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Quel che serve per un’intelligenza artificiale accessibile, equa e inclusiva

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«Per progettare un’intelligenza artificiale accessibile, equa e inclusiva è necessario partire da tre pilastri: consapevolezza, responsabilità e buoni progetti»: a dirlo è Nicola Gencarelli, responsabile della ricerca tecnologica per la Fondazione ASPHI, nel quadro del dibattito sempre aperto su come l’intelligenza artificiale possa realmente aiutare a creare un mondo più inclusivo

Ma l’intelligenza artificiale (d’ora in poi semplicemente IA) può realmente aiutare a creare un mondo più inclusivo? La risposta è alquanto complessa.
Prima di tutto occorre fare un’importante premessa: gli habitat e gli spazi inclusivi, protagonisti della recente edizione di Handimatica, la mostra-convegno nazionale promossa a Bologna dalla Fondazione ASPHI e dedicata alle tecnologie digitali per una società inclusiva, non vengono mai costruiti dall’uomo in maniera neutrale poiché dietro la loro realizzazione ci sono sempre una decisione progettuale, una responsabilità e delle dinamiche di potere strutturali. Di conseguenza, l’IA, in modo autonomo, non può fare grandi cose; ogni singolo prodotto IA deve essere progettato e disegnato dall’uomo, in modo tale che sia egli stesso a decidere che possa essere utilizzabile da tutti e tutte.
D’altro canto, però, va ammesso che, in particolare, l’IA generativa ha aperto frontiere molto importanti, permettendo, infatti, di produrre descrizioni di immagini e oggetti più accurate per le persone cieche, trascrizioni più precise per quelle sorde e voci sintetiche maggiormente realistiche per chi ha delle disabilità comunicative. Inoltre, ha favorito l’interazione con il web e il digitale, sviluppando alcune interfacce che assistono, guidano e semplificano la ricerca delle informazioni per le persone anziane o con disabilità.

L’IA avrebbe la possibilità di rispondere ai bisogni di persone con particolari esigenze, ancora insoddisfatte, come il riconoscimento vocale per le persone con disartria [perdita della capacità di articolare le parole in maniera normale, N.d.R.] e parlato atipico, l’accessibilità a grafici, mappe e formule matematiche per i ciechi, assistenti virtuali per supportare l’autodeterminazione per chi ha una disabilità cognitiva. Stiamo parlando al condizionale perché, anche in questo caso, è fondamentale l’intervento dell’uomo.
In questo momento è facilmente constatabile che elementi come il riconoscimento vocale, invece di essere di aiuto, in molti casi possono generare ulteriori discriminazioni per differenze linguistiche, geografiche, economiche. Così come i dati che riguardano in modo specifico le persone con disabilità, in quanto non sono la realtà, ma un modo con cui noi la rappresentiamo, e conseguentemente la progettiamo, producendo, per lo più, ulteriori barriere, invece di abbatterle.

La citata Fondazione ASPHI, per favorire il più possibile l’intervento dell’uomo nell’utilizzo dell’IA, promuove progettualità concrete che si basano anche sull’esperienza personale di persone con disabilità. Il progetto CapisciAMe, ad esempio, condotto da Davide Mulfari, ingegnere con disabilità motoria e disatria, ha lo scopo appunto di sviluppare un sistema di riconoscimento vocale proprio per le persone con diverse forme di parlato atipico legate a condizioni di disabilità [se ne legga già anche sulle nostre pagine, N.d.R.].
E ci sono altri esempi analoghi, la cui validità dipende dal fatto che l’ideatore, come è successo per Mulfari, non ha pensato solamente a chi ha quel determinato deficit, ma a soluzioni strutturate, che possano cioè rispondere alle esigenze di molti, grazie a soluzioni collettive, partecipate e documentate.
A monte di questo tipo di lavoro, occorre avere a disposizione dati aggregati, strutturati e significativi, rispetto ai bisogni, ai desideri e alle aspettative delle persone con disabilità.
«Per progettare un’intelligenza artificiale accessibile, equa e inclusiva è necessario partire da tre pilastri – dichiara Nicola Gencarelli, responsabile della ricerca tecnologica per la Fondazione ASPHI -: consapevolezza, responsabilità e buoni progetti. Dobbiamo riconoscere che ogni scelta progettuale ha conseguenze non neutre perché influenzata da dataset spesso sbilanciati verso standard dominanti di tipo linguistico, culturale, economico e di abilità. Essere responsabile significa comprendere che le nostre scelte incidono sul modo in cui le persone vivono e interagiscono con il mondo, e che siamo parte del futuro collettivo. Solo attraverso un design inclusivo e collaborativo, che valorizzi i bisogni è i desideri marginalizzati, possiamo costruire strumenti capaci di abbattere barriere e promuovere un reale equità. È da questo approccio artigianale che può nascere un’IA in grado di rispondere alle specificità locali e di connettere soluzioni globali con il sapere e le esigenze delle società civili. In questo contesto, ASPHI svolge un ruolo cruciale, favorendo il dialogo tra aziende, enti di ricerca, associazioni e società civile, per sviluppare tecnologie assistive che siano realmente utili e accessibili».

*Il presente contributo è già apparso in “InVisibili”, blog del «Corriere della Sera.it», con il titolo “L’Intelligenza Artificiale e la disabilità: molti vantaggi ma il dibattito è aperto”, e viene qui ripreso, con alcuni riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.

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Assenze per malattia del lavoratore con disabilità? Verificarne le ragioni

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Un interessante precedente, utile a “fare giurisprudenza” nel senso della tutela di lavoratori e lavoratrici con disabilità, è dato da una recente Ordinanza della Corte di Cassazione, secondo la quale la conoscenza dello stato di disabilità del lavoratore da parte del datore di lavoro comporta l’onere datoriale di acquisire, prima di procedere al licenziamento, informazioni circa l’eventualità che il superamento del limite di assenze per malattia sia connesso allo stato di disabilità

«In tema di licenziamento, costituisce discriminazione indiretta l’applicazione dell’ordinario periodo di comporto [totale delle assenze per malattia] previsto per il lavoratore non disabile al lavoratore che si trovi in condizione di disabilità, perché la mancata considerazione dei rischi di maggiore mobilità dei lavoratori disabili, proprio in conseguenza della disabilità, trasmuta il criterio, apparentemente neutro, del computo dello stesso periodo di comporto in una prassi discriminatoria nei confronti del particolare gruppo sociale protetto in quanto in posizione di particolare svantaggio [grassetti nostri in questa e nelle successive citazioni, N.d.R.]»: sta in questo passaggio e soprattutto in quello successivo, tutta l’importanza di una recente Ordinanza della Corte di Cassazione (Sezione Lavoro), pubblicata il 7 gennaio scorso e disponibile integralmente a questo link, che in tal senso ha accolto in alcune parti il ricorso di un lavoratore con disabilità nei confronti di una precedente Sentenza della Corte d’Appello di Torino. Nella parte successiva dell’Ordinanza, infatti, si scrive che «la conoscenza dello stato di disabilità del lavoratore da parte del datore di lavoro fa sorgere l’onere datoriale di acquisire, prima di procedere al licenziamento, informazioni circa l’eventualità che le assenze per malattia del dipendente siano connesse allo stato di disabilità, al fine di individuare possibili accorgimenti ragionevoli».
Nello specifico, la Corte territoriale aveva «accertato che la società era a conoscenza della condizione di disabilità del lavoratore» e aveva «intimato il licenziamento per superamento del periodo di comporto (il medesimo previsto anche per le persone prive di disabilità) senza procedere ad acquisire informazioni circa la correlazione tra assenze per malattie del dipendente e stato personale di disabilità».

Un interessante precedente, quindi, utile a “fare giurisprudenza” nel senso della tutela di lavoratori e lavoratrici con disabilità. (S.B.)

Ringraziamo per la segnalazione Elisa Marino dell’Ufficio Legislativo della FISH (Federazione Italiana per i Diritti delle Persone con Disabilità e Famiglie).

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Audiodescrizione: dalla mediocrità all’“aurea mediocritas”

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«È una vera e propria battaglia, quella delle audiodescrittrici e degli audiodescrittori seri e ben formati, contro l’invisibilità, l’esclusione e la mediocrità sferzate da tanti agenti negativi, che per interessi personali o superficialità, banalizzano una professione dalla vocazione nobilissima, com’è per chiunque operi nel settore dell’accessibilità»: lo scrive Savio Tanzi, raccontando di un incontro dell’UICI Emilia Romagna con la dialoghista, audiodescrittrice e insegnante Laura Giordani

Chiunque ama l’aurea via di mezzo,
al sicuro sta lontano dallo squallore di un tetto diroccato
e sta lontano, sobrio, da una reggia invidiabile.
Orazio, Odi II 10

La buona riuscita di un progetto spesso passa per l’incontro. La prima metà di questi nuovi Anni Venti – inaugurati dalla pandemia – ci ha ormai dato in eredità la conferma che ci si può riunire anche in videoconferenza: gli Incontri del giovedì dell’UICI Emilia Romagna (Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti), ne sono un esempio.
Nel corso di una videoconferenza del 21 novembre scorso, il presidente del Consiglio Regionale UICI dell’Emilia Romagna Marco Trombini ha intrattenuto una chiacchierata informale con la dialoghista e audiodescrittrice romana Laura Giordani [“firma” anche di Superando, N.d.R.] che nel 2009 fu chiamata da “mamma RAI” per importare l’audiodescrizione (d’ora in poi abbreviata in AD) e stilare delle regole di “buona prassi” per film e serie TV, sulla base delle linee guida esistenti all’estero.
Il presidente Trombini ha raccontato che è nato tutto da una corrispondenza social: una reazione al post di un evento, una richiesta di contatto, una chat e da lì ha scoperto molto di più su quel nome che conosceva solo come autrice dei testi delle AD cinetelevisive. Ovvero che Laura Giordani è anche e soprattutto una dialoghista, una professoressa, un’insegnante che si è impegnata nella giusta causa di inserire nella filiera figure professionali cieche o ipovedenti. Da lì è nata l’idea di invitarla all’incontro. A posteriori, si è detto più che soddisfatto, visto il record di presenze che quella videoconferenza ha registrato.

All’inizio, Giordani ha portato la propria esperienza, parlando e sensibilizzando sull’AD nel suo solito stile: interloquendo con i suoi diretti interessati, i fruitori (cosa, ahinoi, per niente scontata). Muovendosi da un tema all’altro, l’incontro ha toccato le criticità che ancora vincolano l’AD e non permettono ad essa di spiccare il volo. Il tono della riunione è stato caratterizzato da trasporto e polemica, termine spesso usato nelle sue connotazioni più negative.
Ma la polemica qui ci vuole: dal greco πολεμικός (polemikós), la parola indica tutto ciò che è “attinente alla guerra”. Trattasi infatti di una vera e propria battaglia, quella delle audiodescrittrici e degli audiodescrittori seri e ben formati. Una guerra contro l’invisibilità, l’esclusione e la mediocrità sferzate da tanti agenti negativi, che per interessi personali o superficialità, banalizzano una professione dalla vocazione nobilissima (com’è per chiunque operi nel settore dell’accessibilità). Ma andiamo con ordine, toccando questi tre antagonisti contro cui lottare.

Invisibilità: qual è il colmo per un audiodescrittore – colui che rende il cinema “visibile” ai non vedenti – se non l’invisibilità? Di fatto, lo siamo. Per esempio, si è parlato degli anni di insistenza che ci sono voluti per far entrare nei vocabolari il lemma audiodescrizione all’interno delle loro raccolte, nonostante ogni film o fiction RAI si apra, ormai da anni, con il cartello che ne annuncia la fruibilità “sul canale audio digitale o satellitare dedicato”.
E che dire delle leggi che obbligano alla produzione di un’AD senza però assicurarsi che queste vengano rese fruibili? Di fatto, finiscono in cineteca senza che più nessuno possa metterci mano, o “orecchio”. Un esborso economico non indifferente che però non si traduce poi in una sua effettiva utilità.
L’invisibilità degli audiodescrittori straripa anche in àmbito fiscale: non esiste ancora un Codice ATECO per gli audiodescrittori, ovvero dei liberi professionisti che creano opere dell’ingegno com’è il copione (o testo descrittivo) di un’AD. Tutte criticità che Laura Giordani sottolinea e denuncia. Proprio sul fronte fiscale, il presidente Trombini ha dimostrato interesse, rilanciandole la palla per organizzare progetti futuri atti a battersi insieme in tal senso, con l’obiettivo di acquisire visibilità e “farsi sentire”.

Esclusione: il contrario dell’inclusività e quindi dell’accessibilità. Il testo (audio)descrittivo di un’opera è per definizione devoto all’inclusività: l’intero settore dovrebbe esserlo. L’inclusione di professionisti ciechi o ipovedenti nella filiera dell’AD dovrebbe dunque essere un qualcosa di irrinunciabile. Più di chiunque altro, loro possono percepire i bisogni dei fruitori, essendone anche i destinatari. È chiaro che per un cieco è difficile scrivere un testo di AD, ma può facilmente partecipare alla fase di collaudo o speakerarlo.
La professoressa Giordani ha portato l’esempio di Mario Loreti e Veronica Cosimelli, due ragazzi ciechi ma «dall’energia da spaccare il mondo» che ormai speakerano i copioni delle audiodescrizioni filmiche per professione.

Infine, il minimo comune denominatore di ogni lavoro superficiale: la mediocrità. È la cattiva consigliera che regna sovrana sulla spalla di tutti quei sedicenti audiodescrittori che, neofiti e sprovvisti della formazione necessaria, improvvisano scimmiottando qualsiasi AD reperibile in tivù o linea guida rintracciabile sul web, magari superata da trent’anni. Spesso non hanno un briciolo di cultura cinematografica o nozioni di linguaggio filmico, che sono imprescindibili: chi si accosta all’audiodescrizione con serietà lo sa bene. Ma, senza prenderci in giro, questo è un problema più grande: la mediocrità si deve spesso a un esercito di giovani adulti che, spaesati, tentano di insinuarsi nel mondo del lavoro alla bell’e meglio. Il sottoscritto che, venticinquenne, non da molto è transitato dal mondo della formazione a quello del lavoro, non può che confermarlo: la mediocrità è spesso un morbo che attacca anche i centri di formazione. Gli studenti impreparati, ma stufi di aspettare, daranno i frutti mediocri che formatori altrettanto scarsi avevano seminato nei loro allievi: così si alimenta un’inarrestabile catena della mediocrità.
Ma come riconoscere un’AD mediocre? Semplice: manca di tutte quelle accortezze che assicurano un ausilio accessibile per le persone con disabilità visiva e si mostra totalmente sprovvisto del rispetto in primis ai fruitori, ma poi anche all’opera audiovisiva e a chi l’ha creata, il regista.

Una buona audiodescrizione è fatta di equilibrio e discernimento: tra ciò che va detto e ciò che va lasciato intendere, rispettando ciò che il regista ha voluto per noi spettatori. Dunque mai anticipare dettagli, mai dare il nome di un personaggio prima che compaia nei dialoghi, mai sopperire alla mancanza parziale o totale del senso della vista, con un eccesso di informazioni inutili e asfissianti. Così facendo, roviniamo solo l’esperienza dello spettatore che, va ricordato, si dovrebbe solamente godere un film o l’episodio di una serie in santa pace.
Francesca, una partecipante all’incontro promosso dall’UICI Emilia Romagna, non avrebbe potuto dirlo meglio: l’AD dovrebbe «togliere al fruitore il fardello e la fatica mentale di dover unire insieme i pezzi di un puzzle disordinato, al quale mancano dei tasselli». Niente di più, niente di meno.

Da suo onorato e fortunato ex allievo, posso testimoniare che la professoressa Giordani consiglia sempre ai suoi studenti di scrivere in punta di sedia” e di fare venticinquemila passi indietro”: non si viene apprezzati per una scrittura autocompiaciuta e vanagloriosa, bensì per chiarezza, oggettività e semplicità (non a caso, i tre precetti fondamentali dell’AD). L’horror vacui lasciamolo ai rococò. E allora, se volessimo restare sulla scia dei classici, dalla “polemica” greca, dovremmo approdare all’aurea mediocritas latina: l’aurea via di mezzo. Il buon audiodescrittore deve saper mediare, con equilibrio e parsimonia, per assicurare un ausilio che si mantenga sempre discreto, rifuggendo dalla ridondanza.

D’altronde, la descrizione esiste da che mondo è mondo. È un fatto naturale, un bisogno che nasce dall’esperienza umana e che necessita di figure professionali che lo colmino. Rita, attrice e cantante cieca col sogno del doppiaggio, ha raccontato ai partecipanti all’incontro di quando, da piccola, la sorella le descriveva i cartoni animati come poteva. Adesso che lei è madre si chiede dov’è la giustizia nel fatto che suo figlio cieco non possa godersi un cartone animato insieme al fratello vedente, a meno che quest’ultimo non abbia voglia di armarsi della pazienza di descriverglielo come può.
Lo stesso presidente Trombini, da fruitore a contatto con tanti altri fruitori, ha dichiarato che – stando alla sua esperienza – «quasi tutti i non vedenti vanno a caccia di AD», osservando come la necessità di tale ausilio sia in crescita. Infatti, se prima degli Anni Novanta i film tendevano a lasciare molto spazio al suono e ai rumori, si è poi andati via via a dare sempre più importanza all’immagine: questo complessifica l’esperienza per le persone con disabilità visiva. Ma rimane un grosso problema: la mancanza di un indice univoco e aggiornato che renda conto dei prodotti audiodescritti. Rai e Netflix fanno un ottimo lavoro, l’app MovieReading invia delle notifiche sul cellulare, ma servirebbe un qualcosa di più ufficiale e meglio organizzato.
Questa e altre problematiche sono state portate all’orecchio delle figure UICI più di spicco a livello nazionale in un secondo incontro – il 17 dicembre – che, si è augurato il presidente Trombini, porti presto a dei frutti concreti.

La guerra all’invisibilità, all’esclusione e alla mediocrità va combattuta a spada tratta, sensibilizzando a suon di seminari, articoli e di lavori ineccepibili dal punto di vista della qualità. E a livello di attivismo sociale, il presidente del Consiglio Regionale UICI dell’Emilia Romagna, Marco Trombini, promette di andare anche oltre. Perché no? Magari con manifestazioni per acquisire quella visibilità tanto agognata. È la lotta per un futuro socialmente più accessibile per le persone con disabilità sensoriale, ma anche per uno più giusto dal punto di vista professionale per chi dedica o vorrà dedicare le proprie competenze a questa causa.

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La rigenerazione di un territorio deve passare anche per la riduzione delle disuguaglianze

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«La rigenerazione di un territorio va ben oltre la sua riqualificazione fisica, sebbene quest’ultima sia necessaria: richiede interventi riparativi e generativi, capaci di creare nuove opportunità e competenze»: lo ha dichiarato Vanessa Pallucchi, portavoce del Forum Nazionale del Terzo Settore, durante un’audizione alla Camera, presso la Commissione Parlamentare di Inchiesta sulle condizioni di sicurezza e sullo stato di degrado delle città e delle loro periferie

«Come Terzo Settore osserviamo che l’approccio delle politiche pubbliche nelle periferie si rivela spesso inefficace, concentrandosi su interventi di rigenerazione urbana o di contrasto al degrado, e utilizzando misure securitarie piuttosto che azioni mirate alla riduzione delle disuguaglianze. La rigenerazione di un territorio, però, va ben oltre la sua riqualificazione fisica, sebbene quest’ultima sia necessaria: richiede interventi riparativi e generativi, capaci di creare nuove opportunità e competenze»: lo ha dichiarato Vanessa Pallucchi, portavoce del Forum Nazionale del Terzo Settore, durante un’audizione alla Camera, presso la Commissione Parlamentare di Inchiesta sulle condizioni di sicurezza e sullo stato di degrado delle città e delle loro periferie. «Pertanto – ha aggiunto -, oltre agli interventi sugli edifici, le infrastrutture e gli spazi comuni, è fondamentale investire in azioni immateriali che rendano questi luoghi vivibili e attrattivi, aprendo nuove prospettive di vita e lavoro per gli abitanti. Occorre cioè migliorare l’offerta dei servizi, impostando come priorità l’istruzione, la salute, i servizi sociali e culturali, la casa, l’accessibilità e la mobilità».

«C’è bisogno – ha sottolineato ancora la Portavoce del Forum – di superare un approccio assistenzialista o pietistico e, al contrario, creare condizioni che restituiscano i diritti di base e promuovano autonomia e dignità. Lo stesso Terzo Settore, nelle periferie, si trova spesso a “riparare”, “ricucire” e “recuperare”, praticando una sorta di economia circolare applicata al sociale, mentre andrebbe valorizzato il ruolo fondamentale di esso nel costruire cittadinanza insieme a chi vive nelle periferie».

«Sono dunque quattro – ha concluso Pallucchi – le prospettive e gli interventi di sistema per le periferie da noi individuati, ovvero una politica intersettoriale in grado di integrare la riqualificazione fisica con quella sociale e culturale; la garanzia di servizi e infrastrutture pubbliche, spazi verdi e mobilità sostenibile; la promozione di politiche per un diritto all’abitare dignitoso e sostenibile; il contrasto alla povertà educativa, finanziando i Patti Educativi di Comunità e coinvolgendo tutti i soggetti del territorio». (S.B.)

A questo link è disponibile l’elenco dei soci e degli aderenti al Forum Nazionale del Terzo Settore, tra cui anche la FISH (Federazione Italiana per i Diritti delle Persone con Disabilità e Famiglie). Per ulteriori informazioni: stampa@forumterzosettore.it.

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Anche Temple Grandin al convegno sullo spettro autistico di Calambrone

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Temple Grandin, una delle persone più celebri al mondo nello spettro autistico, conosciuta per i suoi contributi e per la promozione della consapevolezza sull’autismo, e Giacomo Vivanti, ricercatore e docente di fama internazionale nel campo dell’autismo e del neurosviluppo, parteciperanno alla seconda edizione del convegno scientifico Disturbo dello spettro autistico e neurosviluppo: oltre i segni nucleari, organizzato per il 18 gennaio dall’IRCCS Fondazione Stella Maris di Calambrone (Pisa) Temple Grandin, una delle persone più celebri al mondo nello spettro autistico

Evento di riferimento per la comunità medico-scientifica, giunto alla sua seconda edizione, il convegno scientifico Disturbo dello spettro autistico e neurosviluppo: oltre i segni nucleari, organizzato dall’IRCCS Fondazione Stella Maris di Calambrone (Pisa), si terrà presso l’Auditorium della Fondazione stessa sabato 18 gennaio (ore 8.30-17), per affrontare temi particolarmente attuali, come l’autismo e la salute pubblica, approfonditi attraverso un approccio multidisciplinare e sotto la guida del responsabile scientifico Antonio Narzisi.

Nel dettaglio del programma, la sessione mattutina, moderata da Stefano Berloffa, aprirà con l’intervento del già citato Antonio Narzisi, che esplorerà il tema dell’autismo come condizione complessa o complicata. A seguire, Gabriele Masi approfondirà il neurosviluppo in ottica evolutiva.
Tra i momenti più attesi, la lettura magistrale denominata Autismo e salute pubblica: nuove evidenze e narrazioni in conflitto, proposta da Giacomo Vivanti della Drexel University di Philadelphia (USA), ricercatore e docente di fama internazionale nel campo dell’autismo e del neurosviluppo, mentre Annarita Milone si concentrerà sul legame tra empatia e disturbi del neurosviluppo e Pamela Fantozzi presenterà un focus sulle differenze di genere nell’autismo ed empatia.
Gli interventi proseguiranno quindi con Raffaella Tancredi, che illustrerà i fenotipi clinici dell’autismo, e Gianluca Sesso, che discuterà il funzionamento autonomo alterato nei giovani con disregolazione emotiva e disturbi del neurosviluppo.

La parte pomeridiana, moderata da Antonio Narzisi, avrà quale principale protagonista Temple Grandin dell’Università del Colorado, una delle persone più celebri al mondo nello spettro autistico, conosciuta per i suoi mirabili contributi e per la promozione della consapevolezza sull’autismo. Il suo intervento, intitolato Il mondo ha bisogno di tutti i tipi di menti, sarà sostanzialmente un’analisi ispiratrice sulle diversità cognitive.
Seguirà la relazione di Alvise Casanova sull’esperienza di inclusione lavorativa con il progetto Specialisterne, con la chiusura affidata a Susanna Pelagatti, che si soffermerà sugli approcci tecnologici utili a favorire l’inclusione delle persone autistiche (Oltre le parole: approcci anche tecnologici per l’inclusione delle persone autistiche nel mondo reale: questo il titolo del suo intervento). (S.B.)

Per ulteriori informazioni: Roberta Rezoalli (r.rezoalli@gmail.com).

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Altre riflessioni sul Garante Nazionale dei Diritti delle Persone con Disabilità

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Continuiamo a dare spazio a valutazioni e commenti riguardanti il Garante Nazionale dei Diritti delle Persone con Disabilità, istituito dalla Legge Delega 227/21 in materia di disabilità e dal Decreto Legislativo 20/24, attuativo di essa, il cui collegio è stato definito nel dicembre scorso. Ad esprimersi oggi su tale argomento è l’ANFFAS (Associazione Nazionale di Famiglie e Persone con Disabilità Intellettive e del Neurosviluppo)

L’Autorità Garante Nazionale dei Diritti delle Persone con Disabilità, prevista dalla Legge Delega 227/21 in materia di disabilità, è stata definita con il Decreto Attuativo n. 20 del 5 febbraio 2024. L’ufficio è stato reso operativo dal 1° gennaio di quest’anno. Si tratta di un organismo collegiale ed autonomo amministrativamente, non sottoposto a subordinazioni gerarchiche con sede a Roma.
L’atto di nomina è stato firmato dai Presidenti di Senato e Camera, chiamando a ricoprire tale importante ufficio per il prossimo quadriennio l’avvocato Maurizio Borgo, che assume anche la Presidenza, e il professor Francesco Vaia e il dottor Antonio Pelagatti, che andranno a comporre l’ufficio.

Tra le principali competenze e prerogative spiccano:
° vigilanza sul rispetto dei diritti e sulla conformità alle norme e ai princìpi stabiliti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti delle Persone con Disabilità e dagli altri trattati internazionali dei quali l’Italia è parte in materia di protezione dei diritti delle persone con disabilità, dalla Costituzione, dalle leggi dello Stato e dalle fonti subordinate nella medesima materia;
° contrasto dei fenomeni di discriminazione diretta e indiretta o di molestie in ragione della condizione di disabilità e del rifiuto dell’accomodamento ragionevole (di cui all’articolo 5, comma 2 del Decreto Legislativo 20/24);
° promozione dell’effettivo godimento dei diritti e delle libertà fondamentali delle persone con disabilità, su base di eguaglianza con gli altri, anche impedendo che esse siano vittime di segregazione;
° raccolta delle segnalazioni provenienti dalle persone con disabilità, da chi le rappresenta, dai familiari e dalle associazioni e dagli enti legittimati ad agire in difesa delle persone con disabilità, individuati ai sensi dell’articolo 4 della Legge 1°marzo 2006, n. 67, riguardante le misure di tutela giudiziaria delle persone con disabilità vittime di discriminazione, essendo legittimate ad agire a tutela dei diritti delle persone con disabilità le associazioni e gli enti individuati con apposito Decreto del Ministro per le Pari Opportunità, di concerto con il Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali;
° lo svolgere verifiche, d’ufficio o a seguito di segnalazione, sull’esistenza di fenomeni discriminatori;
° il richiedere alle amministrazioni e ai concessionari di pubblici servizi di fornire le informazioni e i documenti necessari allo svolgimento delle funzioni di loro competenza, prevedendo che i soggetti interpellati rispondano entro 30 giorni; in caso contrario, il Garante può chiedere l’ordine di esibizione dei documenti dal Presidente del Tribunale Amministrativo Regionale;
° formulazione di raccomandazioni e pareri alle amministrazioni e ai concessionari pubblici interessati sulle segnalazioni raccolte, anche in relazione a specifiche situazioni e nei confronti di singoli enti, sollecitando o proponendo, anche attraverso l’autorità di settore e di vigilanza, interventi, misure o accomodamenti ragionevoli idonei a superare le criticità;
° promozione, attraverso rapporti di collaborazione orizzontale e verticale, della cultura del rispetto dei diritti delle persone con disabilità, mediante campagne di comunicazione e informazione, progetti, iniziative e azioni positive, in particolare nelle istituzioni scolastiche, in collaborazione con le amministrazioni competenti per materia;
° promozione dei rapporti di collaborazione con i garanti e gli altri organismi pubblici comunque denominati a cui sono attribuite, a livello regionale o locale, specifiche competenze in relazione alla tutela dei diritti delle persone con disabilità, in modo da favorire, fatte salve le disposizioni vigenti in materia di trattamento dei dati anche sanitari, lo scambio di dati e di informazioni e un coordinamento sistematico ed efficace per assicurare l’applicazione uniforme dei principi di non discriminazione. Questa funzione dovrà essere esercitata secondo il principio di differenziazione, tenendo conto, dunque, delle differenze dei modelli di assistenza organizzati sui diversi territori;
° in accordo con l’articolo 4.3 della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, assicura forme di consultazione sui temi affrontati, sulle campagne e sulle azioni con le organizzazioni e le associazioni rappresentative delle persone con disabilità, nell’àmbito della tutela e della promozione dei diritti delle persone con disabilità;
° trasmissione annuale, entro il 30 settembre di ogni anno, di una relazione sull’attività svolta alle Camere, nonché al Presidente del Consiglio dei Ministri ovvero all’Autorità politica delegata in materia di disabilità, vale a dire il Ministro per le Disabilità;
° facoltà di visitare, senza necessità di autorizzazione o di preavviso e con accesso illimitato ai luoghi, avvalendosi, ove necessario, della collaborazione di altri organi dello Stato, le strutture che erogano servizi pubblici essenziali di cui alla Legge 12 giugno 1990, n. 146 e successive modificazioni e all’articolo 89, comma 2-bis, del Decreto Legge n. 34/2020 (Legge 77/2020);
° facoltà di visita degli istituti di cui agli articoli 67 e 67 bis della Legge 26 luglio 1975, n. 354, che detta le norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà, con riferimento, rispettivamente, alla visita senza autorizzazione degli istituti penitenziari da parte di soggetti politici o dell’ordinamento giudiziario, e alla visita delle camere di sicurezza;
° agire e resistere in giudizio a difesa delle proprie prerogative con il patrocinio dell’Avvocatura dello Stato;
° competenza nel definire e diffondere codici e raccolte delle buone pratiche in materia di tutela dei diritti delle persone con disabilità nonché di modelli di accomodamento ragionevole;
° collaborazione con gli organismi indipendenti nazionali nello svolgimento dei rispettivi compiti.

Il Garante si dovrà consultare, con cadenza almeno semestrale, sull’esercizio delle proprie funzioni, con le Federazioni maggiormente rappresentative delle persone con disabilità e dovrà garantire forme di concertazione in relazione alle specifiche attività di competenza. Inoltre, dovrà operare in collaborazione e stretta sinergia con l’Osservatorio Nazionale sulla Condizione delle Persone con Disabilità.
È poi importante evidenziare come la facoltà di visitare, senza necessità di autorizzazione o di preavviso e con accesso illimitato ai luoghi, le strutture che erogano servizi pubblici essenziali di cui alla Legge 146/90 (e successive modificazioni) e all’articolo 89, comma 2 bis del Decreto Legge 34/20 (Legge 77/20), e gli istituti di cui agli articoli 67 e 67 bis della Legge 354/75, conferita all’Autorità Garante per i Diritti delle Persone con Disabilità – anche in collaborazione con il Garante dei Diritti delle Persone private della Libertà Personale – sia di grande rilevanza poiché può contribuire in modo significativo a migliorare gli standard quali/quantitativi di tali importanti unità di offerta, promuovendone la transizione in chiave inclusiva e, conseguentemente, contribuire a migliorare la qualità di vita delle persone che ne usufruiscono, prevendendo e contrastando anche fenomeni di segregazione, maltrattamenti ed abusi, nonché agire affinché sia sempre garantito il pieno rispetto della loro dignità intrinseca ed estrinseca e sia contrastata ogni forma di discriminazione.
La competenza sul tema, oggi attribuita al Garante Nazionale per i Diritti delle Persone con Disabilità, e non più per quanto riguarda le persone con disabilità e le strutture di cui esse fruiscono, solo al Garante Nazionale delle Persone private delle Libertà Personali, contribuirà a fare chiarezza su un tema di grande rilevanza, che anche in questi giorni è stato da taluni riproposto con un approccio meramente ideologico e del tutto fuorviante. Far cioè passare il messaggio che tutte le strutture semiresidenziali e residenziali siano dei luoghi nei quali, a prescindere, le persone con disabilità vengono segregate, o peggio, rappresenta un approccio frutto di pericolosi preconcetti e foriero di grandi disastri laddove questo messaggio si dovesse tradurre in pratica: le persone con disabilità, infatti, nel rispetto dell’articolo 19 (Vita indipendente ed inclusione nella società) della Convenzione ONU, hanno il diritto di poter scegliere dove come e con chi vivere, comprese le strutture semiresidenziali o residenziali, senza mai essere costrette ad una specifica sistemazione, contro la propria volontà.
In tale contesto la nostra Associazione ha già da tempo espresso con chiarezza la propria posizione che, oggi, viene ribadita e contrasta ogni maldestro tentativo di “generalizzata criminalizzazione” di servizi senza i quali le persone con disabilità, specie quelle a più alta complessità, non avrebbero alcuna possibilità di scegliere di poter vivere al meglio le proprie vite in luoghi adatti alle loro specifiche esigenze, ai loro desideri e alle loro aspettative.
Di contro, se qualcuno avesse evidenze di luoghi, strutture, servizi in cui le persone con disabilità vengono abusate, maltrattate, subiscono violenza o dove non ne vengono rispettati la dignità e i diritti, ha il dovere di segnalarlo a chi di dovere e non “sparare nel mucchio”: anche in questo senso siamo certi che il ruolo del nuovo ufficio del Garante assumerà una funzione centrale.

Al Garante avvocato Borgo e ai componenti l’ufficio, professor Vaia e dottor Pelagatti, va in conclusione un sincero augurio di buon lavoro da parte del nostro presidente nazionale Roberto Speziale e della nostra Associazione tutta.

*L’ANFFAS è l’Associazione Nazionale di Famiglie e Persone con Disabilità Intellettive e del Neurosviluppo.

All’operatività dal 1° gennaio 2025 dell’ufficio del Garante Nazionale dei Diritti delle Persone con Disabilità, il nostro giornale ha già dedicato i testi Fondamentale la collaborazione del Garante con le organizzazioni di persone con disabilità e Quanto potrà essere efficace l’azione di questo Garante? di Giampiero Griffo.

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“I Figli della Tigre” di Enrico Lombardi è anche in audiolibro

Superando -

Pubblicata nel 2023, I Figli della Tigre, storia in stile fantasy di Enrico Lombardi, esce ora anche in versione audiolibro (disponibile su Audible), letta dal doppiatore professionista Alessandro Budroni. Lombardi, in una mirabile opera di trasposizione simbolica, conferisce a un episodio reale, un viaggio a Parigi del 1991, i contorni del mito, trasfigurandolo in una narrazione che incarna l’essenza di un legame indissolubile. Tutte le royalties della pubblicazione andranno alla UILDM di Pisa

Pubblicata da LCF Edizioni nel 2023, I Figli della Tigre, una storia in stile fantasy di Enrico Lombardi*, già ampiamente presentata anche su queste pagine, è uscita ora in versione audiolibro, edita da LibriVivi Media.
L’opera, disponibile su Audible (a questo link), è letta da Alessandro Budroni, doppiatore professionista con un’importante esperienza nel settore, mentre Valerio Burgio ne ha curato la veste grafica.

Parigi, 1991: è notte fonda quando quattro amici, animati da uno spirito che già prelude all’avventura, lasciano furtivamente il centro medico che li ospita. La loro meta è la Torre Eiffel, simbolo eterno di sogni e aspirazioni, che li chiama con un’attrazione irresistibile. In quel tempo, era ancora lontana la concezione inclusiva che oggi permea i luoghi di soggiorno e di incontro, eppure, in quella fuga silenziosa e temeraria, si consuma un atto iniziatico che possiede il respiro di un’epopea.
Da quel gesto, intriso di audacia e meraviglia, germina I Figli della Tigre, il racconto fantastico di Enrico Lombardi. L’autore, in una mirabile opera di trasposizione simbolica, restituisce all’episodio reale i contorni del mito, trasfigurandolo in una narrazione che incarna l’essenza di un legame indissolubile. Ciò che inizia come una ribellione giovanile si sublima in un patto eterno, attraverso il quale il lettore, in questa storia di amicizia e coraggio, potrà percepire con forza quel soffio vitale che distingue le imprese umane dalle gesta leggendarie.

Detto che tutte le royalties della pubblicazione saranno devolute alla UILDM di Pisa (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare), va segnalato ancora che l’audiolibro (durata di 4 ore e 25 minuti) fa parte della collana “Azzurri – La narrativa degli autori italiani” ed è edito, come detto, da LibriVivi Media, in collaborazione con LCF Edizioni. (Simona Lancioni)

*Enrico Lombardi (Livorno, 1967-2021)
Ha vissuto cercando un equilibrio tra il suo sentire, la sua formazione e professione e il suo impegno civile. Essendo una persona con disabilità, si è impegnato sin da giovane nel contrasto alle discriminazioni e nel riconoscimento dei diritti propri e delle altre persone con disabilità.
Ancora giovanissimo, ha fondato la sezione livornese della UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare), l’Associazione di cui, più tardi, sarebbe divenuto presidente nazionale, oltre ad essere a lungo direttore editoriale di «DM», la rivista nazionale dell’Associazione stessa.
Dopo essersi laureato in Scienze Politiche con il massimo dei voti, ha costituito una Cooperativa Sociale finalizzata all’impiego di persone in situazione di svantaggio e si è creato una famiglia propria.
Empatico, curioso, ironico, profondo, coltivava una miriade di interessi, aveva viaggiato per l’Europa ed era appassionato di Stephen King, dei fumetti Marvel, di cinema e letteratura fantasy, di giochi di ruolo.

Il presente contributo è già apparso nel sito di Informare un’H-Centro Gabriele e Lorenzo Giuntinelli di Peccioli (Pisa) e viene qui ripreso – con minimi riadattamenti al diverso contenitore –per gentile concessione.

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Franco Bomprezzi, “Il Cavaliere a rotelle”

Superando -

In occasione dell’evento svoltosi per il decennale dalla scomparsa di colui che fu per dieci anni direttore responsabile di Superando, è stato presentato tra l’altro il podcast Il Cavaliere a rotelle. Franco Bomprezzi, che ne ripercorre la storia personale e professionale, attraverso la sua voce e quella dei suoi amici e colleghi

«Bambino dalle ossa di vetro e studente modello al liceo. Cronista di nera e poi giornalista a tutto tondo nelle redazioni di quotidiani locali e nazionali. Attivista per i diritti delle persone con disabilità e leader associativo attento alla comunicazione e all’uso del linguaggio. Un uomo dalla fine ironia, che vedeva la sua carrozzina come uno strumento di libertà: tutto questo e molto altro è stato Franco Bomprezzi»: è quanto si legge nel sito della LEDHA (Lega per i Diritti delle Persone con Disabilità, componente lombarda della FISH-Federazione Italiana per i Diritti delle Persone con Disabilità e Famiglie), a proposito di colui che fu direttore responsabile di Superando fino alla sua scomparsa il 18 dicembre 2014, oltreché presidente della stessa LEDHA e della UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare).

In occasione dell’evento che si è svolto in dicembre a Milano, per il decennale dalla sua morte (se ne legga la presentazione anche sulle nostre pagine), è stata data tra l’altro visibilità al podcast denominato Il Cavaliere a rotelle. Franco Bomprezzi*, che ne ripercorre la storia personale e professionale, attraverso la sua voce e quella dei suoi amici e colleghi.
«In esso – viene spiegato – si condensa, in circa novanta minuti di ascolto, una vita straordinariamente normale, che attraversa un’epoca di grandi lotte e conquiste per i diritti delle persone con disabilità. E che ci dice molto anche sulla società in cui viviamo oggi. Il racconto della vita e del lavoro di Bomprezzi è affidato alla voce di amici, colleghi e di quanti hanno lavorato con lui nelle diverse tappe della sua carriera professionale. Oltre a contributi audio d’epoca e alla lettura di stralci di articoli pubblicati sulle diverse testate per cui Franco ha scritto».

Realizzato dalla LEDHA e dalla UILDM, con il contributo della Fondazione Cariplo (testo e voce narrante di Ilaria Sesana, sound design e post produzione di Angelo Miotto, prodotto da Intrecci Media), il podcast può essere ascoltato sulle principali piattaforme di streaming (Spotify, Spreaker, iHearth). Inoltre, le persone con disabilità uditiva e tutti coloro che abbiano piacere di leggerne i contenuti, possono a questo link trovare la trascrizione della prima puntata. (S.B.)

*Il titolo scelto per il podcast fa anche riferimento diretto al fatto che nel dicembre del 2007 Franco Bomprezzi venne insignito del titolo di Cavaliere della Repubblica dall’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.

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Non è ciò che mi aspettavo per la città di Pisa nel 2025

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«Ciò che ho letto nella rivista “Pisa Futura” – scrive Serena Barachini, rivolgendosi direttamente al Sindaco della città toscana – non è ciò che mi aspettavo nel 2025 per la mia città. Avrei voluto infatti leggere della progettazione di molti più centri/servizi per persone con disabilità» Un’immagine panoramica della città di Pisa

Al Sindaco di Pisa,
mi chiamo Serena Barachini, sono pisana di nascita e lavoro all’Università di Pisa come biologa nella ricerca contro i tumori. Sono inoltre madre di una ragazza con disabilità di 22 anni.
Recentemente, leggendo la rivista «Pisa Futura» [rivista di informazione del Comune di Pisa, N.d.R.] del dicembre 2024, che ricevo per posta, ho preso atto di molteplici cantieri in corso in città, con un imponente investimento di 78 milioni di euro, tra fondi del PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza), del Comune di Pisa, bandi ministeriali, fondi regionali ed altre fonti. Progetti di edilizia, riqualificazione di quartieri, scuole, asili nido, impianti sportivi, nuovi parchi, piste ciclabili e un centro “Dopo di Noi”, per una società che lei, Sindaco, definisce «House providing con l’obiettivo di valorizzare e sviluppare e promuovere le “Terre di Pisa” in modo efficace sotto un punto di vista internazionale».

Ciò che leggo, però, non è ciò che mi aspettavo nel 2025 per la mia città. Avrei voluto infatti leggere della progettazione di molti più centri/servizi per persone con disabilità.
Come può una città che si definisce pronta a valorizzare le “Terre di Pisa” su scala internazionale, trascurare l’inclusione sociale e l’accessibilità per le persone con disabilità? Penso che, oltre alla riqualificazione e agli investimenti in strutture destinate al turismo, dovremmo mettere al centro anche i bisogni quotidiani delle persone più vulnerabili.
Come cittadina e come madre di una persona con disabilità, avrei voluto leggere dei progetti per centri e servizi specifici per persone con disabilità. Eppure, l’unico accenno alla disabilità riguarda un solo progetto, il centro “Dopo di Noi”, che, purtroppo, appare come un’iniziativa isolata in un contesto troppo ampio per dare risposta a tutte le necessità.
Avrei voluto leggere del progetto di una piscina dedicata interamente alle persone con disabilità. Il nuovo impianto comunale, come riportato in «Pisa Futura», avrà tre vasche: una per la pallanuoto, una per relax e addestramento e una ricreativa per i bambini più piccoli. Tuttavia non trovo alcuna menzione di una vasca adibita alle persone con difficoltà motorie, tra cui anche gli anziani, con corsi specifici. La vecchia struttura sarà dedicata alle persone con disabilità o verrà smantellata? A mia figlia sono stati assegnati anche dei fondi tramite un bando che rimborsa totalmente la piscina, ma purtroppo ad oggi non possiamo usufruirne, poiché a Pisa non c’è nessuna piscina comunale che offra questo servizio.
Ad oggi molti cittadini con problemi motori, fra cui anche mia figlia, sono costretti a rivolgersi a strutture private a pagamento, dove la seduta in piscina viene considerata fisioterapia e, di conseguenza ha costi significativamente più elevati rispetto ad un normale corso di nuoto presso una piscina comunale.
Avrei poi voluto leggere che oltre a costruire innumerevoli piste ciclabili, il Comune di Pisa offrisse la possibilità alle persone con disabilità di poterne usufruire tramite l’uso di Cargo Bike (biciclette per poter portare sia ragazzi/ragazze con disabilità che persone anziane). In molte città italiane sono ormai messe a disposizione dagli esercenti che affittano le bici, per poter rendere la città accessibile a tutti.
E ancora, avrei voluto leggere che in estate fosse possibile fare il bagno anche per le persone con disabilità nelle strutture balneari pisane. In molte città italiane, i comuni mettono a disposizione sedie a rotelle da spiaggia (diverse dalle Job, che sono difficili da manovrare e richiedono almeno quattro assistenti per essere spostate in acqua), per facilitare l’accesso al mare in modo dignitoso e senza oneri aggiuntivi.
Recentemente sono stata a Rimini, città di eccellenza riguardo all’accessibilità al mare, e mi sono informata su come funzionasse la cosa. La risposta è stata molto semplice e chiara, come chiara era per loro la necessità di rendere la spiaggia accessibile a tutti: hanno finanziato l’acquisto di una decina di sedie a rotelle da spiaggia, grazie alla collaborazione con esercenti locali. Queste sedie vengono custodite dalla pubblica assistenza del litorale: la mattina la persona con disabilità si presenta da loro, richiede una sedia in un determinato stabilimento balneare e la pubblica assistenza si occupa di portarla in quello stabilimento e di andare la sera a riprenderla per custodirla presso la sede della pubblica assistenza.
Avrei quindi voluto leggere di campi solari estivi comunali accessibili alle persone con disabilità. Ogni estate cerco di iscrivere mia figlia, ma l’accesso le viene negato a causa della mancanza di personale qualificato e di strutture accessibili disponibili su territorio, nonostante il Comune affermi che i campi solari sono aperti anche alle persone con disabilità.
Avrei voluto infine leggere di un’Associazione simile ad UGO, ideata da un’imprenditrice di Milano, Michela Conti, finalista del premio Gamma Donna del 2024. Questa Associazione lavora nell’area dei servizi assistenziali a persone bisognose (disabili, anziani, persone in chemioterapia), fornisce assistenza ai caregiver con operatori selezionati e formati adeguatamente a prezzi accessibili ed è attiva in molte città italiane (Milano, Bologna, Firenze, Genova, Padova). Una sfida bellissima in collaborazione con enti privati e pubblici. I lavoratori-caregiver, come me, hanno moltissime difficoltà a lavorare per la mancanza di personale/assistente qualificati e questo crea notevoli ripercussioni sul lavoro.

Avrei voluto leggere di tutto questo sulla rivista della mia città per poter sperare in un futuro più accessibile non solo per mia figlia, ma per una cittadinanza che merita una visione più chiara e più inclusiva, attenta alle esigenze di tutti.
Ho già tentato come cittadina di sollevare questi problemi, parlando con l’assessora alla Disabilità Giulia Gambini, con l’assessora allo Sport Frida Scarpa e con la presidente della Società della Salute Giulia Guainai, ma purtroppo le mie richieste hanno sentito solo l’eco della mia voce.
Sarò anche una piccola fiammiferaia, che cerca di accendere una piccola luce in una realtà che sembra non prestare attenzione ai bisogni di chi è più fragile, ma nonostante tutto ho ancora un sacco di fiammiferi da accendere!

*Serena Barachini è ricercatrice presso il Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale dell’Università di Pisa.

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L’arte elogia la follia: la malattia mentale nelle opere dei grandi artisti

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Spazia dal Medioevo ai giorni nostri il ricco approfondimento dedicato al rapporto tra arte e follia, curato da Stefania Delendati, che scrive tra l’altro: «In un certo senso l’arte, se sappiamo interpretarla con attenzione, ci aiuta a considerare la malattia mentale come parte della condizione umana» La carta del “Matto” nei tarocchi francesi

«L’arte costituisce un regno intermedio tra la realtà che frustra i desideri e il mondo della fantasia che li appaga […]. L’artista è, originariamente, un uomo che si distoglie dalla realtà […] e lascia che i suoi desideri di amore e di gloria si realizzino nella vita di fantasia», diceva Sigmund Freud per spiegare il rapporto tra arte e follia.
Associare la genialità alla “devianza mentale” è un luogo comune, ma non troppo, perché la storia è popolata di artisti famosi che hanno vissuto con problemi nervosi più o meno gravi trasferiti nelle loro opere, a dimostrazione che la sofferenza psicologica e psichiatrica trova nella creatività uno sfogo per esternare dolore ed emozioni. Altri, pur non avendo disturbi di questo genere, hanno raccontato la follia, ne sono stati attratti, in alcuni casi hanno usato la loro arte come forma di denuncia sociale.
In un certo senso l’arte, se sappiamo interpretarla con attenzione, ci aiuta a considerare la malattia mentale come parte della condizione umana. Ancora Freud affermava che la follia emerge dalla liberazione dell’inconscio dalle catene della censura e della rimozione; applicando questo concetto all’arte, si può dire che la creatività viene potenziata dalla psicopatologia, quest’ultima acuisce l’ispirazione e la fa uscire dagli schemi accademici per esplorare nuovi percorsi.

Dal Medioevo al principio del Rinascimento
Regolarità, equilibrio e armonia fino a un dato momento sono stati gli unici criteri ammessi per i soggetti rappresentati in tele e sculture. L’uomo “fuori di senno” fa capolino nel repertorio figurativo sulla carta del Matto nei tarocchi. Nel corso dei secoli è diventato il jolly, l’allegro burlone del mazzo di carte francesi, con il capo coronato da un buffo cappello colorato, sul viso l’espressione sorridente e incosciente di chi passa attraverso la vita senza rendersi ben conto di ciò che gli accade intorno, peculiarità che anticamente si riteneva propria dei “pazzi”. Incoscienza ma anche sofferenza nella follia, se pensiamo che la parola “pazzo” deriva dal latino pati, soffrire.
Se nel mondo classico la “pazzia” era legata addirittura alla sfera sacra (gli oracoli vaticinavano i loro responsi sotto l’effetto di sostanze inebrianti che li facevano entrare in trance), nel Medioevo il “matto” diventa l’espressione terrena del demonio, una “non persona” che si comporta in maniera imprevedibile ed è quindi da esorcizzare. Malgrado questa premessa legata alla società dell’epoca, è proprio nell’arte medievale che prende corpo la figura del “pazzo”, essenzialmente legata alla religione e alla spiritualità.

Hans Holbein il Giovane, “Ritratto di Erasmo da Rotterdam”, 1523. Nell’“Elogio della follia” Erasmo da Rotterdam scrisse che «ogni azione che gli uomini compiono è intrisa di pazzia»

Il primo versetto del Salmo 52 delle Scritture recita Dixit insipiens in corde suo non est Deus, “lo stolto disse in cuor suo non c’è Dio”. Se da un lato, dunque, la follia è ignoranza e assenza di amore per Dio, dall’altro c’è il suo opposto, i cosiddetti “pazzi di Dio” che arrivano ad una devozione ossessiva, portata all’eccesso, come si può vedere nei capolavori in cui Giotto raffigura San Francesco in estasi mentre riceve le stimmate, sia nella Basilica Superiore di Assisi che nella tempera su tavola conservata al Louvre.
È nel XIV secolo che il “matto” entra nella società. Nelle corti il buffone, “folle” per natura, intrattiene la nobiltà sbeffeggiandola con critiche pungenti che vengono accettate perché quella persona con il mantello rigato e il cappuccio con i campanelli non è considerato “normale” e gli si perdona ciò che ad altri non sarebbe permesso dire.
A cavallo tra Medioevo e Rinascimento la figura del “pazzo” si identifica con il suo iconico abbigliamento, diventa veicolo delle idee più sovversive, si ritaglia un ruolo anche nella riforma protestante dove il “folle” è l’altro, quello che segue una religione differente. Si lega alle feste carnevalesche e al folklore, la pazzia diventa oggetto di scritti e trattati, uno per tutti l’Elogio della follia di Erasmo da Rotterdam il quale senza mezzi termini afferma che «ogni azione che gli uomini compiono è intrisa di pazzia».

I maestri del Nord Europa
L’area culturale del Nord Europa è terreno fertile per queste riflessioni ed è sempre lì che la follia per la prima volta diventa davvero protagonista dell’arte. Hieronymus Bosch, geniale pittore fiammingo contemporaneo di Leonardo da Vinci, mescola nei suoi quadri persone, oggetti, animali, piante, creature fantastiche e mostri, creando un universo surreale e delirante che non è mai stato decifrato, e che è forse la rappresentazione della pazzia dell’umanità, della degenerazione sociale e della corruzione.
In L’estrazione della pietra della follia (o La cura della follia) ci regala uno spaccato delle ambigue terapie mediche del suo tempo praticate sulle persone ritenute “insane di mente”. Ritrae uno pseudo chirurgo con un imbuto capovolto sul capo che, sotto lo sguardo di una donna e di un sacerdote, estrae un fiorellino dalla testa di un malcapitato, mentre una sorta di pugnale trapassa la borsa del paziente, indicazione che ci suggerisce come l’intervento sia soltanto un modo per spillare soldi.

Hieronymus Bosch, “La nave dei folli”, 1494 circa

Nel XV secolo si credeva che la follia fosse provocata da una pietra conficcata nella testa, un medico con un’operazione poteva estrarla e guarire il malato; Bosch denuncia da par suo sia la truffa che l’ingenuità di chi ci casca; infatti, la scritta in tedesco che incornicia la scena non lascia spazio ai dubbi: «Maestro cava fuori le pietre, il mio nome è “lubbert das”» (letteralmente “bassotto castrato”, vale a dire “sempliciotto”, “credulone”).
Ma è con La nave dei folli che Bosch si consacra come interprete singolare della pazzia. È un dipinto a olio eseguito nel 1494 e conservato al Louvre. Ispirandosi probabilmente all’omonimo poema di Sebastian Brandt, Bosch rappresenta una barca alla deriva che porta un carico di umanità impazzita e gaudente, intenta soltanto a saziare la propria voracità. C’è di tutto nell’allegra e tragica brigata, anche un “matto” vestito come nei tarocchi che beve appollaiato su un ramo, girato di spalle, incurante della follia che lo circonda, lui che della follia è l’emblema.

La nave dei folli non è soltanto un’allegoria, è anche la raffigurazione di quanto accadeva nel Quattrocento alle persone con malattie mentali. Erano senza famiglia, senza fissa dimora e prive di affetti stabili, non di rado venivano spostate da una città all’altra su barconi fluviali, affidate a battellieri che navigavano nottetempo, lontano dagli sguardi di chi considerava la “demenza” un elemento oscuro.
Considerato l’erede di Bosch, l’olandese Pieter Bruegel il Vecchio riprende il tema della pazzia calandolo nel realismo del mondo contadino dei Paesi Bassi, trasformato in maniera grottesca per spiegare la stoltezza del male. Per Bruegel il Vecchio la follia è donna, se guardiamo Dulle Griet (o Margherita la Pazza), dipinto dove una donna semina morte e distruzione. Con il viso sfigurato, per alcuni la personificazione di una strega, Margherita si muove in un paesaggio da incubo con una scodella metallica sulla testa, portando con sé un bottino, forse allegoria dell’avarizia che conduce alla perdizione, diretta verso l’ingresso dell’inferno.
Un altro gigante dell’arte, Albrecht Dürer, ci ha lasciato un “ritratto” della dottrina dei quattro temperamenti (flemmatico, bilioso, melanconico e sanguigno), inserita in un complesso sistema morale e filosofico, alla base della rappresentazione delle passioni e dei caratteri nell’arte rinascimentale. Sua è l’opera Melanconia I, uno stato d’animo all’epoca visto come un’alterazione del tono dell’umore (oggi si potrebbe identificare con la depressione), che Dürer richiama con una donna dal viso scuro, il capo reclinato, attributo principale della malinconia e delle sofferenze dell’anima; ai suoi piedi, la borsa e le chiavi, simboli di Saturno, protettore appunto dei temperamenti malinconici.

Francisco Goya, “Il sonno della ragione genera mostri”, 1797

Rinascimento e Illuminismo
Sempre nel Rinascimento continua la connessione tra arte, follia e religione. Lo vediamo in Miracolo della Croce a Rialto, tela di Vittore Carpaccio. Nei pressi del Canal Grande a Venezia, brulicante di persone, il Patriarca libera un uomo dalla “possessione demoniaca” per mezzo di una reliquia della Croce.
In questa che possiamo definire una “fotografia” della Serenissima alla fine del XV secolo, leggiamo il rapporto della società con le malattie mentali, intese e trattate non come un problema medico, ma come un’esperienza di natura essenzialmente religiosa, se è vero che, come già accennato, il “folle” si riteneva posseduto dal diavolo.
Anche i “pazzi di Dio” del Medioevo si evolvono. Matthias Grünewald, originale e poco conosciuto pittore tedesco, dipinge nei primi anni del Cinquecento La tentazione di Sant’Antonio, parte di una pala dove il Santo rischia di perdere l’uso della ragione. L’opera era destinata ad un ospedale dove erano ricoverate persone con malattie che ne deturpavano l’aspetto, per questo il diavolo che tenta Sant’Antonio ha la pelle grigia e le piaghe che evocano le patologie curate in quel luogo.
Di Grünewald è stato scritto: «La norma, la misura, le proporzioni della figura umana […] non lo hanno certamente interessato molto. Le sue forme fisiche sono per lo più brutte, malaticce, impossibili o almeno fuori dall’ordinario […]. I volti sono asimmetrici, quasi in ogni dipinto si riscontrano arbitrii di disegno che hanno una giustificazione artistica […]. Già questo fatto, e l’arbitrarietà delle proporzioni, dimostrano che l’artista non si è lasciato turbare da ciò che è anormale».

È durante l’Illuminismo che la follia nell’arte diventa marginale, simbolo di disordine e anarchia non più da elogiare, in quanto si contrappone alla ragione che sale alla ribalta durante l’Età dei Lumi. E tuttavia, quando ancora fa capolino nell’opera degli artisti, la “malattia mentale” assume tratti più liberi, inconsueti.

Franz Xaver Messerschmidt, “Testa di carattere”

Prendiamo Francisco Goya e il suo celebre Il sonno della ragione genera mostri. Nell’acquaforte realizzata sul finire del Settecento un uomo è addormentato su uno scrittoio, intorno a lui si muovono le creature inquietanti generate dal suo sonno. Con sensibilità moderna, Goya ci mette in guardia dalla fantasia che, dice egli stesso in un documento chiamato Commento di Alaya, «abbandonata dalla ragione genera mostri impossibili».
Il raziocinio celebrato dall’Illuminismo è anche fragile, il secolo che ha cercato di cambiare il mondo con enciclopedie e scoperte scientifiche non è riuscito a sconfiggere questo lato della condizione umana, il senno governa soltanto una parte della mente e dobbiamo condividere il mondo con i nostri incubi.
Attuale quanto Goya, al punto che le sue sculture possono essere scambiate per opere contemporanee, Franz Xaver Messerschmidt è uno dei maggiori scultori del XVIII secolo, oltre che un incredibile caso nella storia dell’arte. Diventato nell’ultimo decennio un fenomeno internazionale, deve questa fama alle cosiddette “teste di carattere”, una serie di sessantanove busti, di cui ne sono rimasti trentotto, realizzati tra il 1770 e il 1783, anno della morte dell’artista, principalmente in piombo, alcuni in marmo e alabastro, uno in legno. Le teste riproducono deformazioni, smorfie ed espressioni del viso dell’artista, il tutto esagerato, con la fronte aggrottata, il mento sollevato, gli occhi stretti, il naso arricciato.
Messerschmidt soffre di quella che ai suoi tempi era definita “confusione di mente”, un disturbo che gli costa la nomina a professore all’Accademia di Belle Arti viennese, ma che non gli impedisce di realizzare contemporaneamente alle “teste di carattere” altre opere in linea con l’arte settecentesca. I suoi busti vengono fin da subito associati alla malattia mentale, per un periodo sono esposti nei manicomi. Tormentato da incubi e paranoie, egli afferma di essere perseguitato da spiriti che lo fanno stare male moralmente e fisicamente, ha dolori al basso ventre e alle cosce. Lo scrittore Christoph Friedrich Nicolai è stato uno dei pochi ad assistere al suo processo creativo, testimoniando di averlo visto posizionarsi davanti ad uno specchio e pizzicarsi i punti dolenti del corpo, osservando le contrazioni del volto.
L’artista rimane un interrogativo aperto, non avendo lasciato alcuna indicazione sul significato dei suoi lavori; i busti che ha scolpito ricordano Anima dannata, la scultura che Gian Lorenzo Bernini aveva realizzato più di un secolo prima.

L’Ottocento
Nell’Ottocento riemerge la figura del “folle” nell’arte, ma con una sensibilità diversa, dovuta all’epoca romantica che vede la nascita della psichiatria e indaga le varie manifestazioni dell’animo umano. Fa dunque il suo ingresso nelle opere degli artisti lo studio del quotidiano, del vissuto delle persone comuni, per rappresentarne i sentimenti, il disagio e anche la malattia mentale.
Intorno al 1822 il pittore francese Théodore Géricault si reca presso l’Ospedale Salpêtrière, a Parigi, e fissa sulla tela una serie di dieci volti di “pazzi” (a noi ne sono giunti soltanto cinque), destinati al dottor E.J. Georget che intende utilizzarli per illustrare un libro e tenere lezioni sulla salute mentale. Sono ritratti realistici, oggettivi ed espressivi, che non indugiano sulle deformazioni che nei secoli precedenti hanno caratterizzato questo genere di dipinti. I volti sono quelli di persone ossessionate da un’idea fissa, in quel periodo si riteneva infatti che la pazzia potesse derivare dalle forti passioni.

Telemaco Signorini, “La sala delle agitate nell’ospizio di San Bonifacio”, noto anche come “La sala delle agitate al San Bonifazio in Firenze”, 1865

Nella mimica facciale e nei chiaroscuri che ricordano Caravaggio, Géricault ci racconta un doloroso aspetto della natura umana. In Alienata con la monomania dell’invidia, ad esempio, i piccoli occhi indagatori della donna sembrano fissare un oggetto inesistente, la cuffietta bianca, gli abiti scomposti e i grigi capelli scarmigliati sono segno di trascuratezza esteriore, specchio della solitudine esistenziale.
Nel XIX secolo l’arte assume il valore di documento e denuncia dei malesseri sociali, guarda in faccia i temi scomodi e li riproduce anche nei suoi dettagli più crudi. Un esponente italiano di questa “arte sociale” è il macchiaiolo Telemaco Signorini che nel 1865 dipinge La sala delle agitate al Bonifacio di Firenze. Alla fine dell’Ottocento “andare a Bonifazio” per i fiorentini era sinonimo di “impazzire”. Nella tela si entra in uno stanzone enorme e spoglio, abbagliato da una luce bianca che fa da contrasto alle sagome scure delle donne, le “agitate”, gran parte delle quali addossate ad un muro. Le uniche aperture sono sbarrate da grate e cancelli. È una visione drammatica, spettrale, di un luogo che nessuno vuole vedere. Colpisce il pittore francese Edgar Degas e provoca violente reazioni in Italia, con il drammaturgo Giuseppe Giacosa che ne ha questa impressione: «È un dipinto che vi mette addosso i brividi della paura. È un quadro che non mi piace, ma che esercita le spaventose attrazioni dell’abisso e che rivela nell’autore una giustezza e una robustezza quale a pochi è dato di raggiungere».
Signorini vuole far riflettere la società sulla condizione degradata che i malati di mente, o presunti tali, devono affrontare, e lo segnala in maniera perentoria, gettando in faccia all’opinione pubblica la realtà di persone ignorate e considerate “diverse”. Il quadro è dedicato alle donne, spesso ricoverate in manicomio per motivi differenti dagli uomini, magari perché cercavano un’indipendenza e non si sottomettevano al volere maschile. Signorini pensa a loro, un monito verso tutti quelli che cercavano di cancellarle in ogni modo.

Gustave Courbet, “Uomo disperato”, 1843-1845

Artisti “maledetti”
Si può dipingere il tumulto interiore? Ha venticinque anni Gustave Courbet quando realizza Uomo disperato, un autoritratto che ci guarda con occhi sbarrati e spiritati, le guance rosse, la camicia con i polsini sbottonati, la testa tra le mani che si sporge verso di noi.
Courbet, maestro del realismo ottocentesco, era fiero di appartenere “solo alla libertà” e in questo quadro accosta genio e follia, ritraendosi come un “pazzo”, in un momento di esaltazione, in balia delle emozioni.
Il suo è un tumulto “recitato” e altri artisti del XIX secolo si sono identificati totalmente nella loro arte, l’unico sfogo di vite spesso brevi, tormentate da enormi angosce, incomprensioni e ansie.
Il “prototipo” più famoso di “artista maledetto” è Vincent van Gogh.
Molto si è scritto e detto della sua salute mentale, dei suoi ricoveri in manicomio, delle nevrosi che lo attanagliavano e che lo portarono al suicidio. L’episodio più noto che riguarda il grande artista olandese è il taglio dell’orecchio sinistro, un’autolesione che si procura in seguito a una furiosa lite con l’amico pittore Paul Gauguin. Dopo il fatto, di ritorno dall’ennesimo ricovero, Van Gogh dipinge Autoritratto con orecchio bendato. Gli occhi chiari, lo sguardo penetrante, Van Gogh si ritrae con una benda che gli avvolge la testa; l’orecchio bendato, per noi che lo guardiamo, è quello destro, si è infatti dipinto davanti ad uno specchio e per via del riflesso la scena è al contrario. È in una stanza chiusa, la sua camera, eppure indossa abiti pesanti. Perché? Il quadro è destinato a Gauguin, per dirgli addio, e ai medici che l’hanno in cura; questi ultimi gli hanno consigliato di stare all’aria aperta, questo spiega il cappotto e il cappello. Inoltre l’accuratezza della benda che copre l’orecchio mutilato è un altro segnale dell’intenzione dell’artista di seguire le indicazioni dei dottori.
In numerose lettere van Gogh ha parlato della sua prostrazione: «La mia testa a volte è insensibile e spesso brucia e i miei pensieri sono confusi»; scriveva di sentirsi «come se fosse legato mani e piedi, sdraiato in una fossa profonda e oscura, incapace di fare qualsiasi cosa».
La nomea di eccentrico e sregolato, seppure in parte veritiera, è stata ingigantita e di lui è stato tracciato il quadro clinico di un “folle”. Parlarne in questi termini è però riduttivo, irrispettoso di un uomo che, stando ad uno studio pubblicato nel 2020 dall’«International Journal of Bipolar Disorders», soffriva di depressione, aveva allucinazioni e momenti di amnesia, disturbi provocati e talvolta amplificati dall’abuso di alcol e di assenzio, forse aveva una forma di epilessia non riconosciuta. Questo spiega perché se osserviamo bene Autoritratto con orecchio bendato ci troviamo di fronte ad un uomo né “sano” né “matto”, ma che semplicemente ci parla di sé con onestà.

Mark Rothko, “Black on Gray”, 1970

La dimensione catartica dell’arte che troviamo in van Gogh, si può ravvisare pure nell’opera di Edvard Munch, conosciuto soprattutto per L’urlo, un quadro che è diventato un’immagine iconica, da molti interpretato come la rappresentazione di come il mondo fa sentire l’uomo moderno, con la voglia di gridare mentre intorno nessuno è disposto a fermarsi per ascoltarne il tormento.
L’immagine è nota: un uomo molto pallido, quasi un fantasma, si prende il volto tra le mani e urla con tutta la forza che ha in corpo. Il suo grido deforma l’ambiente circostante, l’aria, il mare e le nuvole rosso sangue, eppure le persone intorno a lui, ombre senza lineamenti, proseguono la loro vita indifferenti al suo dolore.
Dell’Urlo Munch dipinge quattro versioni, tra il 1893 e il 1910. All’esposizione della prima a Oslo, le critiche si sommano ai sospetti sulla salute mentale dell’artista che scrive sul quadro, a matita nel cielo in fiamme a sinistra: «Può essere stato dipinto solo da un pazzo». La frase ha interrogato per anni gli studiosi, da poco si è scoperto che non è opera di un vandalo o di un detrattore, ma con ogni probabilità del pittore stesso, ferito e frustrato da giudizi tipo «le persone non dovrebbero considerare Munch un uomo serio con un cervello normale».
L’urlo è una tela enigmatica che non finirà mai di proporci sempre nuovi significati. Dipinta alla fine del XIX secolo, è l’immagine dell’angoscia che in quel periodo la psicanalisi iniziava ad indagare, uno stato d’animo che nell’arte si andava condensando nell’esperienza dell’espressionismo, ben descritta da Munch: «Non ci saranno più scene d’interni con persone che leggono e donne che lavorano a maglia. Si dipingeranno esseri viventi che hanno respirato, sentito, sofferto e amato».
È ancora lui a raccontare la genesi dell’opera. Stava camminando con due amici, al tramonto: «A un tratto il cielo è diventato rosso sangue e ho avvertito un brivido d’angoscia. Una morsa di dolore al petto. Mi sono bloccato, appoggiandomi al passamano, perché avvertivo una stanchezza mortale. Sopra al fiordo blu scuro e alla città colava sangue in lingue fiammeggianti. I miei amici continuavano a camminare, e mi hanno abbandonato tremante di paura. E io ho sentito un enorme sconfinato urlo percorrere la natura».
L’intera esistenza di Munch è stata dominata dal dolore, la tubercolosi dal lato materno della famiglia, la malattia psichica del ramo paterno, l’internamento in una clinica psichiatrica hanno lasciato un fardello che l’arte e la scrittura hanno in parte alleggerito (ci ha lasciato, oltre a numerosi appunti e lettere, Diario del poeta pazzo, scritto nel 1908 durante il ricovero in manicomio): «Fin dalla nascita gli angeli neri dell’angoscia, del dolore, della morte erano dalla mia parte. Mi seguivano quando uscivo, quando mi addormentavo, nel sole primaverile, nello splendore dell’estate. […] Quando dipingo la malattia e la sofferenza io avverto, al contrario una benefica liberazione poiché nella casa della mia infanzia abitavano malattia e morte».

Depressione, un equilibrio mentale stravolto e ossessioni accomunano van Gogh e Munch a due artisti dell’arte moderna, Mark Rothko e Francis Bacon. Il primo, uno dei principali esponenti dell’espressionismo astratto, noto per le sue tele monocromatiche di formato rettangolare, passa dalle tonalità brillanti delle prime opere a quelle più cupe realizzate negli ultimi anni, quando la depressione si aggrava fino al gesto estremo, nel 1970, in un certo senso “preannunciato” nell’ultima serie di dipinti, Black on Gray, espressione del suo dolore esistenziale.
Dipingendo Rothko afferma «di porre fine a questo silenzio e a questa solitudine, di dilatare il petto e tornare a respirare. […] Mi interessa solo esprimere le più fondamentali sensazioni umane, tragedia, estasi, fatalità».
Aveva un rapporto viscerale con l’arte Francis Bacon, pittore irlandese tra i maggiori del secondo Novecento. La sua personalità, in apparenza estroversa, nascondeva un lato oscuro a causa delle difficoltà vissute nell’infanzia e nell’adolescenza. Per questo le sue opere sono inquietanti, disturbano lo sguardo, la figura umana è distorta e collocata in spazi spogli, impotente e consumata dal suo stesso vivere. Ossessionato dalla carne e dalla sua corruzione, dipinge volti deformati dal terrore con urla mute che escono da bocche terrorizzate.
La vicenda personale di Bacon si intreccia ancor più con la sua opera a partire dal 1971, anno del suicidio del compagno George Dyer con cui aveva avuto una relazione tormentata. Ciononostante il pittore si sente colpevole, il suo stato psicologico peggiora, ma è capace di rialzarsi e, consapevole di aver bisogno di un po’ di leggerezza, introduce nei quadri tonalità più tenui.
Lavora fino all’ultimo dei suoi giorni, incessantemente, e se ne va in questa rinnovata presa di coscienza all’età di 82 anni, nel 1992. «Camminare sull’orlo dell’abisso, restare fedele a ciò che comunemente chiamiamo illustrazione, evocando al tempo stesso le emozioni più varie e più intime che un uomo possa provare»: per Francis Bacon questa è l’anima della pittura.

Giacomo Balla, “La pazza”, 1905

Il XX secolo
All’inizio del XX secolo, in Italia, prima dell’avvento del futurismo, Giacomo Balla, che del movimento sarà un personaggio di spicco, approfondisce l’aspetto sociale dell’arte, mostrando profonda attenzione per gli emarginati e gli oppressi.
Tra il 1902 e il 1905 realizza quattro tele del ciclo Viventi (Il mendicante, Il contadino (l’ortolano), I malati e La pazza). “La pazza” è Matilde Garbini, vicina di casa del pittore, che lui dipinge in un atteggiamento stravolto, davanti a un balcone, con uno sguardo perso e movenze scoordinate rese ancor più realistiche dalle pennellate spezzate dove la luce diventa colore. Matilde si rivolge ad un interlocutore immaginario e si staglia imponente, suscitando sgomento in chi la guarda.
È sempre nel Novecento che due artisti emarginati come Matilde, a pochi chilometri di distanza l’uno dall’altro, senza conoscersi, esprimono in maniera differente la loro creatività per esorcizzare la fatica di vivere e i fantasmi della psiche. Sono Antonio Ligabue e Pietro Ghizzardi, esponenti di quella che in seguito sarà denominata Art Brut, letteralmente “arte grezza”, una forma d’arte priva di contaminazioni culturali prodotta da autodidatti, non di rado con disturbi psichici.
Entrambi estranei alla tradizione figurativa del secolo scorso, spesso erroneamente catalogati tra gli artisti naïf, sono in realtà due uomini sensibili e geniali, discriminati per le loro “stranezze”, poveri e senza una formazione accademica, che hanno fissato nelle opere l’inquietudine e la verità umana di esistenze tormentate.
Ligabue, nato a Zurigo e vissuto in provincia di Reggio Emilia, più volte internato per psicosi maniaco-depressiva, l’ha fatto dipingendo un mondo lussureggiante popolato solo dagli animali, quelli domestici tipici della Pianura Padana e le belve che non aveva mai visto dal vivo, soltanto immaginate, che si sbranano con ferocia; l’ha fatto nei numerosi autoritratti dove ci interroga, guardandoci dolente dritto negli occhi.
Ghizzardi, originario del Mantovano e anche lui come Ligabue “trapiantato” nel Reggiano, umiliato e deriso da tutti, per tre volte ripete la prima elementare, ma, nel 1977, vince il Premio Viareggio con la sua autobiografia sgrammaticata, dipinge un’infinita galleria di ritratti, soprattutto di donne, tutti simili eppure tutti diversi, voluttuosi e fragili, un’umanità disarmata che non nasconde la sua condizione di disagio.
Ligabue e Ghizzardi hanno trovato nell’arte la loro libertà, con essa hanno cercato un riconoscimento sociale, raggiungendo vette di altissimo livello, tanto da essere oggi considerati maestri del XX secolo.

Ma non si può parlare del Novecento senza citare tre correnti artistiche che hanno avuto come punti fermi il rifiuto della logica, il ricorso all’inconscio e all’irrazionalità, e in definitiva hanno visto nella “follia” un mezzo di espressione.
Il dadaismo che esalta il non-senso, e ancor di più la metafisica con la sensazione di vuoto che traspare dalle invenzioni prospettiche e l’atmosfera che evoca una realtà “diversa”, per certi aspetti indifferente alla realtà, al punto che Giorgio de Chirico, maestro del genere, trasforma l’uomo in un tragico manichino in mezzo a piazze deserte. Nel 1913 afferma: «L’opera profonda l’artista l’attingerà nelle profondità del suo essere: là dove non passano né rumore di ruscelli né canti d’uccelli né sussurri di foglie». Si ritorna alle teorie di Freud, secondo il quale la mente umana non comprende soltanto il raziocinio, ma anche una dimensione irrazionale, inespressa o repressa, che esercita un’influenza sul comportamento, sul pensiero e sulle relazioni.
Nato come ideale continuazione del dadaismo e della metafisica, il surrealismo si presenta come la corrente pittorica del XX secolo che più di tutte esprime una diversa libertà dell’uomo e con le sue bizzarre associazioni di immagini, raffigura le teorie sull’interpretazione dei sogni che per natura non seguono la logica ma l’inconscio.
Lo spagnolo Salvador Dalì ne è l’esponente più stravagante, conosciuto anche da chi non “mastica” l’arte per i gesti esibizionisti di cui è costellata la sua vita. Paranoico per natura, nella pittura trova il suo sfogo, da lui definito un processo di “paranoia critica”, uno strumento di liberazione dalle ossessioni che dice di avere «in comune con alcuni pazzi, la differenza tra un pazzo e me è che io non sono pazzo».
Inutile cercare di interpretare le sue tele, esse valgono nel loro insieme, per quello che comunicano e per le reazioni che provocano. Alcune figure sono caratteristiche della sua produzione, come il corpo umano a cassetti, luoghi segreti dell’anima dove ogni persona nasconde le sue paure. All’artista il compito di aprirli alla ricerca della vera essenza dell’uomo.

Un’edizione della pubblicazione “L’attività plastica dei malati mentali” di Hans Prinzhorn

La Collezione Prinzhorn
Nei primi decenni del Novecento gli artisti guardano con occhi nuovi l’arte primitiva, gli schizzi dei bambini, modelli di riferimento fino ad allora ignorati come i disegni delle persone con disturbi psichici, visti soltanto in un’ottica diagnostica. Negli Anni Venti del secolo scorso una clinica psichiatrica universitaria, grazie ad un medico che è anche storico dell’arte, diventa un laboratorio sperimentale che dà per la prima volta dignità artistica a opere fino ad allora utilizzate per fare ricerca.
Quel medico è Hans Prinzhorn e la collezione che ne porta il nome è ubicata all’interno dell’ex edificio dell’aula universitaria della Clinica di Neurologia di Heidelberg, città sede del più antico Ateneo tedesco.
Composta da oltre 20.000 pezzi realizzati da persone con “esperienza psichiatrica” (termine questo utilizzato in Germania), la Collezione Prinzhorn copre un arco temporale che va dal 1890 al 1930, passando ad un’epoca successiva al 1980, quando ha ricominciato a crescere in seguito a donazioni dovute alla grande mostra itinerante in Germania e Svizzera che l’ha fatta conoscere ad un vasto pubblico.
Sebbene la più antica raccolta di lavori realizzati all’interno di istituzioni psichiatriche sia in Italia, al Museo Lombroso di Torino, la Collezione Prinzhorn è la più vasta e completa, raccogliendo opere provenienti da tutti i territori di lingua tedesca.
Hans Prinzhorn arriva a Heidelberg nel 1919, assunto dal direttore della Clinica Psichiatrica con il compito di ampliare una piccola collezione di lavori dei ricoverati. Inoltra richieste ai manicomi e alle cliniche del Paese, in poco tempo gli inviano oltre 5.000 pezzi. Lui non esclude nulla, cataloga tutto, e questo criterio è il motivo della ricchezza della collezione.
Prinzhorn non si ferma all’incarico che gli hanno assegnato: nel 1922 dà alle stampe un testo unico nel suo genere, L’attività plastica dei malati mentali, 350 pagine rivoluzionarie dove sono incluse 170 riproduzioni di opere della raccolta di Heidelberg, alcune delle quali a colori. Fino a quel momento esistevano solo rare immagini in bianco e nero sulle riviste psichiatriche, rivolte soltanto agli specialisti, mentre nel libro di Prinzhorn non viene attribuito alle foto e ai contenuti un valore diagnostico ma artistico. Questo fa sì che il volume abbia un immediato successo tra gli artisti più che tra gli psichiatri, segnando un punto di svolta nell’arte del XX secolo.
In epoca nazista la raccolta avrebbe potuto rischiare la distruzione, invece paradossalmente è stato proprio il regime a favorirne in modo inconsapevole la sopravvivenza. A Heidelberg, infatti, arriva un nuovo direttore, Carl Schneider, che è anche una figura chiave del progetto Aktion T4, voluto dai nazisti per eliminare le persone con disabilità fisiche e mentali. Nel 1937 è tra gli ideatori della famigerata Entartete Kunst, famosa nella storia come la mostra d’arte degenerata, inaugurata a Monaco di Baviera e portata in giro per la Germania a fini propagandistici allo scopo di denigrare le opere non approvate dal regime.
Accanto alla grande mostra che celebra “l’arte pura tedesca”, in uno spazio buio e con l’accompagnamento di insulti scritti agli artisti, vengono dunque disposte 650 opere moderniste. Tra queste, alcune provengono da Heidelberg e sono anche illustrate nella guida della mostra. Due milioni di persone corrono a vederle, un numero tre volte maggiore di quello dei visitatori della mostra d’arte tedesca.
Nel 2001 la Collezione Prinzhorn diventa un museo, oggi vengono allestite tre o quattro mostre ogni anno che espongono le opere a rotazione, lo spazio non è sufficiente, purtroppo, per un’esposizione permanente.

Un’opera di Guillaume Pujolle che dipingeva ad acquerello con i liquidi medicinali “rubati” nell’ambulatorio del manicomio dove venne internato

Dall’Art Brut all’Outsider Art
Esiste un’arte ancora poco conosciuta e valorizzata, parallela alle correnti affermate e a torto considerata “minore”. Gli addetti ai lavori la chiamano Outsider Art, definizione che identifica la produzione artistica spontanea di persone dal talento innato, autodidatte ed estranee all’arte convenzionale, che nel tempo ha inglobato l’opera di artisti con problemi mentali. È un’espressione creativa dal forte impatto emotivo che costituisce un sistema vero e proprio, con collezionisti, riviste e aste che nel mondo, dall’Europa all’Asia, passando per gli Stati Uniti e l’America Latina, conta più di ottanta istituzioni museali dedicate.
Non si tratta tuttavia di un movimento nel quale gli artisti e le artiste si identificano, piuttosto è una “assegnazione”, a volte postuma, che viene data quando il linguaggio e la tecnica si esprimono con mezzi inusuali per un imprevedibile esito creativo. Tratto comune degli artisti outsider, infatti, è l’utilizzo di qualsiasi materiale e strumento disponibile, dal momento che molti lavorano o hanno lavorato all’interno di istituzioni ospedaliere oppure in altri contesti di isolamento come le carceri.
Un esempio è Guillaume Pujolle che dipingeva ad acquerello con i liquidi medicinali “rubati” nell’ambulatorio del manicomio dove venne internato, nel 1926, all’età di 33 anni, per violenti attacchi di rabbia e dopo il tentativo di omicidio della moglie. Con iodio, blu di metilene e mercurocromo, pennelli realizzati con ciocche dei suoi capelli e cartone arrotolato come manico, ha disegnato fiamme, linee rette e curve, alternate ad un mondo onirico di uccelli notturni, navi volanti, aeroplani e figure umane distorte.
Altre peculiarità di questi artisti sono la ripetizione ossessiva di alcuni soggetti, la produzione prolifica e compulsiva, l’attività creativa maturata da adulti e a volte la combinazione di scrittura e immagine. A queste caratteristiche corrisponde Adolf Wölfli, artista svizzero che ha trascorso trentacinque anni, di cui trenta in isolamento volontario, nella Clinica Psichiatrica di Waldau, nei pressi di Berna, internato con la diagnosi di schizofrenia e lì deceduto il 6 novembre 1930 all’età di 66 anni. La sua sterminata produzione artistica, costituita da migliaia di opere, alcune delle quali commissionate dalla stessa struttura ospedaliera, come gli armadi decorati e un grande quadro per la sala conferenze, oltre all’infinita combinazione di forme e di elementi, si distingue per la contaminazione con la scrittura. Esempio eloquente è la vita dell’artista che egli stesso ha illustrato in ben 25.000 pagine, dove gli intricati disegni, le mappe, i ritratti, gli animali, le piante si mescolano a testi, notazioni musicali e collage.
Il termine Outsider Art è stato coniato nel 1972 dallo storico dell’arte Roger Cardinal che in questo modo ha sostituito l’omologa definizione francese Art Brut, a sua volta introdotta nel 1945 da Jean Dubuffet che proprio in quell’anno scopre Wölfli, fino ad allora sconosciuto al di fuori delle mura dell’ospedale psichiatrico.
Sia Cardinal che Dubuffet si sono occupati di artisti europei, spostando poi la loro ricerca negli Stati Uniti, dove l’Outsider Art si è affermata. Per trovarne il germoglio bisogna però spostarsi un po’ più indietro, nell’Ottocento, quando le pratiche mediche condotte nei manicomi cominciano ad interpretare i disegni dei ricoverati per dedurne indizi su malattie e disturbi. Un secolo dopo gli artisti iniziano a prendere ispirazione da queste opere, lo abbiamo visto in merito alla Collezione Prinzhorn, ed è ancora una volta Wölfli il protagonista della prima monografia dedicata alla produzione creativa di una persona con problemi psichici, pubblicata nel 1921 dal dottor Walter Morgenthaler che lo ha in cura.
Non c’è Outsider Art senza Art Brut e senza la Compagnie de l’Art Brut, composta da Dubuffet insieme agli artisti André Breton e Slavko Kopač, il critico Michel Tapié e lo scrittore Jean Paulhan. Quest’ultimo, insieme a Dubuffet e Le Corbusier, compie una ricognizione tra ospedali psichiatrici, carceri e campagne nella Svizzera dell’immediato secondo dopoguerra, alla ricerca di artisti eccentrici ed emarginati definiti “primitivi del XX secolo”. Nel 1949 organizzano la prima mostra a Parigi e nel 1971 Dubuffet dona la sua intera collezione di Art Brut alla città di Losanna, in Svizzera. Circa cinquemila pezzi eccezionali che raccolgono 133 autori vengono messi a disposizione del pubblico in un castello del XVIII secolo.
La Collection de l’Art Brut, inaugurata il 26 febbraio 1976, conta oggi oltre mille artisti e settantamila opere. Nel frattempo il lavoro artistico diventa una consuetudine nelle cliniche psichiatriche, riconosciuto come un valido strumento terapeutico.

Carlo Zinelli, “Quattro figure a animali bianchi a cerchi su sfondo rosso”, 1962 circa

Nell’Ospedale di Gugging, alla periferia di Vienna, lo psichiatra Leo Navratil negli Anni Sessanta promuove queste attività, ed è in quel luogo che viene scoperto un nuovo talento, August Walla.
Cresciuto dalla madre come una ragazza per impedirgli di diventare un soldato, Walla disegna figure femminili contrassegnate da una svastica e uomini con un martello e una falce. Il suo cosmo artistico mischia dèi, demoni e simboli inventati; nella sua vita ha scritto migliaia di lettere, fotografato, realizzato oggetti, disegnato e dipinto tutto ciò che lo circonda, un mondo mitologico immortalato sotto forma di murales anche nella sua stanza d’ospedale, dove ha vissuto dal 1983 fino alla sua morte, nel 2001. L’Ospedale di Gugging costituisce attualmente un centro culturale unico al mondo, l’Art Brut Center Gugging, 1.300 metri quadri di superficie espositiva che ospitano le opere dei più importanti protagonisti dell’Art Brut.

Negli anni in cui l’Austria scopre August Walla e lo proietta sulla scena internazionale, in Italia emerge la figura di Carlo Zinelli che trascorse gran parte della sua vita in manicomio, nell’epoca precedente alla Legge Basaglia.
Nel 1941 manifesta i primi sintomi di una patologia psichica e sei anni dopo viene definitivamente ricoverato nell’ospedale psichiatrico di San Giacomo della Tomba (Verona). Sviluppa un proprio personalissimo linguaggio figurativo con soggetti inventati, ma allo stesso tempo legati al suo passato e ad elementi del quotidiano. Lo fa nell’atelier d’arte per gli ospiti della struttura, aperto nel 1957 dal lungimirante direttore dell’ospedale, Carlo Trabucchi, che si avvale della consulenza dello scultore Michael Noble.
Zinelli è uno dei frequentatori più assidui, dipinge anche per otto ore di seguito al giorno, padroneggia il mezzo pittorico, diventa un conoscitore dell’uso del colore, utilizza con la medesima disinvoltura pastello, tempera, inchiostro e grafite.
A partire dal 1959 lo prende in cura lo psichiatra Vittorino Andreoli al quale si deve la conoscenza di questo artista che fin da subito si è differenziato per l’originalità della sua opera. Andreoli ha detto di lui che «era un matto straordinario». È il primo italiano ad entrare nella collezione di Jean Dubuffet e lo scrittore e giornalista Dino Buzzati organizza una mostra collettiva che comprende i suoi disegni, mostra a cui dà il titolo Sono dei veri artisti.
Zinelli muore nel 1974, due anni prima il suo stile e il suo modo di esprimersi artisticamente prende il nome di Outsider Art.

Negli Anni Ottanta questa corrente spicca il volo, dopo l’inaugurazione della Musgrave Kinley Outsider Art Collection, presso la Whitworth Art Gallery di Manchester; un decennio dopo prende il via la prima manifestazione dedicata, l’Outsider Art Fair, che ogni anno dal 1993 si tiene a New York e a Parigi.
Attualmente nella capitale francese si celebra il connubio “arte e follia” in un’esposizione unica, Figures du Fou. Du Moyen Âge aux romantiques / Le figure del matto. Dal Medioevo ai romantici, dal 16 ottobre 2024 al 3 febbraio 2025 nella prestigiosa cornice del Louvre, una retrospettiva che indaga la figura del “matto” nell’arte e nella cultura occidentale.

E per chiudere ci affidiamo alle parole del fotografo Giacomo Doni che alla salvaguardia della memoria delle ex strutture manicomiali italiane e delle persone che vi hanno vissuto dedica il suo lavoro. Questo suo pensiero sintetizza il senso dell’arte che elogia la follia: «Metafora dell’uomo che può perdere le proprie sovrastrutture per mostrarsi nella sua unicità, nella sua fragilità, trasformando in bellezza quello che può essere considerato normale, proprio come una semplice mano di colore».

*Direttrice responsabile di Superando.

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Anche giovani con disabilità coinvolti nella riscoperta di ricette valdostane

Superando -

Anche il progetto Il cielo in una pentola, percorso sperimentale di avvicinamento al lavoro per persone con disabilità, è tra coloro che hanno fattivamente collaborato alla realizzazione e alla riuscita di Riscoprire ricette valdostane, iniziativa ideata e realizzata dall’Unione Regionale Cuochi della Valle d’Aosta e dall’Associazione Cuochi Aosta di cui verranno presentati gli esiti il 17 gennaio prossimo

Vi è stato anche il progetto Il cielo in una pentola, percorso sperimentale di avvicinamento al lavoro per persone con disabilità, tra coloro che hanno fattivamente collaborato alla realizzazione e alla riuscita di Riscoprire ricette valdostane, iniziativa ideata e realizzata dall’Unione Regionale Cuochi della Valle d’Aosta e dall’Associazione Cuochi Aosta, in collaborazione, appunto, con Il cielo in una pentola, con il Centro Agricolo Dimostrativo di Saint-Marcel e con La Valle d’Aosta in TV, attraverso il determinante sostegno del CELVA (Consorzio degli Enti Locali della Valle d’Aosta) e dell’Institut Agricole Regional.

«Avviato nel mese di agosto dello scorso anno – spiegano i promotori – il progetto visto la realizzazione di quattro laboratori in altrettanti Comuni valdostani (Aymavilles, Verrayes, Morgex e Valtournenche), ognuno dei quali ha avuto come protagonista una ricetta che caratterizza quel territorio, con l’obiettivo di valorizzare piatti, a volte poco conosciuti. Si è trattato dunque di un vero e proprio racconto itinerante che ha coinvolto persone e al contempo ha potuto mettere in evidenza peculiarità del territorio, valorizzando un patrimonio che è a pieno titolo parte della cultura dei diversi territori coinvolti. Tutte le ricette proposte, inoltre, sono state caratterizzate da una filiera corta che ha visto coinvolta la dimensione agricola, la viticoltura e l’allevamento, utilizzando prodotti di prossimità. E da ultimo, ma non ultimo, l’iniziativa è stata anche l’occasione per cucinare insieme e condividere saperi, segreti e racconti anche con il gruppo del Cielo in una pentola, che vede il protagonismo di giovani con disabilità appassionati di cucina e del buon cibo. Il tutto documentato attraverso video e la raccolta delle ricette che sarà promossa sui diversi territori».

Nel pomeriggio di venerdì 17 gennaio dalle ore 17.30, presso l’Institut Agricole Régional di Aosta (ore 17.30, evento a invito), vi sarà la presentazione del progetto e potranno essere degustate le quatto ricette realizzate. (S.B.)

Per ulteriori informazioni: Maria Cosentino (ceralaccaturismo@gmail.com).

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Quanto potrà essere efficace l’azione di questo Garante?

Superando -

Una valutazione di Giampiero Griffo, componente del Consiglio Mondiale di DPI (Disabled Peoples’ International), sulla composizione del collegio componente il Garante Nazionale dei Diritti delle Persone con Disabilità, istituito come previsto dalla Legge Delega 227/21 in materia di disabilità e dal Decreto Legislativo 20/24, attuativo di essa

Il 23 dicembre scorso è stato nominato il collegio che compone il Garante Nazionale dei Diritti delle Persone con Disabilità [se ne legga già anche sulle nostre pagine, N.d.R.]. Una data esemplare, va sottolineato, per far passare nomine in modo da risultare praticamente inosservate dagli organi d’informazione, tipico strumento della politica per far passare sotto traccia un provvedimento.
L’istituzione di un Garante Nazionale dei Diritti delle Persone con Disabilità è stata prevista dall’articolo 1, comma 5, punto f della Legge Delega 227/21 in materia di disabilità ed è stata attuata con il Decreto Legislativo n. 20, emanato il 5 febbraio 2024.
Il Garante costituisce un’articolazione del sistema nazionale per la promozione e la protezione dei diritti delle persone con disabilità, in attuazione della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità. Egli opera in collaborazione con l’Osservatorio Nazionale sulla Condizione delle Persone con Disabilità e, con riguardo alle persone con disabilità private della libertà personale, individua, ferme restando le rispettive competenze, forme di collaborazione con il Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale.
I componenti della nuova Autorità Garante durano in carica quattro anni e il loro mandato è rinnovabile una sola volta.

Le funzioni e le prerogative dell’Autorità Garante sono disciplinate dall’articolo 4 del già menzionato Decreto Legislativo 20/24 e possono essere sinteticamente riassunte nelle seguenti:
° vigila sul rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali e ne promuove l’effettivo godimento;
° riceve le segnalazioni, anche tramite l’attivazione di un centro di contatto dedicato e svolge verifiche, d’ufficio o a seguito di segnalazione, sull’esistenza di fenomeni discriminatori;
° promuove la cultura del rispetto dei diritti delle persone con disabilità e i rapporti di collaborazione con i Garanti e gli altri organismi pubblici italiani e internazionali in relazione alla tutela dei diritti delle persone con disabilità;
° assicura la consultazione con le organizzazioni e con le associazioni rappresentative delle persone con disabilità ed effettua le visite agli istituti penitenziari;
° agisce e resiste in giudizio a difesa delle proprie prerogative;
° verifica l’esistenza di discriminazioni ed emette un parere motivato nel quale indica gli specifici profili delle violazioni riscontrate;
° con riferimento alle barriere architettoniche o sensopercettive può proporre all’amministrazione competente un cronoprogramma per rimuoverle, vigilando sull’avanzamento;
° trasmette entro il 30 settembre di ogni anno, una relazione sull’attività svolta alle Camere, nonché al Presidente del Consiglio o all’Autorità Politica delegata in materia di disabilità sull’attività svolta;
° nei casi di urgenza può, anche d’ufficio, a seguito di un sommario esame circa la sussistenza di una grave violazione del principio di non discriminazione in danno di una o più persone con disabilità, proporre l’adozione di misure provvisorie.

I Presidenti della Camera e del Senato hanno dunque firmato l’atto di nomina dei componenti dell’Autorità, individuando nell’avvocato Maurizio Borgo il Presidente del Collegio e nei dottori Francesco Vaia e Antonio Pelagatti gli altri componenti.
Anche in questo caso, va osservato di passata, nessuna donna, come già con la nomina dei membri del Comitato Tecnico-Scientifico dell’Osservatorio Nazionale sulla Condizione delle Persone con Disabilità.

Tornando al Decreto Attuativo 20/24, all’articolo 2, comma 2 esso prevede che il presidente e i componenti del collegio siano «scelti tra persone di notoria indipendenza e di specifiche e comprovate professionalità, competenze o esperienze nel campo della tutela e della promozione dei diritti umani e in materia di contrasto delle forme di discriminazione nei confronti delle persone con disabilità».
L’indipendenza del Garante è un prerequisito essenziale della figura di un Garante che abbia il compito di tutelare i diritti umani dei cittadini, base di tutte le Convenzioni dell’ONU relative proprio a questi diritti, come la Convenzione sui Diritti delle Persone con Disabilità. I Princìpi di Parigi delle Nazioni Unte (1991) sono contenuti nella Risoluzione 48/134 del 20 dicembre 1993 dell’Assemblea Generale ONU, che recepisce anche le conclusioni della Conferenza di Vienna sui Diritti Umani del luglio 1993. In tal senso, gli Istituti Nazionali sui diritti umani devono essere informati ai princìpi di indipendenza, pluralismo, rappresentatività, non-formalismo, equità, spirito di società civile, cooperazione trans-nazionale.
Qui, purtroppo, un primo dubbio nasce proprio sull’indipendenza del Presidente del Collegio dei Commissari, che è stato fino al dicembre 2024 il capo di gabinetto del ministro per le Disabilità Locatelli: quale indipendenza sostanziale potrà garantire dal peso del suo recente mandato in un Dipartimento della Presidenza del Consiglio?
Ricordiamo, come più sopra sottolineato, che il Garante ha il potere di sottoporre gli Enti Pubblici al rispetto dei diritti umani attraverso specifiche indagini anche a richiesta dei cittadini, per verificare la violazione di diritti umani. A parte l’esperienza maturata presso il Dipartimento competente sulle disabilità della Presidenza del Consiglio, nel curriculum del Presidente del Collegio non vi sono riferimenti a competenze in materia di tutela dei diritti umani. Considerando il vastissimo campo di situazioni di possibili violazione dei diritti umani in termini di discriminazioni e mancanza di pari opportunità la sua nomina lascia quindi perplessi.

Quanto agli altri due membri del Collegio, nominare un medico laureato in Ostetricia, fino a poco tempo fa Direttore Generale della Prevenzione Sanitaria presso il Ministero della Salute, sembra far riferimento all’idea che il problema di tutela dei diritti delle persone con disabilità sia legato ad un àmbito prevalentemente sanitario. Scorrendo il suo curriculum, poi, non vi risultano specifiche competenze nel campo dei diritti delle persone con disabilità. D’altra parte un medico può essere al massimo competente nel valutare l’accesso ai servizi di salute (è docente di Economia Sanitaria e Organizzazione Sanitaria).
Ancora va sottolineato che proprio la Convenzione ONU supera il modello medico della disabilità, sposando il modello sociale basato sul rispetto dei diritti umani e che la nomina di un medico a questo incarico sembra paradossale e contradittoria con le norme della stessa Convenzione.

L’ultimo Commissario, infine, persona che si muove in sedia a rotelle, è stato consigliere circoscrizionale al Comune di Roma, ma non pare avere un profilo nazionale di esperienze nel campo dei diritti umani delle persone con disabilità. Non basta, infatti, avere una limitazione funzionale per essere esperto della tutela e promozione dei diritti umani delle persone con disabilità.

Qual è dunque la ratio di queste nomine? Controllare il funzionamento del Garante? Svuotarne i contenuti innovativi? Riproporre il modello medico della disabilità? Non volere approcciare il tema della discriminazione a largo raggio (per esempio per le persone migranti o omosessuali con disabilità)? Per la prima Istituzione Nazionale sui Diritti Umani italiana (ricordiamo che l’Italia non ha una Commissione Nazionale sui Diritti Umani, al contrario di tanti Paesi europei e di altre parti del mondo) non sarebbe un buon inizio. Va ricordato che questa Istituzione Nazionale consente di accedere gratuitamente ad un parere autorevole sulla violazione dei diritti umani, riducendo sostanzialmente il carico economico per arrivare ad una sentenza in tribunale, che in questi anni ha ridotto il ricorso a questo strumento legale. Dall’altro lato la condizione di violazione dei diritti umani è considerevole in Italia, come dimostrano i 760 casi pervenuti nel 2023 al Centro Antidiscriminazione Franco Bomprezzi della Federazione lombarda LEDHA.

Possibile che non vi fossero altre persone competenti italiane che potessero essere nominate quali membri del Collegio del Garante? Nei prossimi mesi potremo valutare queste perplessità rispetto ad un’Istituzione Nazionale che aveva sollevato molte aspettative.
È evidente che su questi elementi critici informeremo le autorità internazionali competenti.

*Componente del Consiglio Mondiale di DPI (Disabled Peoples’ International).

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Conferenza finale per “Il Piemonte al mio fianco”

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Un capillare lavoro di formazione e sensibilizzazione in cinque àmbiti (sanità, istruzione, protezione civile, nuove tecnologie e lotta alle discriminazioni): è stato questo il progetto Il Piemonte al mio fianco, promosso dall’UICI Piemonte, che vivrà il 14 gennaio a Torino la propria conferenza finale

Promosso dall’UICI Piemonte (Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti) e realizzato con il sostegno economico della Regione Piemonte e con il supporto della Rete Regionale contro le Discriminazioni, il progetto denominato Il Piemonte al mio fianco, voluto per favorire l’inclusione e i diritti delle persone con disabilità visive e presentato a suo tempo anche sulle nostre pagine, vivrà nella mattinata di martedì 14 gennaio la propria conferenza finale a Torino (Sala Trasparenze del Grattacielo della Regione Piemonte, Piazza Piemonte, 1, ore 11).

«Questa iniziativa – spiegano dall’UICI Piemonte – ha comportato un capillare lavoro di formazione e sensibilizzazione in cinque àmbiti: sanità, istruzione, protezione civile, nuove tecnologie, lotta alle discriminazioni». (S.B.)

A questo link è disponibile il programma completo della conferenza di Torino del 14 gennaio. Per ulteriori informazioni: comunicazione@uicpiemonte.it (Lorenzo Montanaro).

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Dal Braille all’intelligenza artificiale: come plasmare un futuro più accessibile

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In tutto il mondo sono oltre 2 miliardi e 200 milioni le persone con una disabilità visiva o cecità. Come possiamo rimuovere le barriere per le persone cieche e ipovedenti in un’era segnata dal progresso digitale e tecnologico? Proponiamo oggi riadattata in italiano un’intervista a Lars Bosselmann, direttore esecutivo dell’EBU, l’Unione Europea dei Ciechi, già apparsa sul sito dell’UNRIC, il Centro di Informazione Regionale per l’Europa Occidentale delle Nazioni Unite Lars Bosselmann, direttore esecutivo dell’Unione Europea dei Ciechi

In tutto il mondo sono oltre 2 miliardi e 200 milioni le persone con una disabilità visiva o cecità. Di queste, oltre un miliardo presentano condizioni che si possono trattare, ma non ha accesso alle cure necessarie per farlo.
Per promuovere i diritti umani delle persone con disabilità visiva e sottolineare l’importanza del noto metodo di letto-scrittura Braille, l’Assemblea Generale dell’ONU ha proclamato il 4 gennaio quale Giornata Mondiale del Braille.
La Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità considera il Braille essenziale per l’istruzione, la libertà di espressione, l’accesso alle informazioni e l’inclusione sociale. Dal canto suo, l’Agenda ONU 2030 per lo Sviluppo Sostenibile ha ribadito l’impegno a non lasciare nessuno indietro. La pandemia da COVID ha dimostrato poi, recentemente, quanto le informazioni in formati accessibili come il Braille siano fondamentali per garantire la salute pubblica e l’inclusione digitale.
L’UNRIC, il Centro di Informazione Regionale per l’Europa Occidentale delle Nazioni Unite, ha proposto nei giorni scorsi un’intervista a Lars Bosselmann, direttore esecutivo dell’EBU, l’Unione Europea dei Ciechi, sul ruolo della tecnologia nel migliorare l’accessibilità e agli sforzi per garantire i diritti delle persone con disabilità visive. Proponiamo di seguito la traduzione e il riadattamento in italiano di quella stessa intervista.

Qual è il numero stimato di persone cieche o ipovedenti in Europa?
«Si stima che oltre 30 milioni di persone siano cieche o ipovedenti in Europa, includendo anche Paesi al di fuori dell’Unione Europea. Per altro, le definizioni di cecità e ipovisione possono variano tra i diversi Paesi, il che può influenzare le stime stesse».

Quali sono, secondo lei, i maggiori ostacoli per le persone con disabilità visive nella nostra società?
«Oltre alle barriere fisiche, una delle sfide più significative è l’accessibilità delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Quando la tecnologia non è inclusiva, può limitare le opportunità per le persone con disabilità visiva anziché abilitarle. Altri ostacoli chiave includono l’accesso limitato all’istruzione, alla sanità e all’occupazione, evidenziando la necessità di pratiche più inclusive».

Cosa vorrebbe che fosse diverso nella percezione della società verso le persone cieche e ipovedenti?
«A mio avviso la società spesso vede la cecità o l’ipovisione come “una delle peggiori cose” che possano capitare a una persona, il che crea una percezione negativa e limitante. Questo deriva da una mancanza di comprensione su ciò che le persone cieche o ipovedenti possono realizzare. Si tratta di proiettare le proprie paure riguardo alla perdita della vista, non comprendendo le esperienze reali e le possibilità di conviverci. È necessario pertanto un cambiamento di focus sulle abilità».

Ma cosa significa creare realmente una società inclusiva per le persone con disabilità visiva?
«Il primo passo per creare una società inclusiva è un cambiamento di atteggiamento, vedendo prima la persona e non la disabilità. Questo è fondamentale e fornisce la base su cui deve essere fondata l’inclusione. L’inclusività richiede anche passaggi pratici, come rendere accessibili gli ambienti fisici, quali i trasporti pubblici e gli edifici, e dare priorità all’accessibilità digitale nella progettazione della tecnologia. Infine, bisogna insegnare l’inclusione fin dall’infanzia e iniziare questo lavoro nelle scuole e nelle comunità aiuta a normalizzare l’inclusività sin da giovani».

Quali sono gli errori comuni che commettiamo mentre creiamo contenuti per persone con disabilità visiva? Se potesse dare tre consigli importanti sulla comunicazione inclusiva, quali sarebbero?
«L’errore più comune è non considerare l’accessibilità fin dall’inizio. Non si pensa che le persone con disabilità visiva possano dipendere dalle descrizioni per accedere a qualsiasi contenuto visivo. Immagini, video e infografiche sono spesso inaccessibili perché mancano di testo alternativo o di descrizioni audio. Le immagini o le infografiche diventano senza significato senza descrizioni per un utente cieco.
Se potessi dare tre consigli per una comunicazione più inclusiva, sarebbero: utilizzare il testo alternativo per tutte le immagini, facendo sì che i lettori di schermo potessero descriverle; aggiungere sottotitoli e descrizioni audio ai video per renderli più accessibili; riassumere i messaggi chiave di qualsiasi contenuto visivo, ad esempio delle infografiche».

Ci sono delle idee sbagliate che le persone vedenti potrebbero avere riguardo al Braille?
«Il Braille è un’invenzione rivoluzionaria, che ha aperto una nuova strada all’informazione e all’educazione per milioni di persone con disabilità visiva. Celebriamo i 200 anni di questa invenzione parlando di alcuni stereotipi. Un’idea sbagliata e comune è che il Braille sia diventato obsoleto con la diffusione dei contenuti audio quali podcast e audiolibri. In realtà il Braille è uno strumento su cui molte persone con disabilità visiva fanno affidamento. Oggi, infatti, esso è integrato con i dispositivi digitali, inclusi smartphone e computer, attraverso display Braille che trascrivono il contenuto dello schermo in Braille tattile.
Un altro falso mito è che il Braille sia difficile da imparare. In realtà, imparare il Braille in giovane età è naturale e facile come imparare a leggere e scrivere in qualsiasi altra lingua. Tuttavia, può essere più difficile da apprendere in età avanzata, proprio come qualsiasi nuova abilità.
Infine, sebbene il Braille non sia una lingua di per sé, esso permette alle persone con disabilità visiva di accedere alle informazioni in modo più naturale, simile alla lettura nella propria lingua».

Quali sono alcune delle tendenze emergenti nella tecnologia che possono essere adottate per migliorare ulteriormente la comunicazione inclusiva? E in che modo l’intelligenza artificiale e il machine learning, sottoinsieme della stessa intelligenza artificiale, hanno contribuito alle tecnologie assistive per le persone con disabilità visiva?
«L’accessibilità per le persone con disabilità visiva potrebbe essere migliorata con l’intelligenza artificiale, creando, fin dall’inizio, pagine web, applicazioni e documenti completamente accessibili, eliminando cioè la necessità di aggiustamenti manuali. In termini di tecnologia attuale, le app per smartphone e i sistemi di navigazione hanno già reso la mobilità molto più semplice per le persone con disabilità visiva. Questi strumenti, alimentati dall’intelligenza artificiale, permettono agli utenti di navigare in modo più indipendente senza dover chiedere continuamente assistenza. E tuttavia, come già detto in precedenza, un grande svantaggio emerge quando la tecnologia non è progettata pensando all’accessibilità. Ad esempio, molti servizi online, come quelli delle banche, stanno passando sempre più a piattaforme esclusivamente digitali. Quando questi servizi non sono completamente accessibili, essi limitano la partecipazione delle persone con disabilità visiva. Un problema comune riguarda ad esempio i sistemi di pagamento con touchscreen, dove la mancanza di output vocale può portare a rischi di sicurezza, poiché gli utenti potrebbero dover fare affidamento su altre persone per inserire informazioni sensibili quali i codici PIN.
Questi esempi dimostrano con chiarezza che la tecnologia deve essere costruita accessibile fin dall’inizio, garantendo un accesso equo per tutti».

In quale modo l’EBU si batte per i diritti delle persone con disabilità visiva?
«L’Unione Europea dei Ciechi difende i diritti dei cittadini e delle cittadine con disabilità visiva in Europa, facendo ad esempio pressioni per nuove legislazioni e migliorando le leggi esistenti sia a livello dell’Unione Europea che all’interno dei Paesi Membri di essa. La nostra organizzazione lavora su una vasta gamma di questioni, dalle sfide quotidiane legate all’accessibilità fisica a temi come l’accessibilità del web. Unendo le organizzazioni che ne fanno parte, l’EBU amplifica la voce collettiva di oltre 30 milioni di persone, rendendo gli sforzi di tutela (advocacy) più forti ed efficaci. Facilita inoltre anche gli scambi tra i vari Paesi.
Un recente successo che voglio ricordare è l’introduzione della Carta Europea della Disabilità, che punta a fornire alle persone con disabilità pari diritti quando viaggiano all’interno dell’Unione Europea. Un altro focus su cui siamo impegnati è migliorare l’accessibilità degli elettrodomestici, dato che sempre più dispositivi passano ai touchscreen, meno accessibili».

*Direttore esecutivo dell’EBU (European Blind Union). Traduzione e riadattamento in italiano a cura della redazione di Superando.

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