo strumento permette di fornire agli studenti i giusti supporti per affrontare il percorso scolastico in modo sereno ed equo. Per legge, deve essere letto, firmato e applicato da tutti i docenti dell’alunno. Esso stabilisce le strategie didattiche personalizzate e gli strumenti compensativi e dispensativi per sostenere gli studenti nel loro percorso scolastico, evitando situazioni di svantaggio e garantendo pari opportunità.

Perché si redigono PEI e PDP?
L’obbligatorietà di PEI e PDP è fondamentale per garantire il diritto allo studio e prevenire situazioni di esclusione, frustrazione e demotivazione. Studenti con difficoltà di apprendimento o emotive possono trovarsi in seria difficoltà di fronte a prove non strutturate sulle loro necessità. L’assenza di strumenti adeguati può generare infatti un accumulo di stress che compromette il loro rendimento e la loro autostima.
PEI e PDP non sono “favori” concessi agli studenti, ma strumenti necessari per evitare che bambini e ragazzi vengano lasciati indietro. Il mancato rispetto di queste misure equivale a privare un alunno della possibilità di apprendere, con conseguenze spesso irreparabili sul suo futuro.

L’importanza dell’applicazione obbligatoria
Alcuni docenti, anziché applicare con serietà questi strumenti, mettono in dubbio – mai per iscritto, sempre verbalmente – le diagnosi rilasciate dal Servizio Sanitario Nazionale. Questo comportamento non è solo inaccettabile, ma è un abuso che mina la credibilità di professionisti qualificati e, soprattutto, compromette il futuro di studenti che già affrontano ostacoli enormi.
Ignorare l’obbligatorietà di PEI e PDP significa calpestare il diritto all’istruzione e la dignità di studenti che già lottano ogni giorno per stare al passo. Questi documenti, infatti, sono strumenti giuridici vincolanti e ogni docente è obbligato per legge a rispettarli. Ignorarli significa appunto violare il diritto allo studio e negare agli studenti con BES le stesse opportunità offerte agli altri.

Cosa fare in caso di inadempienza?
Se un insegnante o un’istituzione scolastica non applica il PEI o il PDP, i genitori possono tutelare i diritti dei propri figli attraverso diversi passaggi:
° Dialogo con gli insegnanti e il dirigente scolastico: a volte la mancata applicazione nasce da disinformazione. Un confronto può chiarire la situazione.
° Coinvolgimento del GLO o del Consiglio di Classe: nel caso del PEI, il GLO è l’organo deputato a monitorarne l’attuazione. Per il PDP, è il Consiglio di Classe.
° Segnalazione scritta alla scuola: è importante formalizzare le richieste via PEC per ottenere una risposta ufficiale.
° Ricorso all’Ufficio Scolastico Regionale (USR) o al Ministero dell’Istruzione e del Merito: in caso di violazioni gravi, si può presentare un esposto agli organi superiori.
° Supporto delle Associazioni: nello specifico, la nostra Associazione [Asperger Abruzzo, N.d.R.] fornisce assistenza alle famiglie e, se necessario, supporto legale per garantire il rispetto delle normative [ci si può rivolgere inoltre, tra gli altri, anche al Centro Studi Giuridici HandyLex della FISH o al Centro Antidiscriminazione Franco Bomprezzi della Federazione LEDHA, N.d.R.].

L’essenza dell’insegnamento
Un vero insegnante non è colui che porta avanti solo gli studenti eccellenti, ma chi sa far crescere tutti. La vera sfida della scuola non è premiare chi è già in grado di emergere, ma sostenere chi ha bisogno di più tempo, più strumenti, più comprensione. Rispettare dunque l’obbligatorietà di PEI e PDP è un dovere fondamentale delle istituzioni scolastiche e le famiglie hanno il diritto di esigerlo.
La consapevolezza è l’arma più potente per far valere questi diritti e trasformare l’inclusione da teoria a realtà.

Non esistono studenti che vogliono essere “gli ultimi”
Ogni bambino, ogni ragazzo, vuole essere bravo, vuole dimostrare di farcela. Se qualcuno smette di provarci, non è perché non abbia voglia, ma perché ha perso la speranza. Perché il mondo gli ha detto troppe volte che non vale abbastanza. Perché il massimo sforzo che mette nello studio non è mai sufficiente, e a un certo punto, semplicemente, si arrende.
PEI e PDP sono ponti tra la disperazione e la possibilità, tra l’esclusione e la realizzazione. Sono strumenti che decidono il futuro di questi studenti: un futuro in cui si sentono parte del mondo o uno in cui si sentono un fallimento.
L’inclusione non è un atto di benevolenza, è un diritto e quando una scuola lo dimentica, sta facendo qualcosa di gravissimo, sta cioè decidendo quali vite meritano di sbocciare e quali no. Ma nessuno ha questo diritto. Nessuno. Perché dietro ogni difficoltà c’è un potenziale inespresso che aspetta solo di trovare la sua strada.
Oggi questi studenti sono ragazzi. Domani saranno il mondo. E se non li aiutiamo adesso, sarà il mondo intero a perderli. 

*Presidente dell’Associazione Asperger Abruzzo.

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Disabilità e inclusione lavorativa: un “patto” tra investitori, aziende e terzo settore

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“Disabilità e lavoro, la sfida possibile”: l’evento organizzato da Azimut in collaborazione con il Ministero per le Disabilità ha stimolato il confronto tra pubblico, privato e Terzo Settore per costruire modelli di inclusione Il palco dei relatori all’incontro dell’11 febbraio a Roma

Approfondire strategie e modelli di collaborazione volti a favorire l’inserimento lavorativo delle persone con disabilità. Con questo obiettivo, l’evento Disabilità e lavoro: la sfida possibile, organizzato da Azimut in collaborazione con il Ministero per le Disabilità, ha riunito istituzioni, imprese ed enti del Terzo Settore, lo scorso 11 febbraio, presso la Sala Polifunzionale della Presidenza del Consiglio a Roma (lo avevamo presentato a questo link).

«Se vogliamo crescere come comunità e come Paese dobbiamo investire nelle capacità di ogni persona – ha dichiaratlo per l’occasione la ministra per le Disabilità Alessandra Locatelli -. Valorizzare le potenzialità ed evitare di soffermarsi sui limiti è il primo passo per offrire opportunità a tutti e garantire la piena inclusione. È un tema molto attuale, l’Italia è l’unico Paese in Europa ad avere una legge sull’inclusione lavorativa, ma sono ancora tante le difficoltà da superare, tra cui il fatto che molte aziende non hanno sviluppato politiche e strategie in grado di sfruttare il valore di ogni persona».

La Fondazione Italiana Accenture ha presentato i risultati della ricerca denominata Persone con Disabilità e Lavoro: oltre le barriere – Dati e storie di inclusione lavorativa in Italia, mettendo in luce la situazione dell’inclusione lavorativa delle persone con disabilità attraverso un’analisi quantitativa su 100 aziende italiane e una disamina delle buone pratiche di collaborazione imprese-Enti del terzo settore.

A seguire, si è svolto il dibattito tra Marco Fazi, amministratore delegato di Azimut Capital Management SGR e gestore del fondo Az Fund 1 – Az Equity – Special Needs & Inclusion; Silvia Gabbioneta, Country Inclusion &Diversity Manager di Nokia Italia; Serena Porcari, aministratrice delegata della Fondazione Dynamo Camp; Andrea Bonsignori, presidente e fondatore di BreakCotto. Tale dibattito ha permesso di confrontare esperienze concrete e modelli di collaborazione tra finanza, imprese ed Enti del Terzo Settore. I partecipanti hanno sottolineato in particolare la necessità di un impegno congiunto per rendere il mercato del lavoro più accessibile.
Marco Fazi ha dichiarato: «L’incontro di oggi ha messo ulteriormente in evidenza come il lavoro non sia solo una fonte di reddito, ma un importante strumento di indipendenza e di miglioramento della qualità della vita per le persone con disabilità. La finanza può essere un potente motore di cambiamento, ma serve un patto tra investitori, aziende ed enti del terzo settore per trasformare il risparmio in un’opportunità concreta di inclusione».

Andrea Bonsignori, presidente e fondatore di BreakCotto ha affermato: «Breakcotto è onorata di partecipare a questa iniziativa, crediamo che l’unione tra multinazionali e terzo settore non sia un gesto di equity, ma una reale possibilità di “pensiero nuovo” per inglobare le qualità di tutti e che per anni sono stati ignorati. Un convegno che può davvero far cambiare punto di vista su questo tema sempre relegato al solo terzo settore».

L’incontro, che si è concluso con la testimonianza di due persone con disabilità sulla loro esperienza lavorativa, è stato dunque l’occasione per ribadire l’importanza di rafforzare il dialogo tra tutti gli attori coinvolti, con l’obiettivo di sviluppare soluzioni efficaci e sostenibili per l’occupazione delle persone con disabilità, e per sottolineare come l’inclusione lavorativa non sia solo un dovere sociale, ma anche un’opportunità per le aziende e un valore per tutta la comunità. (C.C.)

Per maggiori informazioni: Viviana Merotto (Gruppo Azimut), corporate.communications@azimut.it.

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