Aggregatore di feed

Alla teologia manca ancora il capitolo della disabilità

Superando -

In riferimento al recente convegno di Assisi “A Sua Immagine. ‘Us’ not ‘Them’”, che ha preso spunto dal libro “A Sua immagine? Figli di Dio con disabilità”, traduzione sostanziale di una pubblicazione del gesuita australiano Justin Glyn, dopo avere ospitato gli interventi del vescovo Francesco Antonio Soddu e dello stesso Justin Glyn, diamo oggi spazio a quello della teologa Ilaria Morali Ilaria Morali è docente di Teologia Dogmatica alla Pontificia Università Gregoriana di Roma

Quando alcuni anni orsono venni contattata da Giovanni Merlo esplorando l’ipotesi di un mio intervento a Milano sul tema Fede e Disabilità, confesso di essere rimasta, sulle prime, piuttosto spiazzata dal tema, per me completamente nuovo. In effetti, nella formazione di un teologo generalmente non si prevedono corsi di teologia sulla disabilità, né questa è materia di discussione. Semplicemente non se ne parla.
Nonostante la novità, ero però consapevole di essere cresciuta intellettualmente alla scuola dei grandi teologi gesuiti del Novecento, esponenti di un rinnovamento teologico che si prefiggeva di riportare il tema della condizione storica dell’uomo al centro della riflessione cattolica e di ricostituire il legame tra teologia e vita…, perché la teologia potesse rispondere alla domanda di senso avanzata dagli uomini del proprio tempo. In questo modo essi hanno di fatto preparato col loro impegno la strada del Concilio Vaticano II, cui essi personalmente contribuirono.

L’incontro con gli scritti di Padre Justin Glyn mi ha indubbiamente fornito la bussola per riposizionarmi, aiutandomi a comprendere in una luce nuova anche alcune letture di questi teologi che, pur non affrontando il tema specifico, mostrano tuttavia una spiccata sensibilità per tutte le forme di vulnerabilità che toccano l’esistenza umana. «Assumendo una natura umana – scriveva Henri de Lubac negli Anni Trenta – è la natura umana… che egli ha incluso in lui… tutta intera la porterà dunque al Calvario, tutta intera la resusciterà, tutta intera la salverà…» (1).
È un passo dell’opera Catholicisme che ebbe il merito di porre in rilievo la dimensione sociale del Cristianesimo nei suoi assi portanti.
Due aspetti mi colpiscono di questa affermazione: la sottolineatura circa la «natura tutta intera» che Cristo assume e include in sé e salva. Non si parla di una natura perfetta, ma di una natura tutta intera: l’intero è dato dalle diverse condizioni con le quali questa natura si declina e vive nella storia. Dunque anche la disabilità. Il secondo è la prossimità con quanto leggiamo nella Costituzione Pastorale Gaudium et Spes, al n. 22, testo molto conosciuto: «Con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo (cum omni homine quodammodo Se univit).Ha lavorato con mani d’uomo, ha pensato con intelligenza d’uomo, ha agito con volontà d’uomo (31) ha amato con cuore d’uomo. Nascendo da Maria vergine, egli si è fatto veramente uno di noi, in tutto simile a noi fuorché il peccato (32)».
Vorrei qui sottolineare un aspetto circa l’espressione conciliare: «Cristo si è unito ad ogni uomo». Non si specifica un uomo determinato, né ancora una volta un modello perfetto di uomo, ma si usa l’espressione forte «ogni uomo» al quale il Verbo si è unito. E sottolineerei anche quell’«egli si è fatto veramente uno di noi».

Il senso vero di questa affermazione si può cogliere tornando al Credo, a un passo che ci è familiare, ma che non conosciamo nel suo contenuto teologico profondo. Mi riferisco al passo «per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo e si è fatto uomo».
Due osservazioni: nella confessione di fede, torna per due volte la parola uomo in riferimento all’incarnazione di Cristo. È un’affermazione dogmatica, dunque normativa, sancita da ben due concili, di Nicea (325) e di Costantinopoli I (381) e tocca «la verità intima di Dio, la salvezza dell’uomo in tutte le sue dimensioni» (2). È però interessante notare come nella versione originale del testo in lingua greca ricorra il termine anthropos, due volte nella stessa frase: la prima, al plurale è riferita a noi, mentre la seconda è resa in forma verbale in riferimento all’incarnazione di Cristo. La traduzione italiana del termine greco, in “uomini”, “si è fatto uomo”, non permette di cogliere appieno il valore della scelta operata dai Padri Conciliari: anthropos, infatti, è il termine che in greco designa l’essere umano, in quanto tale, in tutta la sua ricchezza, non quindi il maschio.
Con quel “per noi uomini”, i Padri Conciliari hanno voluto indicare tutti gli esseri umani, uomini e donne, destinatari della salvezza, mentre il principio che si vuole esprimere con ἐνανθρωπήσαντα (en-anthropesanta), che noi traduciamo con “si è fatto uomo”, equivale ad affermare che il Verbo, nell’incarnazione, si è «inumanato», prendendo veramente tutto ciò che appartiene e fa dell’umanità… l’umanità, eccetto ovviamente il peccato. Un’affermazione forte, dunque, che rende la Rivelazione cristiana unica nell’orizzonte delle proposte religiose della storia.

L’incontro con il pensiero di Padre Glyn mi ha permesso tuttavia di notare come, nonostante l’incredibile attenzione dei teologi e del Magistero per questi temi, non si sia tuttavia giunti a considerare il tema della disabilità parte integrante di questa concretezza e non si sia riconosciuto in queste intuizioni un terreno propizio per una teologia della disabilità.
A proposito di Gaudium et Spes, Justin Glyn sottolinea, tra i vari, tre aspetti che mi sembrano teologicamente significativi in rapporto alla disabilità:
° rispetto a tesi sostenute in passato, il peccato «deriva dalle scelte dell’uomo e non dalla nostra costituzione fisica o mentale. Non è una caratteristica del corpo, che è creato tanto buono quanto limitato»;
° l’assunzione piena dell’umano da parte di Cristo non significa annichilire la natura creata dell’uomo, ma elevarla…» e questa elevazione, secondo la dottrina cristiana, avviene per grazia.
° Di qui una terza fondamentale affermazione: «la grazia è fondata sulla natura, tutta la natura», non una natura modello, ma la natura concreta, appunto in tutte le declinazioni che ne delineano la condizione storica. Per natura qui si intende implicitamente la natura dell’uomo in rapporto al dono della vocazione divina. E la grazia della salvezza è donata a ogni essere umano indipendentemente dalla sua condizione fisica, perché Cristo ha assunto tutto l’essere umano: ossia, in quel «per noi uomini» ci siamo dunque proprio tutti, senza distinzione.
Ora, come lo stesso Glyn afferma con vigore, «la grazia riguarda la relazione costante di Dio con gli uomini, tutti gli uomini… Nessuno è escluso perché nessuno di noi è concepito per essere lasciato fuori» In altri termini, la dispensazione della grazia non dipende certamente dal fatto di essere più normodotati di altri: «un corpo danneggiato, sofferente o menomato – scrive il gesuita neozelandese – è sempre e comunque un corpo creato meraviglioso che mostra l’immagine di Dio in virtù della propria umanità e non in funzione di ciò che può o non può fare» (3).

Vorrei aggiungere che ultimamente in teologia si è affacciato il tema della vulnerabilità di cui la disabilità costituisce uno dei vari capitoli. In un articolo di Catherine Vialle, professore di esegesi, su questo tema, si afferma giustamente che «Dio, in Cristo, viene ad abitare tutte le vulnerabilità», non solo nei momenti cardine della vita di Cristo, nascita e morte, «ma anche lungo tutta la sua esistenza» (4). Di qui qualche riflessione conclusiva.
Rispetto a queste verità incontrovertibili e profondamente dogmatiche, finora mi sembra manchi in teologia e, di riflesso, nello stesso modo di parlare della disabilità da parte cattolica, la consapevolezza di questo principio cristologico: Cristo unito ad ogni uomo, ogni, fattosi realmente uomo ed insieme il fatto che la sua grazia agisce e si relaziona ad una natura concreta, che tra le sue declinazioni conosce nella storia anche quella della condizione della disabilità.
Questa lacuna si riflette sullo stesso linguaggio che in àmbito cattolico si utilizza in riferimento al tema della disabilità. Mi sembra infatti ancora prevalere un’ottica paternalista: quella che vede, da un lato, il “noi” dei normodotati distanziato e distinto da “loro” delle persone con disabilità: noi impegnati perché “loro” si sentano accettati nella comunità. Glyn la definisce «retorica dell’inclusione», lamentando come l’esperienza vissuta della disabilità non sia ancora entrata a fare pienamente «parte dell’autocomprensione della Chiesa» (5).
Questo spiega anche il titolo del libro cui ho partecipato con un piccolo intervento finalizzato appunto a porre in evidenza quello che a mio avviso è ancora un capitolo mancante in teologia dogmatica. Dogmatica perché, come si è visto, i princìpi di riferimento – incarnazione, grazia ecc. – sono parte della dottrina di fede e hanno valore normativo. In tal senso non concordo con quanto scritto da Dominique Foyer, teologo dell’Università Cattolica di Lille, quando afferma che la prima cosa che la teologia deve fare davanti alla disabilità (e qui mi sembra che la sterile distinzione tra noi e loro sia presente) è tacere, senza cadere nella tentazione di parlare a nome di altri (6).
Se passi avanti sono stati nel frattempo compiuti, anche grazie al magistero di Papa Francesco, molti restano da fare sia nella riflessione teologica che nella pastorale e, più in generale, nel modo di affrontare il tema della disabilità nelle nostre parrocchie e comunità.
Ritengo perciò che l’iniziativa di pubblicare il contributo di Justin Glyn in traduzione sia tanto più preziosa: la prospettiva che ci addita, infatti, quella del “noi”, non solo ci apre gli occhi mostrando i limiti degli approcci finora adottati, ma oggettivamente schiude strade nuove. A noi il compito di percorrerle fino in fondo con coraggio, anche da teologi.

Ringraziamo Giovanni Merlo per la collaborazione.

*Docente di Teologia Dogmatica alla Pontificia Università Gregoriana di Roma. I contenuti del presente contributo corrispondono a quelli dell’intervento pronunciato nel corso del convegno “A Sua Immagine. ‘Us’ not ‘Them’”, tenutosi il 6 marzo 2025 ad Assisi (Perugia) (se ne legga la nostra presentazione). Rispetto al medesimo convegno, segnaliamo anche, sempre sulle nostre pagine, gli interventi di Francesco Antonio Soddu (“Il ruolo della Chiesa e la distruzione di ogni muro di separazione”) e di Justin Glyn (“Le vere necessità delle persone con disabilità cattoliche oggi”), rispettivamente a questo e a questo link.

Note:
(1) H. de Lubac, Catholicisme. Les aspects sociaux du dogme, Oeuvres complètes, VII, Paris, Cerf, 2003.

(2) L.F. Ladaria, Che cos’è un dogma? Il problema del dogma nella teologia attuale, in «Problemi e prospettive di Teologia Dogmatica», Brescia: Queriniana, 1983, p. 101.
(3) J. Glyn, “Noi, non loro”: la disabilità nella Chiesa, in «La Civiltà Cattolica», 1 (2020), p. 43.
(4) C.Vialle, Vulnerabilité humaines dans la Bible, in C. Vialle, M. Castro, P. Rodriguez, L’humain vulnerable face aux crises. 1.Vulnerabilité du vivant, Paris, Cerf, 2023, p. 139.
(5) J. Glyn, “Noi, non loro”: la disabilità nella Chiesa cit., pp. 41-52.
(6) D. Foyer, Quand la vulnerabilité de la personne handicapée dévoile la vulnerabilité de Dieu, in C. Vialle, M. Castro, P. Rodriguez, L’humain vulnerable face aux crises. 1.Vulnerabilité du vivant cit., p. 71.

L'articolo Alla teologia manca ancora il capitolo della disabilità proviene da Superando.

Serve estrema attenzione per l’intelligenza artificiale che “feticizza” la disabilità

Superando -

«Rubano immagini in rete e le “danno in pasto” all’intelligenza artificiale, per creare profili falsi (“deepfake”) di avvenenti ragazze e donne con sindrome di Down: è l’ultima, allarmante moda, che si sta rapidamente diffondendo in rete, specialmente sui social, in particolare su alcune piattaforme, tra cui OnlyFans»: a denunciarlo è l’Associazione AIPD che sottolinea come sia fondamentale porre l’attenzione su questo fenomeno di estrema pericolosità Una delle immagini “deepfake” create con l’intelligenza artificiale per l’allaramante trend “OnlyDown”

«Rubano immagini in rete e le “danno in pasto” all’intelligenza artificiale, per creare profili falsi (tecnicamente, deepfake) di avvenenti ragazze e donne con sindrome di Down: è l’ultima, allarmante moda, che si sta rapidamente diffondendo in rete, specialmente sui social, in particolare su alcune piattaforme, tra cui OnlyFans, con l’obiettivo di catturare l’attenzione di chi, attratto da questi profili, è pronto a pagare per avere loro foto o video»: la denuncia arriva dall’AIPD (già Associazione Italiana Persone Down, ma da qualche settimana divenuta Associazione Italiana Persone con Sindrome di Down), che spiega ancora come «OnlyDown sia il trend diffusosi nelle scorse settimane, dando particolare visibilità ad alcuni di questi profili, tra cui quello di una certa Maria Dopari: i tratti somatici caratteristici della sindrome di Down erano prestati a un corpo che si mostra, provocante, in varie pose e angolazioni. Dal profilo Instagram si viene quindi dirottati a Telegram e di qui viene proposto l’acquisto del relativo account di OnlyFans. I contenuti sono quasi sempre molto espliciti».

A spiegare ancor meglio come funziona il tutto è Matteo Flora, imprenditore, professore in Sicurezza delle Intelligenze Artificiali e delle SuperIntelligenze all’European School of Economics, conduttore televisivo e autore, tra l’altro, di Ciao Internet, il più seguito canale YouTube di Tech Policy in Italia. «Recentemente – spiega Flora nell’introduzione del video in cui illustra il trend OnlyDown – sui social come TikTok e Instagram si è registrato un trend apparentemente positivo legato a ragazze con sindrome di Down che mostrano con naturalezza la propria vita quotidiana. Tuttavia, scavando più a fondo, emerge una realtà molto più inquietante: profili fake generati tramite intelligenza artificiale che sfruttano l’immagine di persone reali (ignare e modificate), per vendere contenuti su piattaforme come OnlyFans. Dietro al fenomeno ci sono problematiche complesse: l’insufficiente regolamentazione legale e tecnologica contro questi abusi; le difficoltà di moderazione da parte delle piattaforme social; il confine molto labile tra inclusione e feticizzazione di persone vulnerabili».Proprio per prevenire e contrastare questi abusi, lo stesso Flora ha segnalato numerosi profili, alcuni dei quali sono stati rimossi, come quello citato di Maria Dopari, che aveva raggiunto quasi 150.000 follower.

Interpellato dall’AIPD, per averne un consiglio da rivolgere alle persone con sindrome di Down e alle loro famiglie, consentendo loro di proteggersi da questi abusi, Matteo Flora ha detto di «avere già fatto rimuovere circa un migliaio di contenuti, ma l’AIPD, come Associazione, potrebbe interfacciarsi direttamente tramite l’AGCOM (Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni), per chiedere le singole rimozioni. Sarebbe ancora una volta l’affermazione di una leadership nel campo, che secondo me l’AIPD deve reclamare a gran voce».
Il suggerimento è stato accolto con favore da Gianfranco Salbini, presidente nazionale dell’AIPD, consapevole di quanto il problema richieda attenzione: «La ricerca di visibilità attraverso l’esposizione dei propri figli – afferma – è diventata, purtroppo, una pratica comune. Tuttavia, è fondamentale porre l’attenzione su questo fenomeno, ancora più allarmante: l’utilizzo dei deepfake per sfruttare l’immagine delle persone con disabilità. Anche se parlarne potrebbe generare un effetto di emulazione, è essenziale sensibilizzare le famiglie sull’estrema pericolosità di queste pratiche. Il mercato dell’immagine umana, quando non regolamentato, può diventare uno strumento diabolico di sfruttamento, soprattutto per le comunità più vulnerabili».
«In Italia – aggiunge Salbini -, la legge prevede pene detentive da uno a cinque anni per chi crea e diffonde contenuti deepfake che causano danni ingiusti. Tuttavia, la rapidità con cui queste tecnologie si evolvono richiede un costante aggiornamento delle normative e una maggiore consapevolezza da parte del pubblico. Ritengo quindi fondamentale approfondire e diffondere queste informazioni, per proteggere le persone con disabilità e prevenire ulteriori abusi». (S.B.)

Per ulteriori informazioni: ufficiostampaaipd@gmail.com.

L'articolo Serve estrema attenzione per l’intelligenza artificiale che “feticizza” la disabilità proviene da Superando.

La fase formativa del progetto “For All – Roma una città fruibile per tutti”

Superando -

Tra ieri 14 aprile, e oggi, 15 aprile, si è svolta la fase formativa del progetto “For All – Roma una città fruibile per tutti”, rivolta agli operatori di Protezione Civile e Croce Rossa impegnati nell’accoglienza delle persone con disabilità per il “Giubileo 2025”. Realizzato con il contributo del Fondo Carta Etica di UniCredit, il progetto ha quale capofila la Federazione FISH, in partenariato con l’ANFFAS Nazionale, la FAIP, Pedius, il Consorzio La Rosa Blu e il MAV L’intervento del presidente della FISH Falabella alla due giorni di formazione del progetto “For All – Roma una città fruibile per tutti”

In attesa della data riguardante il lancio ufficiale del progetto, che verrà annunciata entro breve, è già pienamente in corso la due giorni di formazione di For All – Roma una città fruibile per tutti, rivolta, tra ieri 14 aprile, e oggi, 15 aprile, agli operatori di Protezione Civile e Croce Rossa impegnati nell’accoglienza delle persone con disabilità per il Giubileo 2025.

Titolo della due giorni di formazione è Il nuovo concetto di disabilità: come accogliere le persone con disabilità, che ha visto nella giornata di ieri l’intervento di Stefania Leone, presidente dell’ADV (Associazione Disabili Visivi), Gabriele Favagrossa, esperto della FISH (Federazione Italiana per i Diritti delle Persone con Disabilità e Famiglie) e Michele Adamo, consigliere nazionale della UILDMM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare).
Oggi, invece, sono intervenuti Vincenzo Falabella, presidente della FISH e consigliere del CNEL (Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro), ancora Gabriele Favagrossa e Alessandro Parisi dell’ANFFAS Nazionale (Associazione Nazionale di Famiglie e Persone con Disabilità Intellettive e Disturbi del Neurosviluppo).

Realizzato con il contributo del Fondo Carta Etica di UniCredit, For All – Roma una città fruibile per tutti, che dopo la formazione si articolerà su altre iniziative generatrici di accessibilità, ha quale capofila la FISH, in partenariato con l’ANFFAS Nazionale, la FAIP (Federazione delle Associazioni Italiane di Persone con Lesione al Midollo Spinale), Pedius, il Consorzio La Rosa Blu e il MAV. (S.B.)

Per ulteriori informazioni: ufficiostampa@fishonlus.it.

L'articolo La fase formativa del progetto “For All – Roma una città fruibile per tutti” proviene da Superando.

Oggi l’angioedema ereditario fa meno paura: lo racconta anche un cortometraggio

Superando -

Oggi l’angioedema ereditario, malattia rara disabilitante e potenzialmente letale, fa decisamente meno paura, grazie all’innovazione terapeutica e alla possibilità di una profilassi preventiva. Lo racconta anche il cortometraggio “Il Colloquio”, che il 16 aprile verrà ufficialmente presentato alla stampa italiana, durante l’incontro online denominato “Angioedema ereditario: oggi fa meno paura”

Malattia rara disabilitante e potenzialmente letale, attualmente l’angioedema ereditario (HAE), grazie all’innovazione terapeutica e alla possibilità di una profilassi preventiva, fa decisamente meno paura di prima: una buona gestione della malattia, infatti, permette alle persone che ne sono affette e ai loro caregiver la prospettiva di una vita senza limitazioni.

Per celebrare questo importante passaggio epocale e continuare a diffondere conoscenza sulla condizione di vita con la malattia, la Società BioCryst, impegnata nell’area terapeutica dell’angioedema ereditario, ha realizzato il cortometraggio denominato Il Colloquio, presentato recentemente anche durante l’81^ Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, nell’àmbito del Premio Son of a Pitch Award.

Il Colloquio verrà ufficialmente presentato alla stampa italiana nel pomeriggio del 16 aprile (ore 16.30-18), durante l’incontro online denominato Angioedema ereditario: oggi fa meno paura, organizzato dalla stessa BioCryst, in occasione dell’apertura del Mese dedicato alla consapevolezza su questa malattia (la cui Giornata Mondiale ricade a maggio).
L’evento si avvarrà della media partnership dell’OMaR (Osservatorio Malattie Rare), nonché del patrocinio dell’AAEE (Associazione volontaria per l’Angioedema Ereditario ed altre forme rare di angioedema) e di ITACA (Italian Network for Hereditary and Acquired Angioedema). (S.B.)

Per ulteriori informazioni: melchionna@rarelab.eu (Rossella Melchionna).

L'articolo Oggi l’angioedema ereditario fa meno paura: lo racconta anche un cortometraggio proviene da Superando.

La solitudine dei caregiver

Superando -

Verrà presentato oggi, 15 aprile, a Milano, il numero di aprile di «VITA magazine», interamente dedicato a “La solitudine dei caregiver”, volume in cui si dà grande rilievo alle storie dei/delle caregiver, coivolgendo esperti ed esperte del settore, intervistando la Ministra per le Disabilità e proponendo un panorama dei servizi più innovativi messi in campo dal Terzo Settore in questo àmbito. E infine anche interviste a scrittori, artisti, sceneggiatori che hanno messo la cura dell’altro al centro della loro opera

Sarà interamente dedicato a La solitudine dei caregiver il numero di aprile di «VITA magazine» che verrà presentato nel pomeriggio di oggi, 15 aprile (ore 18), nel corso di un evento pubblico che si terrà a Milano (Sala Liberty Il Treno, Via San Gregorio, 46).
«In Italia i caregiver familiari sono più di 7 milioni, per il 60% donne. In prospettiva aumenteranno. È un destino che ci attende tutti: prenderci cura dei nostri padri e delle nostre madri quando “diventeranno piccoli”. Solitudine, disorientamento, stanchezza, impotenza sono dimensioni che i caregiver sperimentano quotidianamente: tutto quel bianco nella bellissima copertina firmata da Magda Azab lo restituisce in maniera impattante», spiega la giornalista Sara De Carli in un articolo di presentazione del numero monografico.

L’opera è articolata in tre capitoli. Il primo di questi sarà dedicato alle storie. Sono cinque le famiglie che hanno deciso di raccontare la propria quotidianità. Cinque testimonianze molto diverse tra loro per età dei protagonisti e delle protagoniste e per il tipo di relazione che li/le lega.
Si va dalla cosiddetta “generazione sandwich” (ossia le donne impegnate sia nella cura di figli adolescenti che di persone anziane) «al giovane caregiver, dal genitore a cui la nascita di un figlio con una disabilità complessa ha cambiato la vita fino a chi si prende cura di qualcuno avendo lui stesso bisogno di cura. Le difficoltà quotidiane si toccano con mano, i buchi del sistema pure. Il tempo per sé è la risorsa che più manca, l’amore la ricchezza più grande», racconta sempre De Carli.
C’è poi la storia dei Terconauti, due fratelli divenuti influencer sui social, quella di Margherita Tercon, sorella e caregiver di Damiano, un giovane nello spettro autistico, che si raccontano in chiave ironica. La vita da grandi, il film di diretto da Greta Scarano, attualmente al cinema, è ispirato al loro libro autobiografico Mia sorella mi rompe le balle. Una storia di autismo normale (Mondadori, 2020).
Si parlerà inoltre della Legge che dovrebbe introdurre specifiche tutele per loro, giacché in Italia, pur avendo conseguito un primo riconoscimento formale con la Legge 205/17 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020) e un modesto fondo dedicato, non hanno ancora una norma nazionale che disciplini la materia.
In merito a questo profilo, nel magazine viene riportata l’indicazione della misura ritenuta più urgente da portare alla politica secondo il parere espresso da venti esperti ed esperte del settore appositamente interpellate sulla questione. Risposte che la ministra per le Disabilità Alessandra Locatelli ha commentato in un’intervista inclusa nella monografia.

Il secondo capitolo è dedicato quindi a “curare chi cura” e propone un panorama dei servizi più innovativi messi in campo dal Terzo Settore in questo campo. Spiega De Carli: «I caregiver ancora troppo spesso navigano senza bussola, lasciati soli ad orientarsi tra i tanti bisogni e i servizi esistenti. La cura di sé, in particolare, diventa quasi un lusso. L’innovazione? Sta nei dettagli: collocando lo sportello informativo dentro un mercato rionale; portando lo psicologo sulla strada, con un pullmino; chiamando in aiuto dei mediatori culturali. C’è chi fa leva sulla musica, chi sul camminare insieme, chi usa dei visori e chi ha inventato un palinsesto per la tv».

L’ultimo capitolo, infine, ospita delle interviste a scrittori, artisti, sceneggiatori che hanno messo la cura dell’altro al centro della loro opera: Daniele Mencarelli, Emma Ciceri, Roy Chen, Luca Doninelli, Ilaria Turba, Mariapia Veladiano, Fosco e Sirio Bertani. «Interviste sorprendenti, in cui i caregiver possono rileggere i loro gesti di cura e trovare nell’arte una forma di resistenza esistenziale», conclude De Carli. (Simona Lancioni)

A questo link è disponibile il programma dettagliato dell’evento di presentazione del numero monografico a Milano. Il presente contributo è già apparso nel sito di Informare un’H – Centro “Gabriele Giuntinelli” di Peccioli (Pisa) e viene qui ripreso, con minimi riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.

L'articolo La solitudine dei caregiver proviene da Superando.

Scioglimento della riserva relativa al possesso della certificazione internazionale di alfabetizzazione digitale – Allegato A CCNL Istruzione e Ricerca 2019/2021 – Graduatorie di circolo e di istituto di terza fascia del personale Ata per il...

Ultime da A. T. P. Cosenza -

Ministero dell’Istruzione Ufficio Scolastico Regionale per la Calabria – Direzione Generale Ufficio V – Ambito Territoriale di Cosenza Via Romualdo Montagna, 13 – 87100 Cosenza e-mail: usp.cs@istruzione.it – Posta ...

Indizione, ai sensi dell’articolo 554 del decreto legislativo n. 297/1994 e dell’ordinanza ministeriale 23 febbraio 2009, n. 21, dei concorsi per titoli per l’aggiornamento e l’integrazione delle graduatorie per l’accesso ai ruoli provinciali dei...

Ultime da A. T. P. Cosenza -

Ministero dell’Istruzione Ufficio Scolastico Regionale per la Calabria – Direzione Generale Ufficio V – Ambito Territoriale di Cosenza Via Romualdo Montagna, 13 – 87100 Cosenza e-mail: usp.cs@istruzione.it – Posta ...

Ipofosfatasia: tutti coloro che collaborano alla presa in carico dei pazienti

Superando -

Durante l’incontro online del 15 aprile sul tema “Ipofosfatasia – Il ruolo della cooperazione multistakeholder nella gestione del paziente”, si approfondiranno aspetti fondamentali della presa in carico di persone affette da ipofosfatasia (HPP), malattia rara i cui sintomi, diversi e spesso comuni ad altre patologie, ne ritardano la diagnosi

Organizzato da ISHEO, con il contributo non condizionante di Alexion, è in programma per il pomeriggio del 15 aprile (ore 15) l’incontro online sul tema Ipofosfatasia – Il ruolo della cooperazione multistakeholder nella gestione del paziente, in cui si approfondiranno aspetti fondamentali della presa in carico di persone affette da ipofosfatasia (HPP), malattia rara i cui sintomi, diversi e spesso comuni ad altre patologie, ne ritardano la diagnosi. Per questo è fondamentale che tutti coloro che a vario titolo entrano in gioco nella presa in carico dei pazienti, cooperino al fine di diagnosticarla in maniera appropriata e tempestiva.
Durante il webinar, sarà presentato tra l’altro l’ISHEO Report, testo divulgativo e di approfondimento, con dati di recente letteratura e il punto di vista di professionisti che si occupano di ipofosfatasia. Verranno inoltre evidenziati i maggiori bisogni non soddisfatti di pazienti e caregiver. (S.B.)

Per iscriversi al webinar accedere a questo link. Per ulteriori informazioni: Anita Fiaschetti (anitafiaschetti@gmail.com).

L'articolo Ipofosfatasia: tutti coloro che collaborano alla presa in carico dei pazienti proviene da Superando.

Quel paradigma culturale che deve cambiare per avere una giusta legge sui caregiver familiari

Superando -

Pensando anche all’opportunità di avviare un costruttivo e approfondito dibattito sul tema, diamo spazio al presente contributo di riflessione, firmato da tre donne caregiver familiari, componenti del “Tavolo tecnico per l’analisi e la definizione di elementi utili per una legge statale sui caregiver familiari”, istituito dai Ministeri del Lavoro e delle Politiche Sociali e per le Disabilità

Siamo esperte su nomina della ministra per le Disabilità Alessandra Locatelli nel Tavolo tecnico per l’analisi e la definizione di elementi utili per una legge statale sui caregiver familiari, istituito dai Ministeri del Lavoro e delle Politiche Sociali e per le Disabilità.
Costituito con Decreto nell’ottobre 2023 e insediatosi a gennaio 2024, il Tavolo avrebbe dovuto, in un lasso di tempo di sei mesi, lavorare per formulare proposte ai fini dell’elaborazione di un Disegno di Legge volto al riconoscimento del ruolo svolto dal caregiver familiare. Pochi incontri in plenaria e la divisione dei lavori in gruppi tematici che avevano il compito di analizzare aspetti precisi della redigenda norma: Finalità e definizione della figura; Procedura di riconoscimento; Tutele e sistemi di sostegno; quest’ultimo il gruppo che ha lavorato in maniera più serrata e approfondita. Siamo tuttora in attesa delle risultanze del lavoro svolto e della sintesi conclusiva degli Uffici Legislativi dei Ministeri coinvolti.

L’entusiasmo di poter finalmente lavorare in maniera fattiva e specifica su questa materia, che dava risposta all’attesa annosa di noi caregiver familiari impegnati in un percorso di consapevolezza ed emancipazione dal ruolo che la vita ci ha assegnato e nel quale la società ci ha rinchiuso, ha lasciato ben presto in noi posto alla frustrazione. La volontà politica di coinvolgere nel Tavolo la più ampia gamma di attori non ha seguito un principio elementare di distinzione, né di equilibrio numerico, delle rappresentanze dei caregiver familiari, individui con diritti soggettivi propri, dalle rappresentanze delle persone con disabilità, professionisti e persone che della rappresentanza hanno fatto una professione; a questo si aggiunge il principio adottato di valutare la validità delle istanze secondo il volere della maggioranza dei partecipanti.
Da subito si è evidenziato un disallineamento fra chi, abituato a difendere i diritti delle persone con disabilità, spesso anche da professionista, non riesce a comprendere il dovere e l’urgenza di considerare il caregiver familiare nella sua individualità, dando importanza al ruolo sociale che, obtorto collo, si assume, e che al momento, nella nostra società, gli comporta di scomparire come cittadino al pari. Tra chi, considerando chiunque caregiver familiare, punta ad ottenere ulteriori servizi per la persona con disabilità e chi chiede un’analisi attenta sull’incidenza che il caregiving ha nella vita di un caregiver familiare, ben consapevole dell’impatto che ha la convivenza con il proprio congiunto con disabilità. Tra chi dà per scontato che il caregiver familiare possa essere scelto dimenticando la realtà delle persone con disabilità che non hanno capacità giuridica di effettuare scelte e chi si ribella alla possibilità di soggiogare alcuni cittadini al bisogno dei loro congiunti con disabilità, perché alla condizione di disabilità dal punto di vista assistenziale e sanitario deve corrispondere un sistema di servizi e non un caregiver familiare. E ancora, tra chi si rifiuta di accettare il distinguo fra persone con disabilità intellettivo relazionali, del neurosviluppo o con decadimento cognitivo, che per la natura stessa della loro condizione di disabilità abbisognano che un adulto del nucleo familiare convivente assuma la responsabilità di quella vita e quindi il ruolo di caregiver familiare, e persone che vivono in condizioni di disabilità che non intacca la loro capacità cognitiva ed autodeterminativa, e per ciò stesso hanno bisogno di un sistema di servizi e non di un caregiver familiare, perché i rapporti familiari seguono un principio di reciprocità, e non si può ne dovrebbe consentire loro di assoggettare un proprio congiunto alle loro necessità.

Contemporaneamente, in Commissione Sanità alla Camera dei Deputati è stato avviato l’iter per arrivare ad una norma nazionale per il Riconoscimento del ruolo svolto dal caregiver familiare, all’interno del quale la Commissione stessa ha svolto, la scorsa estate, le audizioni cui abbiamo avuto la possibilità di partecipare, ognuna in rappresentanza del proprio organismo di riferimento.
Anche in Parlamento è stato riproposto lo stesso schema di auditi, mettendo cioè assieme, senza alcun rispetto di un equilibrio almeno numerico, le rappresentanze dei caregiver familiari alle rappresentanze delle persone con disabilità che da decenni parlano indistintamente a nome di ogni tipo di disabilità, quando non le rappresentanze di individui con specifiche patologie.
A febbraio la Commissione Parlamentare Affari Sociali ha svolto l’audizione della ministra per le Disabilità Locatelli sul tema. In quell’occasione, mentre ascoltavamo i lavori della Commissione Parlamentare, con l’esperienza accumulata al Tavolo Nazionale, ci passavano davanti agli occhi le nostre vite e quelle innumerevoli di quelli come noi, caregiver familiari, cioè coloro che al sopraggiungere di una disabilità che compromette la capacità autodeterminativa di una persona del proprio nucleo familiare convivente, si sono dovuti assumere la responsabilità di quella vita.
La nascita dei nostri figli con una disabilità intellettivo relazionale e del neurosviluppo, la complessità e la numerosità delle cose da affrontare fin da subito e la necessità di una presenza continua per comprendere, valutare e operare scelte sulla loro vita, sulla loro crescita, la necessità di interfacciare con i professionisti e i servizi, di gestirli e metterli a sistema, di scegliere le équipe e le strategie utili, nell’incapacità e impossibilità dei nostri stessi figli di fornire il proprio apporto puntuale e consapevole, ci hanno costrette a ridurre drasticamente quando non ad abbandonare il lavoro e ad affrontare una condizione di dipendenza economica da altri che certo non era nella nostra indole e formazione culturale.
Non abbiamo avuto modo di scegliere, perché non ce n’è la possibilità; fin dal primo momento la vita della persona con disabilità deve essere costruita e sostenuta, in suo nome e conto bisognava costantemente decidere, su esigenze quotidiane di poco conto, come su esigenze sanitarie, come sulla costruzione del suo progetto di vita.

Noi caregiver familiari, noi che conviviamo con i nostri figli e congiunti che hanno una compromissione o alterazione della capacità cognitiva e percettiva della realtà, con i nostri cari che non distinguono le proprie emozioni e sensazioni, che non hanno un canale comunicativo utile a relazionarsi con il mondo che li circonda, che non sono in grado di interfacciare autonomamente con i servizi e di gestirli, che non sanno organizzare la giornata, ma necessitano di attività e stimoli continui a scandire il tempo di cui non hanno contezza, che abbisognano di anticipatori e continuità nei luoghi e nelle relazioni per non incorrere in comportamenti-problema, noi ben conosciamo la condizione unica e solitaria del caregiver familiare, ossia di chi assume, per responsabilità e senza alcuna possibilità di scelta o evasione, il compito di portare avanti la vita del proprio congiunto convivente, organizzandogli il quotidiano così come il futuro, e rappresentando la memoria storica del suo percorso di vita.
La complessità, la stanchezza, la solitudine quotidiana e nelle scelte, l’impossibilità di cedere, la paura per il futuro dopo di noi, questi sono i nostri compagni di vita, in una previsione di 20, 30, 40, 50 anni, quando non sine die, sempre in allerta e affrontando ogni accadimento imprevisto per rispondervi in maniera adeguata, sostenendo una vita sotto continuo ricatto affettivo, nella consapevolezza che dalla propria lucidità in ogni situazione dipende tutto il ménage quotidiano e in tutto questo costruire la vita del nostro congiunto con disabilità per quando non ci saremo più.

All’ascolto della Commissione, ogni intervento degli Onorevoli Deputati che continuavano a parlare di persone con disabilità e non di noi caregiver familiari, accresceva il nostro sbigottimento e la nostra delusione. Possibile mai che l’esistenza e il riconoscimento del caregiver familiare venga ancora confusa e legata alla condizione di disabilità in generale o, peggio, al bisogno assistenziale della persona con disabilità? L’assistenza fisica o infermieristica si esplica attraverso i servizi preposti a questo, e la redigenda norma non può dare spazio ad una quantificazione o addirittura a una monetizzazione della solidarietà umana e familiare, né può acquisire come certe le carenze dei servizi alla persona con disabilità, delegandole al caregiver familiare, in quel ricatto affettivo e ingiusto già attivo in svariate Regioni d’Italia, per cui il familiare firma il Progetto Assistenziale Individualizzato della persona con disabilità, assumendosi specifici compiti quotidiani affinché alla persona con disabilità venga riconosciuto quanto di suo diritto.
È apprezzabile che la Ministra abbia dimostrato di avere ascoltato le narrazioni nostre e di altri, è fondamentale, poi, che abbia riconosciuto come prioritario il principio di convivenza, così come la solitudine dei nuclei monogenitoriali e monoparentali. Manca sempre e comunque a tutti la capacità di superare quel tabù culturale che ci impedisce di vedere in maniera lucida la realtà che distingue le persone tra coloro che con la maggiore età acquisiscono la capacità di agire, ossia l’idoneità del soggetto a curare consapevolmente i propri interessi e a valutare la portata degli atti da attuare ed accettarne gli effetti, e coloro che la giurisprudenza considera sempre “minori”, indipendentemente dall’età anagrafica. Tutti hanno la capacità giuridica, ma non tutti acquisiscono la capacità di agire. Negare questo fondamentale distinguo tra persone significa non accettare la realtà della nostra società e continuare a non voler considerare appieno la responsabilità che un caregiver familiare è obbligato ad assumere nell’arco di una vita; significa non conoscere la complessità di un ruolo che porta a vivere una vita in due, dove la propria esistenza, quella del caregiver familiare, passa in secondo piano, perdendo ogni autonomia e libertà.

Da anni, a mani nude, attraverso movimenti spontanei, appoggiati dalla sola forza della nostra realtà, ci battiamo per imporre questo cambio di paradigma culturale che veda in noi una frangia di popolazione che non vuole rinunciare al proprio ruolo, ma vuole essere sostenuta e riconosciuta perché ricopre un ruolo sociale.
La massificazione degli interventi e delle misure è il primo nemico di ogni giusto intervento legislativo, e oggi rappresenta anche l’ostacolo alla capacità di individuare chi è il caregiver familiare per poi valutarlo come individuo a sé, titolare di diritti soggettivi propri. Una norma sul caregiver familiare deve rispondere esclusivamente alle esigenze di questi.

*Erika Coppelli è caregiver familiare, presidente del Tortellante (laboratorio terapeutico abilitativo e palestra di autonomia per giovani adulti nello spettro autistico); Sofia Donato è caregiver familiare, portavoce del gruppo nazionale Caregiver Familiari Comma 255, che porta avanti la battaglia per l’individuazione e il riconoscimento della figura del caregiver familiare, interloquendo con l’amministrazione e la politica ad ogni livello; Cristina Finazzi è caregiver familiare, presidente dell’Associazione Spazio Blu Autismo Varese, portavoce del Comitato Uniti per L’Autismo, Coordinamento regionale lombardo nato nel 2018, comprendente oltre 50 associazioni per l’autismo e migliaia di famiglie, impegnato per chiedere e operare con la propria Regione e gli Enti/Istituzioni preposti, per l’attuazione delle Leggi Regionali e Nazionali in materia di autismo.

L'articolo Quel paradigma culturale che deve cambiare per avere una giusta legge sui caregiver familiari proviene da Superando.

Siamo noi a ringraziare Stefania, per la sua intelligenza e la sua sensibilità

Superando -

«Anche per il blog “InVisibili” è stato motivo di gioia e di orgoglio questo riconoscimento a una persona che da qualche anno è pure una nostra firma, con i suoi testi che sono gemme preziose nel raccontare storie riguardanti il mondo della disabilità»: lo scrive Alessandro Cannavò, a proposito del “Premio Marina Garbesi”, ricevuto nei giorni scorsi dalla nostra direttrice responsabile Stefania Delendati Alessandro Cannavò e Stefania Delendati

L’11 aprile scorso anche per noi di InVisibili [blog del «Corriere della Sera.it», N.d.R.] è stata una giornata particolare, piena di gioia e di orgoglio: Stefania Delendati ha ricevuto a Imola il Premio Marina Garbesi «per il suo impegno a tutela dei diritti delle persone disabili, la cura e la tenacia con cui lo svolge, l’eleganza dello stile, il contributo costante – dal 2024 in qualità di direttrice – che ha dato alla storia ventennale di Superando.it, un organo di informazione che affronta, e risolve, la questione del linguaggio sulle persone disabili nella pratica quotidiana».
In questa motivazione c’è un ritratto perfetto di Stefania, che da qualche anno è anche firma di InVisibili, pezzi centellinati, circa uno al mese, ma gemme preziose nel racconto di storie che riguardano il mondo della disabilità.

Credetemi, da caporedattore che legge e passa tanti articoli, li titola, ne trae spunto per altre idee giornalistiche da esplorare, leggere Stefania è un grande piacere per la cura della scrittura, la capacità di andare a fondo nelle problematiche, la generosità nel dare voce agli interlocutori. C’è una grande professionalità, ma anche una capacità di ascolto degli altri, atteggiamento indispensabile per stabilire un’empatia e fare un servizio pubblico con il proprio lavoro.

Ammetto che quando cominciò a collaborare con InVisibili, conoscevo poco della storia di Stefania, ma ci fu una sua proposta e il seguente articolo che mi colpirono particolarmente: la storia di Gabriella Bertini, negli Anni Settanta la prima donna italiana in sedia a rotelle a guidare un’automobile con comandi al volante. A Firenze aveva ristrutturato un casolare del quale aveva fatto la sede (e la storia) delle rivendicazioni dei diritti delle persone con disabilità. Una pioniera assoluta in un’epoca in cui si parlava di persone “spastiche”, “handicappate” da riempire solo di pietismo.
Quel pezzo mi sembrò così bello, originale e importante che volli proporlo alla mia vicedirettrice vicaria Barbara Stefanelli, responsabile del magazine «7», sempre sensibile alle storie di impegno e lotte per i cambiamenti della società. E l’articolo uscì con grande rilievo, accompagnato da una bella fotografia giovanile della Bertini, capigliatura alla Joan Baez e, accanto, la foto della sua Fiat 500L color arancio.
A quel punto, volli conoscere personalmente Stefania, con la quale avevo scambiato fino a quel momento solo messaggi via mail e una telefonata.

In una mattina di inizio febbraio, incerta tra il nebbione e un timido sole, andai a trovarla a Soragna, Bassa Parmense, terra del culatello e del parmigiano reggiano (c’è anche un museo del prelibato formaggio), sede di un encomiabile Museo Ebraico con Sinagoga, che raccoglie i ricordi di una comunità della zona ormai estinta; ma soprattutto paese dominato dall’imponente rocca trecentesca Meli Lupi, un castello oggi fonte di attrazione turistica, che si visita spesso in compagnia dell’attuale principe che ancora vi abita in una porzione.
Stefania vive invece con il padre e la madre in una villetta fuori dal paese, stradine strette che dividono i campi, orizzonte piatto senza un pur lontano profilo montuoso di riferimento (più Padania di così…), e la fabbrica dei genitori accanto alla casa. Una storia comune di tante famiglie italiane del dopoguerra, dedite al lavoro con tenacia e genialità, che hanno contribuito alla crescita economica del Paese. Ma nella famiglia di Stefania c’è stato in più un elemento dirompente che ha richiesto nuove sfide, nuovi orizzonti, nuova capacità di resilienza: la disabilità.

Fui accolto con un calore pieno di discrezione, ma genuino come il parmigiano reggiano. Conversare con Stefania faccia a faccia a trecentosessanta gradi mi ha confermato la dimensione del suo valore, vederla gestire la sua carrozzina, così come osservare i gesti della mamma e del papa nell’organizzazione della vita quotidiana è stato un esempio di come si possa trovare un adattamento a ogni condizione.
Pranzammo piacevolmente (e gustosamente); poi telefonammo ad Antonio Giuseppe Malafarina: stava già molto male, da lì a qualche giorno se ne sarebbe andato, ma il suo spirito sempre propositivo era rimasto intatto. Fu inconsapevolmente un addio, che gli demmo insieme, io e Stefania.

Nei giorni precedenti lo scorso Natale, chiesi a Stefania di scrivere un pensiero per le feste. Pensavo, lo ammetto, a qualche considerazione generale legata alla disabilità. E invece lei mi inviò una inaspettata e sincera confessione personale del momento difficile che stava vivendo: «Quest’anno è arrivata la variante che non t’aspetti, quella che non avresti mai immaginato per la durezza delle sue conseguenze, per l’incertezza dell’esito e per il modo in cui si è abbattuta su una vita, la mia, costruita anno dopo anno intorno a equilibri tenuti insieme da un filo sottile e fragile che ha saputo intrecciare nuove trame man mano che la malattia genetica che mi accompagna dalla nascita ha tolto la mio corpo forza e movimenti, un filo che in un istante è stato tagliato da una forbice malefica. Mi hanno sempre detto che sono forte e coraggiosa, invece non sono né l’una, né l’altra cosa, ho sempre dovuto adeguarmi con fatica, tanta, fare di necessità virtù».
Parole che scuotono, che ti riportano bruscamente alla realtà. Ma in questo duro autoritratto Stefania parlava anche delle due dita della mano sinistra, l’indice e il medio ancora funzionanti e che, grazie alla tecnologia, «sono tutto ciò che mi rimane per stare aggrappata alla vita e al mondo che ci circonda». Pubblicammo quel post sconvolgente per la sua verità con l’immagine delle due dita che si sfiorano nella Creazione michelangiolesca.

Oggi Stefania sta meglio, ha ricevuto il suo meritatissimo premio e ha ringraziato. Ma siamo noi a ringraziarla per la sua intelligenza e la sua sensibilità che ci regala dal posto più remoto e più piatto della Pianura Padana. Dove però gli orizzonti possono essere infiniti.

*Il presente contributo è già apparso in “InVisibili”, blog del «Corriere della Sera.it», con il titolo “Il talento di Stefania che merita più di un premio” e viene qui ripreso, con minime modifiche dovute al diverso contenitore, per gentile concessione.

L'articolo Siamo noi a ringraziare Stefania, per la sua intelligenza e la sua sensibilità proviene da Superando.

Spingere per un reale cambiamento o “adagiarsi” sull’alibi del rinvio della Riforma?

Superando -

«A seguito della decisione di spostare al 1° gennaio 2027 l’attuazione della cosiddetta “Riforma sulla disabilità”, abbiamo assistito a molteplici interventi che, seppure con alcuni distinguo, si possono dividere tra quelli critici e quelli favorevoli allo slittamento di data. Il tema non è di poco conto e riveste una grande importanza per tutte le persone con disabilità e le loro famiglie»: inizia così l’ampio approfondimento di Fausto Giancaterina e Roberto Toppoli che presntiamo oggi sulle nostre pagine

A seguito della decisione del Governo di spostare al 1° gennaio 2027 l’attuazione della riforma di cui al Decreto Legislativo 62/24 (Definizione della condizione di disabilità, della valutazione di base, di accomodamento ragionevole, della valutazione multidimensionale per l’elaborazione e attuazione del progetto di vita individuale personalizzato e partecipato), abbiamo assistito a molteplici interventi e pubblicazioni che, seppure con alcuni distinguo, si possono dividere tra quelli critici e quelli favorevoli allo slittamento di data.
Il tema non è di poco conto e riveste una grande importanza per tutte le persone con disabilità, e le loro famiglie, che attendono, oramai da troppo tempo, la realizzazione dei princìpi sanciti dalla Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità.

Come sopra accennato, da una parte troviamo chi ha letto in questo rinvio un atteggiamento di serietà, vista la complessità del tema e la situazione dei servizi territoriali che riscontra grandi differenze tra le Regioni. Dall’altra chi ci ha visto un procrastinare la già lunga attesa del momento in cui le persone con disabilità potranno vedere resi esigibili i propri diritti.
Tra i primi troviamo, ad esempio, Carlo Francescutti che, interrogato sul prolungamento della sperimentazione afferma: «Io lo giudico come un elemento di serietà. Di fronte a un processo di trasformazione che sulla carta è così importante, ci si prende il tempo di riflettere bene e a fondo. L’attuazione del Dlgs 62/2024 – lo stesso varrà per tutti i testi attuativi che ancora mancano – richiede una grande cura».
Sulla stessa linea, e su queste stesse pagine, con un’approfondita disamina giuridica, troviamo Salvatore Nocera che scrive: «Pertanto ribadisco che il rinvio sia stato un atto responsabile e corretto per una più puntuale messa a punto della realizzazione di questa complessa novità istituzionale. A tal proposito penso che tutte le Associazioni di persone con disabilità dovrebbero aiutare e sostenere il Governo “a individuare eventuali criticità e colmare vuoti”. E del resto, un antico proverbio italiano dice che “la gatta frettolosa fa i gattini ciechi”: il governo ha voluto, con il rinvio, giustamente prevenire questo rischio».
Ma c’è anche chi, come Ciro Tarantino, si pone diverse domande, sempre su queste pagine, anche in merito alle modalità con le quali è stata presa la decisione di rimandare l’applicazione della Riforma chiedendosi: «Ma, soprattutto, le persone con disabilità non hanno diritto di sapere le ragioni che hanno indotto questo differimento? Non hanno diritto di sapere che cosa ha alterato l’iter attuativo del Decreto Legislativo 62/24? Non meriterebbero di sapere a chi è imputabile questa sospensione dei loro diritti attesi? Il fatto che si redigano Carte, come quella di Solfagnano in occasione del G7 Inclusione e Disabilità, non significa che i diritti delle persone con disabilità siano di carta».
Si trovano poi posizioni articolate quale quella di Carlo Giacobini che sulla Riforma ha scritto spesso mostrandosi molto “tiepido” rispetto, non tanto ai contenuti, quanto alla sua reale applicabilità. «Il rinvio dell’entrata a regime della riforma, soprattutto nella seconda parte, era largamente prevedibile. È solo l’ennesima riprova della enorme difficoltà applicativa del sistema profilato dalla riforma. Francamente non mi ha stupito per nulla, a prescindere che processi di questo tipo devono essere sperimentati e testati (seriamente però) per comprendere se abbiano realmente la possibilità di diventare strutturali per tutti, non solo per felici sperimentazioni locali di poche decine di persone. Non credo nemmeno che 24 mesi siano sufficienti, con queste premesse, ad una sperimentazione realistica».

Per poter meglio comprendere la portata di questo prolungamento della sperimentazione della Riforma riteniamo sia opportuno tenere ben presenti i due punti essenziali, e ben distinti, della Riforma stessa. Infatti, se da un lato il Decreto 62/24 detta una completa revisione della definizione della condizione di disabilità e della valutazione di base e, conseguentemente, di tutto il procedimento relativo ad esse, dall’altro, al Capo III, novella e amplia quanto già presente all’articolo 14 della Legge 328/00 circa la valutazione multidimensionale e il progetto di vita, che diventa individuale, personalizzato e partecipato. A tale proposito dice Cecilia Marchisio che «la prima questione riguarda la scelta, operata a suo tempo da questo Governo, di accorpare in un unico decreto “monstre”, il 62/24, appunto, vari dispositivi che la Legge Delega aveva previsto e che avrebbero invece dovuto essere descritti ciascuno in un Decreto proprio, correlato agli altri, ma indipendente. La discutibile scelta ha legato in una sorta di “abbraccio mortale” i dispositivi, di fatto agganciando il destino della Riforma e della messa a sistema del progetto personalizzato e partecipato alla messa in atto dell’apparato necessario alla valutazione di base».
La figura qui a fianco pubblicata chiarisce la portata del Decreto 62/24 che, come si vede, racchiude diversi degli àmbiti considerati dalla Legge Delega 227/21 in materia di disabilità.
Ebbene, se sul primo aspetto potrebbe avere un senso – stante le difficoltà dell’INPS e delle Regioni a passare al nuovo sistema, concedere un maggior tempo per “mettere in piedi” la nuova organizzazione – in tema di progetto personalizzato, continuare a procrastinarne l’attuazione ci pare estremamente grave, se consideriamo che parliamo di una previsione di legge che, a breve, compirà i 25 anni!

La vita e il progetto di vita
Disagi e difficoltà soprattutto strutturali (dovuti quasi sempre a scarsità di risorse economiche e professionali, ma anche a sistemi organizzativi e operativi non integrati!) sono da sempre presenti in molti Servizi territoriali e forse da tali difficoltà sta dipendendo la lentezza e qualche confusione nella sperimentazione da una parte e, dall’altra, nella possibilità di arrivare con chiarezza ad una efficace riorganizzazione dei Servizi territoriali secondo quel poderoso cambiamento presente nel Decreto 62/24. Ma è bene ricordare anche che molti Servizi (in diverse Regioni) già da tempo hanno e stanno operando con efficaci sistemi organizzativi, sostenendo realisticamente le storie di vita delle persone con disabilità con operosi accompagnamenti nei normali contesti esistenziali.
Ecco perché ci piace, ancora una volta, tornare a raccontare come le storie di vita delle persone con disabilità seguano sempre (come del resto le vite di noi tutti!) un percorso in continuo cambiamento e che, quindi, una loro corretta percezione debba essere sempre attenta a quell’evoluzione esistenziale che, oltretutto, si irrobustisce con il continuo dialogo tra le persone stesse e quelle dei loro contesti vitali. Non sono ammessi, quindi, approcci parziali suggeriti da fugaci incontri, utilizzando filtri di lettura molto personali che, spesso, inducono a classificazioni e imprigionamenti fermi al tempo di un questionario riempito per stilare magari un progetto di vita!
E per questo ci piacerebbe conoscere come facciano quei professionisti che gestiscono (a pagamento?) “progettifici”, e li costruiscano con una semplice rassegna di notizie fornite, di solito, da familiari e/o da questionari buoni per tutte le esigenze. Viene giustamente da riflettere e capire come riescano a definire la complessità esistenziale di una persona con disabilità in tal modo! E pensiamo anche ai molti genitori che, vivendo nel vuoto di Servizi territoriali, sono costretti a ricorrere a quei professionisti senza, per altro, avere garanzia alcuna sul recepimento e l’approvazione da parte di un Servizio pubblico finalmente disponibile!

Solo su richiesta?
E veniamo a come poter essere da stimolo per un cambiamento che sia assolutamente rispettoso dell’esistenza e della storia di ogni persona con disabilità.
Innanzitutto siamo d’accordo che la titolarità del progetto debba essere la persona con disabilità, ma a noi suona maledettamente strano che “solo su richiesta” della persona con disabilità (o di un suo delegato) sia possibile definire e attivare un Progetto di Vita! Ma allora non ha insegnato nulla il fatto che, in tutti questi anni, ci sia stato uno scarsissimo successo dell’avere progetti individualizzati, secondo il disposto dell’articolo 14 della Legge 328/00, condizionati (appunto!), da quel «su richiesta della persona interessata»?
Perché, allora, nonostante tale insuccesso, il Legislatore insiste ancora a condizionare l’attivazione del progetto con quell’«a richiesta dell’interessato», come lo si ritrova nel Decreto 62/24 e precisamente all’articolo 18, comma 3 («La persona con disabilità è titolare del progetto di vita e ne richiede l’attivazione»? Non sarà, forse, che l’attivazione “su richiesta” sia una mascherata modalità per ridurre di fatto il volume delle richieste, stante l’atavica scarsa disponibilità di risorse finanziarie e professionali nei Servizi territoriali?
Di fatto, quindi, la clausola “su richiesta” può provocare situazioni discriminatorie nell’accesso. Si crea una sorta di selezione tra le persone che possiedono informazioni e capacità elaborative per fare tale richiesta (magari sostenute pure da Servizi territoriali funzionanti) e le persone che tali capacità e possibilità non le hanno e, ancor più, perché vivono immerse nel deserto territoriale di Servizi!
A nulla varrebbe il richiamo al dovere costituzionale, proprio di ogni Servizio pubblico, di attuare per tutte le persone con disabilità la presa in carico, di promuoverne la valutazione multidimensionale attraverso le Unità di Valutazione Multidimensionale (UVM), di co-progettare un accompagnamento competente per tutta la vita, se poi tutto questo rimane una chimera assoluta, per le tante persone che non sono in grado di fare la richiesta per attivare il proprio progetto personalizzato.

Forse, allora, ci piacerebbe poter contare su uno scatto di orgoglio professionale di tanti professionisti bravi e attivi che sono e vogliano essere costruttori di un welfare territoriale comunitario e partecipativo, capaci di una forte attenzione ai diritti sociali di tutte le persone che fanno fatica a tenere il passo ed essere finalmente per loro facilitatori di quei diversi passaggi esistenziali, memorizzando e documentando progressi e difficoltà. Sono professionisti che non sprecano quel prezioso patrimonio di conoscenze delle persone che hanno avuto PEI (Piani Educativi Individualizzati) aggiornati anno per anno, e che, con il passaggio della presa in carico da un Servizio all’altro non sono diventate degli “illustri sconosciuti”. È in questo modo che avviene l’esercizio della continuità della presa in carico delle persone, dando appunto continuità a quei facilitatori di processi inclusivi nei normali contesti di vita, evitando e rifiutando la frequentazione stabile e continuativa in luoghi e strutture riservate unicamente alle persone con disabilità.
Non si intende negare che le diverse Unità Professionali dei Servizi debbano possedere anche competenze specialistiche e conoscenze solide delle potenzialità e dei limiti delle persone. Il loro supporto serve a sostenere ogni programma di sviluppo della persona che, però, deve dilatarsi e seguire una co/progettazione con tutti gli attori di contesto, con tutte le risorse reperibili nella comunità sociale e con tutti i sostegni esistenziali per una co/gestione, partecipata ed evolutiva, di progetti di vita personalizzati e non più unicamente di attività di servizi che abbiano l’esclusivo obiettivo del superamento dei deficit.
Anni di riflessioni e studi scientifici su esperienze di progetti personalizzati per l’inclusione nei normali contesti sociali e soprattutto l’enorme quantità dei relativi risultati positivi, non depongono più a favore di chi sostiene (semplificando in modo riduttivo l’approccio alla disabilità) che le persone debbano essere “curate” in strutture esclusive, rigide, dominate da processi propri della cultura bio/medica e specialistica.

Percorsi operativi corali
È giusto ripeterlo: nei Servizi serve dare largo spazio al lavoro multidisciplinare, poiché essi prima di tutto devono essere bravi facilitatori della permanenza delle persone nei normali luoghi della vita: nella scuola, nel lavoro, nello sport, nel tempo libero ed anche nei diversi sentieri dell’abitare. Sono queste le vere occasioni per far toccare con mano a tutti i professionisti di un Servizio la riscoperta di quella ricchezza che deriva da un lavoro condiviso, corale e multidimensionale. La solitudine professionale spesso produce un’ulteriore fatica sia nel comunicare e sia nel superare pratiche esclusivamente prestazionali. Serve anche nelle relazioni professionali quell’accomodamento ragionevole nel ricercare elementi condivisibili, nel superare contrapposte gelosie professionali, nel provocare e consolidare valide motivazioni e durevoli sostegni all’impegno di tutti.
La sperimentazione di un sistema di lavoro condiviso e di strategie comuni crea connessioni e permette di arrivare ad una trasformazione anche della fisionomia di un servizio, delle sue modalità di lavoro. Questo, crediamo, sia il senso da dare a tale percorso. Si tratta di un’esperienza che si incammina verso sentieri dove si incontrano diversi protagonisti e compagni di viaggio che per storia personale non sempre sono facilitatori di connessioni e di obiettivi condivisi.
Famiglie, servizi sanitari e servizi sociali, progetti dipartimentali e progetti municipali, comunità locali, singoli cittadini… Un tutto che richiede un cambiamento, per non seguire più logiche divergenti e solistiche, ma coralità e senso di fare cose che producono percezioni positive che rimbalzano dal contesto sociale e forse permettono di riassaporare emozioni, sintonie e piaceri di quel fare collegialmente una cosa vera, produttiva di bene-essere nel contesto sociale di lavoro.
Questo processo operativo – che man mano sta diventando prassi consolidata in molti Servizi Pubblici – capovolge definitivamente lo sguardo con cui vengono ancora guardate le persone: da passivi ricettori ad attivi costruttori di opportunità per l’esigibilità dei propri diritti sociali. Parafrasando Benedetto Saraceno (1), non possiamo più limitarci a descrivere puntualmente la realtà con strumenti sofisticati di psicologia sociale e sociologia, senza mettere in campo nulla di concreto per modificarla: servono nuove strategie operative, oltre alla capacità di nuove categorie descrittive.
Un ultimo suggerimento: perché non considerare ormai l’opportunità di togliere da ogni atto legislativo e normativo la dizione «a richiesta della persona interessata», sostituendola con «è fatto obbligo dei Servizi pubblici territoriali, di esercitare la presa in carico e di attivare la progettazione personalizzata e partecipata»?
Credo che, in proposito, sia saggio ricordare quanto deliberato dalla Regione Friuli Venezia Giulia (2): «Il sistema regionale di presa in carico della persona con disabilità prevede, di fatto, già allo stato attuale, che la valutazione multidimensionale esiti nell’elaborazione di un progetto personalizzato, dotato di apposito budget, secondo un principio universalistico tale per cui tale progetto personalizzato non è un esito auspicato, su richiesta della persona stessa, della valutazione multidimensionale, bensì l’esito dovuto di tale processo di valutazione».

La centralità del progetto di vita personalizzato
Serve, quindi, arrivare ad una totale generalizzazione, da parte dei Servizi territoriali, della prassi operativa incentrata sul “progetto di vita personalizzato”, perché le diverse esperienze condivise di attivazione di quel “contenitore” (il progetto di vita, appunto!) entro cui “mettere” l’esistenza delle persone, si sta rivelando il vero facilitatore della presa in carico che permette di galvanizzare tutte le potenzialità della persona stessa.
In proposito credo che sia facile rintracciare numerose e consolidate esperienze in Regioni come la Toscana, il Friuli Venezia Giulia o l’Emilia Romagna, ma non solo, dove un tale sistema operativo si presenta come impareggiabile facilitatore dell’esistenza delle persone.
La retorica, a volte ridondante e fastidiosa, della “Persona al centro” si sgretola finalmente quando l’operatività dei Servizi territoriali riesce ad adottare come prassi lavorativa generalizzata la “produzione” dei progetti di vita personalizzati, abbandonando definitivamente modalità operative unicamente prestazionali, sia sanitarie che sociali. Il progetto di vita personalizzato, come già ricordato, richiede, ovviamente, una presa in carico che attui processi di conoscenza e soprattutto sistemi di valutazione periodica degli esiti, come già evidenziato in un precedente approfondimento su queste stesse pagine (F. Giancaterina, Ragionando su quel progetto di vita personalizzato, 20 gennaio 20225).
Sono i progetti personalizzati la chiave per capire se davvero la presa in carico del Servizio territoriale stia producendo cambiamenti di bene-essere nelle persone e se tali persone siano veramente in grado di padroneggiare meccanismi di cambiamento positivo non solo in sé, ma anche nei contesti vitali come la famiglia e i luoghi sociali abitualmente frequentati.

Convergenza di azioni condivise
Il progetto di vita personalizzato e generalizzato, perché sia veramente attivo, si realizzi e si perfezioni nel tempo come stabile prassi operativa dei Servizi, necessita, però, di una felice e armonica convergenza di azioni condivise dai tre Protagonisti del welfare territoriale, vale a dire i Legislatori che sappiano adottare appropriate leggi e norme; i Cittadini e le Cittadine che, con le loro Associazioni, seminino sensibilità e attenzione continua nell’esigere risposte giuste e personalizzate; i Servizi Pubblici territoriali e gli Enti di Terzo Settore, che siano messi nella possibilità di essere veri creatori di risposte/occasioni dell’esigibilità dei diritti sociali. Quando tale andamento sintonico tra questi grandi protagonisti funziona, la comunità sociale vive un welfare partecipato e coerente. Quando invece ognuno dei tre protagonisti si mette ad agire in solitaria narrazione, vuol dire che si sta dimenticando la nostra Costituzione che da sempre esige comportamenti giusti in relazione ai diversi diritti garantiti a tutti cittadini: «I diritti non sono qualcosa che esiste già là fuori, e che si tratti semplicemente di attuarli. No. Che cosa sia un diritto, chi abbia diritto a che cosa e a quali condizioni, non è mai scontato né dato una volta per tutte. È invece sempre l’esito di processi culturali, politici e sociali complessi. […] I diritti sono costitutivamente fragili e reversibili, anche quando sono riconosciuti dalla legge. Perché per garantire un diritto non basta la norma, ci vogliono i comportamenti di tutti. Tant’è che la storia umana, anche nel nostro paese è una lunga vicenda di allargamento e restringimento della sfera dei diritti. Non è una storia lineare, è una storia fatta di avanzamenti e retrocessioni. I diritti possono vivere ed essere implementati solo se acquisiti socialmente: ovvero se c’è un consenso diffuso, se c’è una accettazione collettiva, se fanno parte non solo del patrimonio legale ma anche culturale di una collettività» (3).
Quei tre protagonisti devono, quindi, essere in perfetta sintonia nel fare scelte fondamentali, strutturali e necessarie per i servizi territoriali, senza le quali è del tutto velleitario poter parlare di seri Progetti di vita personalizzati.

Da anni ormai ci affanniamo a richiedere per ogni territorio/distretto cambiamenti strutturali quantitativi e qualitativi riguardanti:
° l’integrazione sociosanitaria;
° un capitolo unico di spesa integrato (sociosanitario) di distretto;
° un sistema integrato di valutazione periodica del bene-essere raggiunto dalle persone;
° un programma (regionale) unitario di interventi per le persone con disabilità con potenziamenti annuali di risorse finanziarie e professionali;
° l’adozione del sistema operativo (integrato) budget di salute (4), quale «insieme di risorse economiche, professionali e umane necessarie a promuovere contesti relazionali, familiari e sociali idonei a favorire una migliore inclusione sociale del soggetto assistito garantendo comunque le prestazioni socio-sanitarie essenziali»;
° da ultimo, l’abbandono della definizione “budget di progetto”, visto che, oltre ad essere indice settoriale di interventi, con il Decreto 17 del 14 gennaio 2025, viene identificato unicamente come “risorsa finanziaria e/o di voucher”, nei progetti personalizzati.

La situazione nella Regione Lazio e il Decreto 62/24
Le richieste qui avanzate purtroppo sono ancora del tutto disattese nella Regione Lazio. È nostra esperienza quotidiana, ritrovarci con un welfare territoriale “zoppo”, male organizzato, settorializzato e che spesso disperde energie e non raggiunge l’obiettivo per cui esiste: il bene-essere dei cittadini!
Una Regione, la nostra, che oltretutto non è in grado di rispettare e attuare neppure le sue stesse leggi, come, ad esempio, la Legge Regionale 11/16 (Sistema integrato degli interventi e dei servizi sociali della Regione Lazio). Per ciò che qui ci interessa, in quella legge un intero Capo – il VII – è dedicato a Disposizioni per l’integrazione socio-sanitaria. Sono ormai passati nove anni e praticamente nulla di tali disposizioni è stato attuato.
Forse ci ritroviamo con sensibilità operative e culturali non del tutto in sintonia con la piena esigibilità dei diritti sociali e non vorremmo affatto che la decisione del rinvio al 2027 dell’attuazione su tutto il territorio nazionale della riforma di cui al Decreto Legislativo 62/24, fosse per la nostra Regione un ulteriore alibi per continuare processi operativi assolutamente frammentati e poco attenti a quel processo operativo che deve poggiare fortemente sulla capacità costruttiva dei progetti personalizzati.
Proviamo allora a volgere l’attenzione a quanto magistralmente ci ricorda la Regione Friuli Venezia Giulia (5) in relazione all’articolo 24, comma 4 del Decreto 62/24 in quanto non rientrante nelle proroghe di cui alla Legge 15/25.
L’articolo citato così recita: «Entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto, le regioni, al fine della predisposizione del progetto di vita, programmano e stabiliscono le modalità di riordino e unificazione, all’interno delle unità di valutazione multidimensionale di cui al comma 1, delle attività e dei compiti svolti dalle unità di valutazione multidimensionale operanti per:
a) l’individuazione di prestazioni e trasferimenti monetari connessi alla condizione di non autosufficienza, eccettuata quella dei soggetti anziani;
b) l’individuazione di prestazioni e trasferimenti monetari connessi alla condizione di disabilità gravissima di cui all’articolo 3 del decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali 26 settembre 2016, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 280 del 30 novembre 2016;
c) l’individuazione delle misure di sostegno ai caregiver;
d) la redazione dei progetti individuali di cui all’articolo 14 della legge 8 novembre 2000, n. 328;
e) l’individuazione dei servizi, degli interventi e delle prestazioni di cui all’articolo 4 della legge 22 giugno 2016, n. 112».
A questo punto sarebbe del tutto necessario e interessante conoscere quali iniziative abbia intrapreso o quali intenderà – a breve – intraprendere la Regione Lazio, in ordine a quanto disposto dal citato articolo 24, comma 4, del Decreto Legislativo 62/24.

* Già direttore del Servizio Disabilità e Salute Mentale di Roma Capitale.
**Assistente sociale, consulente dell’AIPD di Roma (Associazione Italiana Persone Down), vicepresidente del Comitato I.SO.LA. (Comitato per l’Integrazione Socio-Sanitaria nella Regione Lazio).

Note:
(1) Saraceno B., Abilitiamo i quartieri alla democrazia. Un lessico per disegnare una città diversa, intervista a Benedetto Saraceno, a cura di Animazione Sociale, in «Animazione Sociale», n. 343, 02/2021–343, Gruppo Abele, Torino, 2021, pp. 6-14.
(2) Regione Friuli Venezia Giulia, Delibera di Giunta Regionale (DGR) n. 176 del 14 febbraio 2025: Prime indicazioni per la predisposizione del progetto di vita della persona con disabilità. Attuazione della fase di sperimentazione per il territorio di Trieste, Allegato, p.6.
(3) Saraceno C., Lezione sui diritti. Un cammino di civiltà mai concluso, in «Animazione Sociale», n. 349, 08/2021, Gruppo Abele, Torino, 2021, pp. 6-13.

(4) Ad esempio: Legge Regionale del Lazio 11/16, articolo 53, Presa in carico integrata della persona e budget di salute, comma 5: «La Regione, al fine di dare attuazione alle indicazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sui “determinanti sociali della salute” e alle relative raccomandazioni del 2009 e in osservanza di quanto sancito dall’articolo 32 della Costituzione in merito al diritto alla salute, adotta una metodologia di integrazione sociosanitaria basata su progetti personalizzati sostenuti da budget di salute, costituiti dall’insieme di risorse economiche, professionali e umane necessarie a promuovere contesti relazionali, familiari e sociali idonei a favorire una migliore inclusione sociale del soggetto assistito garantendo comunque le prestazioni socio-sanitarie essenziali».
(5) Regione Friuli Venezia Giulia, Delibera di Giunta Regionale (DGR) n. 176 del 14 febbraio 2025: Prime indicazioni per la predisposizione del progetto di vita della persona con disabilità. Attuazione della fase di sperimentazione per il territorio di Trieste, Allegato, p. 6, cit.

L'articolo Spingere per un reale cambiamento o “adagiarsi” sull’alibi del rinvio della Riforma? proviene da Superando.

Il nuovo show inclusivo di “AbracaDown”

Superando -

Prossimamente anche un film e un libro, per l’intanto l’arrivo di un nuovo show nella prestigiosa sede dell’Auditorium Parco della Musica di Roma, ciò che avverrà nella serata del 15 aprile: passo dopo passo, i giovani di “AbracaDown”, show di magia animato da persone con sindrome di Down, continuano a farsi conoscere Immagine tratta da uno septtacolo di “AbracaDown”

«Tutti uguali, nessuno escluso, ovvero AbracaDown, show di magia i cui protagonisti sono giovani con sindrome di Down, iniziativa nata dall’idea di Francesco Leardini, presidente del Club Magico Fernando Riccardi di Roma, manager ventennale nel mondo dello show business, che insieme a Danilo Melandri e Giancarlo Giambarresi dell’AIPD di Roma, si è proposto di realizzare un grande sogno fatto di mani che si stringono, cuori generosi e tanta energia»: era il mese di settembre del 2023 e così avevamo presentato sulle nostre pagine il musical di AbracaDown in programma per l’ottobre successivo al Teatro Brancaccio di Roma.
Ebbene, passo dopo passo i giovani di AbracaDown si sono fatti conoscere sulle platee di tutta Italia e la loro storia si appresta ora a diventare il film dal titolo È fatta! Il viaggio più normale che ci sia. In attesa comunque di assistere al primo road movie comico, che li vedrà sempre protagonisti, un altro traguardo importante sarà l’arrivo del nuovo show nella prestigiosa sede dell’Auditorium Parco della Musica di Roma, ciò che avverrà nella serata del 15 aprile (ore 21), con «uno spettacolo rinnovato e ancora più “magico” – come si legge nella presentazione -, diretto da Leardini in versione musical, ma con una serie di illusioni e incantesimi avvolti da mistero e simpatia».

AbracaDown, va inoltre ricordato, è diventato anche un progetto per le scuole e da tempo coinvolge i bambini delle elementari e delle medie, «per ribadire l’importanza – sottolineano i promotori – di un mondo più inclusivo e contro ogni forma di pregiudizio. Abbattere infatti ogni barriera è la mission di questo format che a breve si trasformerà anche in un libro per raccontare la passione, i sacrifici, la determinazione e le emozioni di chi ce l’ha fatta a dimostrare che non esistono limiti e che tutto è possibile, nessuno escluso». (S.B.)

Per ogni ulteriore informazione: info@abracadown.it.

L'articolo Il nuovo show inclusivo di “AbracaDown” proviene da Superando.

Torni il confronto sulla qualità dell’inclusione scolastica

Superando -

«Auspichiamo che il confronto possa tornare su un piano costruttivo, centrato sulla qualità dell’inclusione scolastica degli alunni e delle alunne con disabilità»: lo dicono dalla Federazione FISH il cui Consiglio Direttivo Nazionale ha deciso di costituirsi in giudizio a sostegno di quel Decreto Ministeriale che ha fissato la proroga del docente supplente di sostegno con rinomina per un secondo anno su richiesta della famiglia, dopo che quello stesso Decreto era stato impugnato da alcune organizzazioni sindacali

Dopo avere espresso nei giorni scorsi la propria contrarietà sugli organi d’informazione, rispetto alle decisione delle organizzazioni sindacali Flc Cgil e Gilda Unams, seguite successivamente anche dalla Uil Scuola, di impugnare il Decreto Ministeriale n. 32 del 26 febbraio scorso (Misure finalizzate a garantire la continuità dei docenti a tempo determinato su posto di sostegno per l’anno scolastico 2025/2026, a norma dell’articolo 8, comma 2, del decreto-legge 31 maggio 2024, n. 71, convertito con modificazioni dalla legge 29 luglio 2024, n. 106), che ha introdotto la possibilità di confermare il docente di sostegno sul medesimo alunno con disabilità, su richiesta della famiglia e con il parere positivo del Dirigente Scolastico, sentito il Gruppo di Lavoro Operativo per l’Inclusione, il Consiglio Direttivo Nazionale della FISH (Federazione Italiana per i Diritti delle Persone con Disabilità e Famiglie) ha conferito pieno mandato al proprio Presidente per costituirsi in giudizio a sostegno di quello stesso Decreto Ministeriale.
«Esprimiamo forte contrarietà al ricorso presentato dalle organizzazioni sindacali – si legge in una nota -, poiché la norma contestata introduce strumenti importanti per garantire maggiore continuità didattica agli alunni e alle alunne con disabilità, elemento essenziale per una reale inclusione scolastica. La continuità del docente di sostegno, infatti, non è un dettaglio tecnico, ma una condizione imprescindibile per costruire percorsi educativi stabili, personalizzati e inclusivi. La frammentazione degli interventi, causata da cambiamenti frequenti, compromette il rapporto educativo e rallenta l’apprendimento. Il Decreto Ministeriale di cui si parla, pur migliorabile, va nella direzione giusta, in quanto riconosce strutturalmente il diritto alla continuità didattica e mette al centro il progetto di vita degli alunni e delle alunne con disabilità».

«La nostra Federazione – sottolinea il presidente della stessa Vincenzo Falabella – è da sempre impegnata nella tutela dei diritti degli studenti con disabilità e delle loro famiglie. Difendiamo il principio della continuità didattica perché è un diritto, non un privilegio. Auspichiamo dunque che il confronto possa tornare su un piano costruttivo, centrato sulla qualità dell’inclusione». (S.B.)

Sul medesimo tema qui trattato, suggeriamo anche la lettura, sulle nostre pagine, del contributo di Salvatore Nocera intitolato Perché quella norma è perfettamente legittima (a questo link). Per ulteriori informazioni: ufficiostampa@fishonlus.it.

L'articolo Torni il confronto sulla qualità dell’inclusione scolastica proviene da Superando.

Il Comune di Bologna premia Fulvio de Nigris e Maria Vaccari con le “Turrite d’Argento”

Superando -

Il 15 aprile il Sindaco di Bologna assegnerà la “Turrita d’Argento” – riconoscimento che il Comune emiliano conferisce a persone o realtà che si siano distinte per avere contribuito al progresso della città – a Fulvio De Nigris e Maria Vaccari, fondatori della Casa dei Risvegli Luca De Nigris, il noto Centro dedicato alla riabilitazione, alla formazione e alla ricerca nel campo delle gravi cerebrolesioni acquisite Maria Vaccari e Fulvio Dre Nigris al “G7 Inclusione e Disabilità” (Assisi, ottobre 2024)

Il 15 aprile, nella Sala Rossa Maurizio Cevenini di Palazzo D’Accursio a Bologna (Piazza Maggiore, 6, ore 12), Fulvio De Nigris e Maria Vaccari riceveranno la Turrita d’Argento dal sindaco di Bologna Matteo Lepore, riconoscimento che il Comune emiliano conferisce, per decreto del Sindaco stesso, a persone o realtà che si siano distinte per avere contribuito al progresso della città.
De Nigris e Vaccari, lo ricordiamo, sono i fondatori della Casa dei Risvegli Luca De Nigris, il noto Centro dedicato alla riabilitazione, alla formazione e alla ricerca nel campo delle gravi cerebrolesioni acquisite, struttura dell’Azienda USL di Bologna che afferisce all’IRCCS Istituto di Scienze Neurologiche di Bologna.

«Siamo profondamente grati al Comune di Bologna per questo riconoscimento – dicono De Nigris e Vaccari, rispettivamente presidente e vicepresidente della Fondazione Gli Amici di Luca Casa dei Risvegli Luca De Nigris – che sentiamo non solo nostro, ma di tutte le famiglie, i volontari, i professionisti e le persone che in questi anni hanno condiviso con noi il cammino della Casa dei Risvegli. Nato dal dolore, questo progetto ha trovato nella solidarietà e nell’impegno civile la forza per trasformarsi in speranza concreta. La nascita della Fondazione alla quale anche il Comune di Bologna ha recentemente aderito in modo convinto, oltre alla Curia, all’Istituto di Montecatone e all’Emil Banca, è un’ulteriore sfida per dare solidità al progetto che abbiamo costruito e che è patrimonio della città. Una Fondazione aperta a quanti vorranno ancora sostenerci per il futuro. Ricevere dunque le Turrite d’Argento ci onora e ci incoraggia a continuare a costruire, insieme, una società più giusta e inclusiva, dove nessuno venga mai lasciato solo».

«De Nigris e Vaccari – si legge nelle motivazioni del riconoscimento – rappresentano un esempio concreto di impegno civile e solidarietà nel campo dell’assistenza e della riabilitazione rivolta a persone con esiti di coma e gravi cerebrolesioni». Dopo la morte del loro figlio sedicenne Luca De Nigris, a seguito di un periodo di coma e stato vegetativo di 240 giorni successivo alle complicazioni di un’operazione chirurgica e una gara di solidarietà che li aveva portati a cercare la speranza del risveglio all’estero, hanno trasformato la loro esperienza in un progetto concreto per la città di Bologna, fondando nel 2004, con il dottor Roberto Piperno, la citata Casa dei Risvegli Luca De Nigris, centro di neuroriabilitazione che costituisce un’eccellenza a livello continentale e che a oggi ha accolto più di 600 persone con esiti di gravi cerebrolesioni, supportandole, insieme alle loro famiglie, nel percorso di recupero. (S.B.)

Per ulteriori informazioni: fulvio.denigris@amicidiluca.it.

L'articolo Il Comune di Bologna premia Fulvio de Nigris e Maria Vaccari con le “Turrite d’Argento” proviene da Superando.

Perché quella norma è perfettamente legittima

Superando -

«Pur non avendo letto il ricorso delle organizzazioni sindacali – scrive Salvatore Nocera -, riguardante quel Decreto Ministeriale che ha fissato la proroga del docente supplente di sostegno con rinomina per un secondo anno su richiesta della famiglia, mi permetto di ribadire che quella norma è perfettamente legittima e anche il senso nel quale va correttamente interpretata»

Ho appreso, anche da queste pagine, di un ricorso al TAR del Lazio da parte delle organizzazioni sindacali Flc Cgil, Gilda Unams e Uil Scuola, sul Decreto Ministeriale n. 32 del 26 febbraio scorso (Misure finalizzate a garantire la continuità dei docenti a tempo determinato su posto di sostegno per l’anno scolastico 2025/2026, a norma dell’articolo 8, comma 2, del decreto-legge 31 maggio 2024, n. 71, convertito con modificazioni dalla legge 29 luglio 2024, n. 106), relativo alla proroga del docente supplente di sostegno con rinomina per un secondo anno su richiesta della famiglia, valutata discrezionalmente dal Dirigente Scolastico. Pur non avendo letto il ricorso, mi permetto di ribadire quanto ho già espresso in vari articoli sia su queste pagine che altrove, che è in sintesi quanto segue.

La norma è perfettamente legittima, rispondendo a quanto previsto dall’articolo 2, comma 1 della Legge 241 del 1990 sul procedimento amministrativo, che prevede la possibilità ordinaria dell’avvio di un procedimento amministrativo ad istanza di un privato.

La fattispecie di cui sopra va interpretata correttamente in tal senso: il Dirigente Scolastico, ricevuta la richiesta della famiglia dell’alunno con disabilità alla conferma, tramite rinomina dello stesso per un secondo anno, deve negarla nei seguenti casi: a) se aspira a quel posto un docente di ruolo in via di trasferimento; b) se aspira a quel posto un supplente specializzato; c) se il docente di cui si chiede la conferma non rientra più nel contingente che dovrà essere nominato su quel territorio nel prossimo anno; d) se lo stesso docente non accetta di essere confermato; e) se il dirigente scolastico non ritiene, motivandolo, di confermare il docente, specie in presenza di un parere negativo del GLO (Gruppo di Lavoro Operativo sull’Inclusione), che deve obbligatoriamente interpellare.

La norma di cui all’articolo 8 del Decreto Legge 71/24, completata dal Decreto Ministeriale 32/25, è la pratica attuazione della delega sulla «continuità didattica con lo stesso alunno» per tutta la durata di un ciclo, contenuta nell’articolo 1, comma 181, numero 2, lettera c della Legge 107/15.

*Il presente contributo è già apparso in «La Tecnica della Scuola» e viene qui ripreso, con alcuni riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.

L'articolo Perché quella norma è perfettamente legittima proviene da Superando.

“Nessuno escluso”: accessibilità e inclusione al Museo Diocesano Carlo Maria Martini di Milano

Superando -

L’obiettivo è rendere il patrimonio culturale del Museo Diocesano Carlo Maria Martini sempre più accessibile e inclusivo: il 15 aprile a Milano, nei chiostri di Sant’Eustorgio, ci sarà la presentazione del progetto “Nessuno escluso”. Al termine della presentazione verrà poi data la possibilità di sperimentare in prima persona alcuni dei linguaggi e degli strumenti adottati Il Museo Diocesano Carlo Maria Martini di Milano

L’obiettivo è rendere il patrimonio culturale del Museo Diocesano Carlo Maria Martini sempre più accessibile e inclusivo. Martedì 15 aprile, alle 9.30, nei chiostri di Sant’Eustorgio del capoluogo lombardo ci sarà la presentazione del progetto Nessuno escluso. Accessibilità e inclusione al Museo Diocesano Carlo Maria Martini, promosso dal Museo Diocesano stesso, con il contributo della Fondazione Alia Falck e in collaborazione con la Consulta Diocesana Comunità Cristiana e Disabilità.

Interverranno per l’occasione Luca Bressan, vicario episcopale per la Cultura, la Carità, la Missione e l’Azione Sociale della Diocesi di Milano; Nadia Righi, direttrice del Museo Diocesano; Mauro Santoro, responsabile della Consulta Diocesana Comunità Cristiana e Disabilità; Elisabetta Falck, presidente della Fondazione Alia Falck.

Al termine della presentazione verrà data la possibilità di sperimentare in prima persona alcuni dei linguaggi e degli strumenti adottati. Inoltre, alcune persone con disabilità, nell’àmbito del percorso educativo e formativo Cultura Accessibile, avviato dalla Cooperativa Arcipelago-ANFFAS Nordmilano di Cinisello Balsamo, condivideranno con i presenti il loro personale pensiero emerso dal percorso di significazione davanti alla Deposizione di Tintoretto. (C.C.)

Per maggiori informazioni: Ufficio Stampa del Museo Diocesano Carlo Maria Martini di Milano (Anna Defrancesco), press@annadefrancesco.com.

L'articolo “Nessuno escluso”: accessibilità e inclusione al Museo Diocesano Carlo Maria Martini di Milano proviene da Superando.

Pagine

Abbonamento a Centri Territoriali di Supporto B.E.S. - Calabria aggregatore