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Oltre la diagnosi: supporto e solidarietà a chi ha una malattia metabolica ereditaria

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Sostegno psicologico per le persone con malattie metaboliche ereditarie e i loro familiari all’interno e all’esterno della struttura ospedaliera, e attività con i bimbi in corsia e con i pazienti adulti, i bambini e le famiglie sul territorio, grazie all’aiuto di volontari: sono le azioni previste dal nuovo progetto denominato “Oltre la diagnosi: supporto e solidarietà MME”, promosso dall’AISMME (Associazione Italiana Sostegno Malattie Metaboliche Ereditarie)

Sostegno psicologico per le persone con malattie metaboliche ereditarie e i loro familiari all’interno e all’esterno della struttura ospedaliera, e attività con i bimbi in corsia e con i pazienti adulti, i bambini e le famiglie sul territorio, grazie all’aiuto di volontari: sono le azioni previste dal nuovo progetto Oltre la diagnosi: supporto e solidarietà MME, promosso dall’AISMME (Associazione Italiana Sostegno Malattie Metaboliche Ereditarie), che grazie al cofinanziamento della Regione Veneto, permetterà di dare continuità e potenziare fino alla fine del 2025 l’assistenza, già disponibile per i pazienti pediatrici, agli adulti con malattia metabolica ereditaria e ai loro familiari e caregiver, seguiti dal Centro Regionale di Cura e Screening delle Malattie Metaboliche Ereditarie dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata di Verona, struttura che l’AISMME sostiene sin dal 2012.

«Il progetto Oltre la Diagnosi – spiegano dall’AISMME – nasce per rispondere a una crescente domanda di supporto psicologico per le persone con malattia metabolica ereditaria, una necessità particolarmente sentita in ospedale e difficile da sostenere a livello privato». «Negli ultimi anni – sottolinea infatti Manuela Vaccarotto, vicepresidente dell’Associazione – abbiamo ricevuto molte richieste di aiuto specifico, sia da pazienti sia dai loro familiari, di un sostegno psicologico. Si tratta di un servizio che all’interno degli ospedali non è sempre disponibile e che a livello privato risulta molto costoso. Dal 2020 offriamo assistenza psicologica gratuita all’esterno dell’ospedale, un servizio che ha già raggiunto circa 150 pazienti e familiari, che lo hanno molto apprezzato. Con questo nuovo progetto, non solo proseguiremo l’assistenza, ma introdurremo una psicologa all’interno della struttura ospedaliera, per essere ancora più presenti in un momento così delicato come la comunicazione della diagnosi».

«Una diagnosi di malattia metabolica ereditaria – proseguono dall’AISMME – può rivoluzionare la vita del paziente e della sua famiglia, causando spesso sensazioni di smarrimento e isolamento, particolarmente acute nelle malattie rare. La presenza di uno psicologo in ospedale è fondamentale per accompagnare il paziente a livello emotivo e promuovere un adattamento psicosociale che favorisca la qualità della vita e l’aderenza ai trattamenti medici. Successivamente, poi, la patologia può portare a una sensazione di smarrimento e di isolamento data anche dal fatto che molte malattie metaboliche ereditarie sono patologie rare con pochi pazienti».
«Il supporto psicologico – ricorda Vaccarotto – consente di affrontare l’angoscia e la tristezza durante il percorso ospedaliero e nella vita quotidiana ed è importante anche per l’efficacia della terapia. La gestione della crisi emotiva successiva a una diagnosi inaspettata influenza infatti l’adattamento psicosociale alla malattia, fondamentale per la qualità della vita e per la compliance [adesione] ai trattamenti medici. Non solo. Lo psicologo offre ascolto, empatia e supporto per tutta la durata della vita, evitando che il paziente sprofondi nell’angoscia e nella tristezza durante il percorso ospedaliero e al di fuori, nella sua quotidianità».

Come ricordato prima dalla Vicepresidente dell’AISMME, molto importanti, per aiutare le famiglie e i pazienti a evitare il senso di abbandono dopo la dimissione dall’ospedale, sono le attività di sostegno psicologico fornite dall’Associazione anche al di fuori della struttura ospedaliera, avviate, gratuitamente, dal 2020, sia in presenza che online.

Un ulteriore obiettivo chiave del progetto è poi quello di non lasciare sole le famiglie e i pazienti adulti nel loro quotidiano, coinvolgendoli in varie attività e per fare questo l’AISMME si avvale del supporto di volontari formati, essi stessi pazienti o familiari di pazienti.
Tra le attività proposte, vi sono letture per bambini negli ambulatori e nelle sale d’attesa, mentre al di fuori dell’ospedale una volontaria, paziente adulta ed educatrice, è attiva in progetti legati allo sport, promuove l’attività fisica, spesso trascurata ma importante nella gestione della malattia e un altro volontario organizza attività sportive e ludiche, come la Color Run, coinvolgendo famiglie e pazienti adulti per promuovere l’attività fisica e la socializzazione; un’altra volontaria, infine, madre di una piccola paziente, fornisce informazioni su aspetti legati alla malattia, ai diritti esigibili e alle procedure burocratiche, organizzando incontri di gruppo rivolti ai genitori. (S.B.)

Per ulteriori informazioni: info@aismme.org.

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La “Crocifissione bianca” di Chagall accessibile anche al pubblico con disabilità visive e uditive

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Esposta fino al 27 gennaio al Museo del Corso – Polo Museale di Roma, la “Crocifissione bianca” di Marc Chagall è accessibile anche al pubblico con disabilità visive e uditive, grazie all’installazione tattile, parlante e in lingua dei segni, frutto di un lavoro interdisciplinare di diversi mesi, presente accanto all’originale. La riproduzione verrà poi donata in aprile a Papa Francesco, 28 aprile prossimo, in occasione del “Giubileo delle Persone con Disabilità” La riproduzione accessibile della “Crocifissione bianca” di Chagall

Esposta fino al 27 gennaio al Museo del Corso – Polo Museale di Roma (Palazzo Cipolla, Via del Corso, 320, ingresso gratuito), la Crocifissione bianca di Marc Chagall è accessibile anche al pubblico con disabilità visive e uditive. Accanto infatti all’originale, è presente, in tale sede espositiva, un’installazione tattile, parlante e in lingua dei segni, frutto di un lavoro interdisciplinare di diversi mesi.

L’iniziativa è stata voluta dalla Fondazione Roma ed è stata presentata nei giorni scorsi durante un incontro aperto dai saluti istituzionali di Franco Parasassi, presidente della Fondazione stessa, e una lettera di saluto di Alessandra Locatelli, ministra per le Disabilità, con gli interventi di don Alessio Geretti, curatore degli eventi d’arte del Giubileo; suor Veronica Donatello, responsabile del Servizio Nazionale per la Pastorale delle Persone con Disabilità della CEI (Conferenza Episcopale Italiana) e Consultore del Dicastero per la Comunicazione della Santa Sede; Dino Angelaccio e Odette Mbuyi, progettisti; Gabriella Cetorelli del Ministero della Cultura (Accessibilità dei Siti Unesco); Camilla Capitani del MAC (Movimento Apostolico Ciechi); Miriam Mandosi dell’ENS (Ente Nazionale Sordi).

Il 28 aprile prossimo, in occasione del Giubileo delle Persone con Disabilità, la riproduzione dell’opera sarà donata a Papa Francesco, dal gruppo interdisciplinare che l’ha realizzata, come simbolo dell’impegno per un’arte senza barriere. (S.B.)

A questo link è disponibile un testo di ulteriore, ampio approfondimento sull’iniziativa. Per altre informazioni: Michela Rossetti (info@gdgpress.com).

 

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Consigli pratici per essere più veloci e fluidi con il Braille

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Un Gruppo di Lavoro dell’EBU, l’Unione Europea dei Ciechi, ha recentemente elaborato un documento dedicato alla fluidità e alla velocità nell’utilizzo del sistema di letto-scrittura Braille, fattori ritenuti fondamentali per l’alfabetizzazione delle persone con disabilità visive, con un impatto diretto sui loro risultati accademici, sulle opportunità di lavoro e sulla qualità della loro vita

La fluidità nell’utilizzo del metodo di letto-scrittura Braille è fondamentale per l’alfabetizzazione delle persone con disabilità visive, con un impatto diretto sui loro risultati accademici, sulle opportunità di lavoro e sulla qualità della loro vita.
Vi è un Gruppo di Lavoro dell’EBU, l’Unione Europea dei Ciechi, che si occupa proprio di velocità di lettura e di fluidità nell’utilizzo del Braille e che ha recentemente elaborato il documento dal titolo Braille Fluency in Individuals with Visual Impairments: An Integrated Analysis of Cognitive Processes, Educational Strategies, and Technological Interventions, ossia, letteralmente “La fluidità nel Braille per le persone con disabilità visive: un’analisi integrata dei processi cognitivi, strategie educative e interventi tecnologici” (è disponibile integralmente in inglese a questo link e si può attuarne una traduzione in italiano letterale, anche se ovviamente non ufficiale, tramite Deepl, a quest’altro link).

Il testo sintetizza le ricerche esistenti sui processi cognitivi coinvolti nella lettura del Braille, i fattori che influenzano la fluidità e le strategie educative e tecnologiche progettate per migliorare l’alfabetizzazione in Braille. Si tratta di un breve saggio che, passando in rassegna i risultati di vari studi, mira a fornire una comprensione complessiva di come ottimizzare la fluidità nel Braille per i diversi apprendenti. L’analisi si conclude con una serie di raccomandazioni per future ricerche e pratiche educative per supportare i lettori di Braille.

Le implicazioni di questi risultati per educatori, politici e ricercatori evidenziano la necessità di continuare a investire nell’alfabetizzazione in Braille, per garantire un accesso equo all’informazione e all’educazione.
Da segnalare che, per quanti cerchino principalmente consigli pratici per migliorare la velocità di lettura Braille, la Sezione 6 del documento (Consigli pratici per migliorare la velocità di lettura Braille) consolida le strategie chiave adattate ai lettori di tutti i livelli di abilità. (C.C. e S.B.)

Per maggiori informazioni: Nacho Lopez (nacho.lopez@euroblind.org).

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Mara, donna “effervescente naturale”, cui la sclerosi multipla ha “cambiato lo sguardo”

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Fisioterapista, donna espansiva, con una vivacità “effervescente naturale” e una mente libera e aperta, Mara Violani ha avuto alcuni anni fa una diagnosi di sclerosi multipla. «Dopo la scoperta della malattia – racconta – mi è cambiato “l’occhio”, cioè lo sguardo sulle cose, sugli altri, su me stessa». Andiamo a conoscerla meglio Mara Violani

Oggi mi accingo a presentarvi Mara Violani, fisioterapista di Bergamo, donna espansiva, con una vivacità all’ennesima potenza, con una mente libera e aperta, affetta da sclerosi multipla.
Ho avuto modo di ascoltarla in un’intervista fattale dall’amico Marco Farina, all’interno del suo canale YouTube, e subito l’ho sentita familiare, come se ci conoscessimo da tempo, perché Mara ha una comunicabilità coinvolgente e avvolgente. Decido così di proporle un’intervista telefonica, una bella chiacchierata disinvolta, com’è lei, perché sono convinta che la sua testimonianza di vita possa veramente essere un “balsamo” per molti di noi.
Cara Mara, grazie per avere accolto la mia proposta di farti intervistare senza avermi mai conosciuta, quindi grazie anche per la fiducia.

Come ti descriveresti, Mara? Fammi un tuo profilo.
«Mi definisco fondamentalmente come una persona frizzante, una persona quindi che non passa inosservata, proprio come energia. Poi a partire dal 2024, da quando ho voluto iniziare a diffondere il mio messaggio di speranza, di fiducia nella medicina, nella ricerca, mi sento ancora più energica di quanto non fossi in precedenza.
Per assurdo il modo in cui io racconto me stessa con l’obiettivo chiaro e definito di volere arrivare a portare un po’ di luce, speranza, positività, mi ricarica di energia. Poiché più mi racconto, più condivido, più mi ricarico.
Sono una donna molto amante dello sport, del padel in modo particolare, sono appassionata di mostre, di eventi artistici, concerti, sono una persona sanamente curiosa e soprattutto amante della propria libertà. Dal punto di vista professionale sono un’operatrice sanitaria, svolgo la mia attività come fisioterapista dal 1995 all’interno di una struttura convenzionata con il Servizio Sanitario Nazionale».

Quando è arrivata la diagnosi di sclerosi multipla?
«Nel 2018. Mi è stata diagnosticata nella struttura in cui io lavoro, grazie ad una risonanza magnetica. Chiaramente è qualcosa che non mi aspettavo, perché io avevo altri progetti, altri sogni… Oggi posso dire, paradossalmente, che quella diagnosi è stata in un certo senso la mia “fortuna”».

Quali erano i tuoi desideri, i tuoi sogni, fino al momento della diagnosi?
«A me interessava fare bene il mio lavoro, il mio sport, niente di particolare. I miei interessi per l’arte, la cultura, li ho sempre avuti. Posso dire che dopo la scoperta della malattia mi è cambiato “l’occhio”, cioè lo sguardo sulle cose, sugli altri, su me stessa. Oggi, rispetto a sette anni fa, sono più incline ad ascoltarmi e ad ascoltare gli altri. Dovendo poi passare dall’altra parte della barricata, come paziente, è cambiato parecchio il mio punto di vista, ma soprattutto è cambiata la mia qualità di vita».

In che modo, esattamente, è cambiata la tua qualità di vita?
«Beh, prima ero molto presa dal lavoro, sempre di corsa, tentando di fare e dare il massimo. Adesso la prospettiva è cambiata, sono più attenta a me stessa, al mio benessere e anche alle modalità di trascorrere il tempo libero, come serate e aperitivi… Ho smesso di fumare, oltreché di correre freneticamente…».

Ma qual è stato il tuo primo pensiero dopo avere ricevuto la diagnosi?
«Nel periodo precedente alla diagnosi facevo pole dance (“ginnastica sul palo”), che è proprio una disciplina sportiva, e in questa c’è una figura che si chiama butterfly, in cui si sta a testa in giù. Ecco, nel momento in cui mi è stata restituita la diagnosi di sclerosi multipla, è come se mi avessero ribaltato a testa in giù. Una metafora forte, efficace e immediata nel descrivere quel che si prova. Se in quel momento avessi trovato qualcuno che mi avesse parlato come io ora parlo a me stessa, cioè con pacatezza, contenimento, con parole semplici e non tecniche, dicendomi che avrei potuto andare avanti nella vita, che non mi era precluso nulla e che avrei dovuto semplicemente seguire le direttive dei medici, beh, forse sarebbe stato meno difficile digerire quel boccone. Io sto bene, va tutto bene, ma non nego che in quel momento l’idea della carrozzina mi ha preoccupata.
Ringraziando Dio, mi muovo bene, faccio tutti i giorni attività sportiva, fra palestra e padel, e più faccio attività, più sento di star bene. Per me non è solo un discorso di allenamento fisico e della coordinazione, ma è proprio uno spazio di tempo che dedico a me, stando anche con persone con cui mi sento a mio agio. Io mi sento felice quando gioco e soprattutto quando posso fare ciò che desidero».

L’essere una fisioterapista che ricaduta ha avuto sulla tua malattia, sul tuo stato di preoccupazione e su quello di reattività?
«Mi piace questa domanda perché nessuno me l’ha mai fatta ed è un importante spunto di riflessione. Io non mi sono mai fatta prendere dal panico, ma da uno stato un po’ di confusione, sì. Conoscevo la sclerosi multipla, proprio per gli studi che avevo effettuato, quando era vista come un limite e richiedeva tanto riposo. Nella settimana in cui sono stata ricoverata, prima della diagnosi definitiva, nella mia testa è passato di tutto. La possibile perdita di libertà, di non poter fare ciò che volevo, mi ha molto turbata. Si tratta di una malattia molto imprevedibile e nel momento in cui te la senti dire, come operatore sanitaria, è veramente dura.
Poi, quando sono stata dimessa mi sentivo più serena perché in qualche modo mi ero tolta un peso: mi era stata data una diagnosi. I neurologi, però, mi hanno confermato che la medicina aveva fatto progressi, che il farmaco che mi stavano dando era di ultima generazione e che, cosa più bella e importante, avrei potuto fare tutto quello che avessi voluto. Certamente erano previsti controlli, all’inizio ogni tre mesi, poi a cadenza semestrale, e così, pian piano, mi si è aperto un mondo di positività. Ma già dopo avere parlato con il neurologo, prima della dimissione, ero serena.
Il giorno dopo essere uscita dall’ospedale ero a fare spinning e mentre pedalavo mi dicevo: “Ce la posso fare, la vita va avanti! Penso a quel che mi è rimasto e non a ciò che mi è stato tolto, perché in realtà non mi è stato tolto nulla”».

Quindi questa diagnosi non ti ha sottratto quel che era la tua indole, il tuo modo di affrontare la vita?
«Per assurdo, e lo sottolineo, mi ha liberata. Cioè ancora di più mi godo quello che la vita mi dà tutti i giorni. Precedentemente le cose belle che avevo intorno, presa com’ero dal correre, non ero in grado di assaporarle. Adesso riesco a percepire e a vivere la vita come un dono proprio giorno per giorno, momento per momento. E a mio parere, se non avessi passato il percorso della diagnosi, del dover star ferma a riflettere, non sarei riuscita a maturare questa visione della vita che ora mi accompagna.
Medici validi ce ne sono, io li ho trovati, questo è molto importante per tranquillizzarsi e vivere la quotidianità sentendosi accompagnati. Quando vado ai controlli mi porto la lista delle domande, così sono sicura che se ho dubbi posso subito togliermeli e non resto con ansie e ruminazioni. I medici sono super pazienti e rispondono alle mie domande, anche questa è terapia, in un certo senso.
Una cosa assai bella e importante è che in seguito a questa diagnosi ho ritrovato tre amiche che lavorano con me e che ci tengo moltissimo a ringraziare, che io ho ribattezzato come le “tre grazie”, Paola, Carla e Daniela».

Pensi che dovrai rinunciare a qualcosa a causa di questa malattia?
«Grazie anche per questa domanda che mi dà lo spunto per raccontarti dell’incontro con una dottoressa non proprio positiva, diciamo. Questa persona mi disse se io fossi consapevole che non esistevano cure per guarire da questa malattia, e che nel tempo avrei potuto anche peggiorare. Io so che per ora non esiste una cura per guarire, ma so anche che la ricerca va avanti e poi pensare di poter peggiorare non può essere un pensiero idoneo con cui convivere e precludermi le possibilità di vita che ora ho davanti. Non voglio pormi limiti: se mi sento di poter fare qualcosa, voglio farlo. Tutto può succedere, ma perché pormi in modo negativo? Non mi aiuta».

Il rapporto con la tua famiglia è cambiato dopo la diagnosi?
«Sì, in meglio. Con i miei genitori e mio fratello eravamo già in buoni rapporti, ma le cose sono andate migliorando, siamo ancora più uniti, il legame fra noi è ancora più forte e solido. All’inizio loro si sono spaventati, molto più di me. La conoscevano pochissimo questa malattia, solo per sentito dire. Io invece, che l’avevo studiata, avevo una prospettiva diversa. Comunque molte persone ancora ignorano cosa sia la sclerosi multipla».

Dicci qualcosa tu…
«È una patologia autoimmune che colpisce il sistema nervoso centrale e di cui ancora sono sconosciute le cause. È un’infiammazione e ancora non si sa da cosa possa essere scatenata. Si sa che è una malattia genetica, che non è ereditaria, che non è assolutamente contagiosa e che la qualità di vita, rispetto a una volta, è decisamente migliorata, grazie all’utilizzo di questi farmaci di nuova generazione. Io assumo una terapia orale e mi trovo bene con questo farmaco. Qualcuno ha avuto disturbi gastroenterici, rossori, vampate, ma la medicina è così progredita che esistono tante altre forme di possibilità di somministrazione della terapia, per cui, anche se dovessi avere problemi in merito, mi sento serena».

Cosa vorresti comunicare, Mara, con queste tue parole?
«Da quando ho iniziato questa mia “campagna divulgativa” fatta di interviste varie, articoli ecc., ossia dal mese di maggio dello scorso anno, ho come obiettivo quello di portare luce in un momento buio, di parlare di speranza a chi può non averne più e di fiducia nel presente, nel futuro e nella medicina, ma in generale nella vita.
Sento in giro tanta energia negativa e, a mio parere, il mio può essere un esempio di persona normalissima che vive la quotidianità con positività. Una serie di circostanze mi hanno portata a reagire costruttivamente nei confronti di una diagnosi che avrebbe potuto gettarmi in un baratro, farmi cadere in depressione, farmi perdere quella luce e quella positività che io ho di natura».

Tu hai fede, coltivi la fede?
«Credo a modo mio, non sono praticante. Io amo la vita e la vita a volte mi sottopone a delle prove, perché comunque c’è un segno, c’è un messaggio che qualcuno mi vuole mandare, per aiutarmi a riflettere. Questa diagnosi è un po’ uno stop che – sia il mio organismo che qualcuno dall’aldilà che mi vuol bene – mi ha mandato per farmi riflettere su ciò che poteva veramente essere importante per me e sul valore profondo della vita, che va goduta e non sprecata, nel quotidiano delle piccole cose. Prima me la prendevo per sciocchezze, ora sto imparando a lasciar correre, a dare il giusto valore alle cose che meritano. Ho imparato la resilienza, cioè a guardare qualcosa che inizialmente è negativo, ma poi, se mi fermo e lo osservo bene, può avere risvolti positivi».

Progetti per il futuro?
«Dal punto di vista professionale, continuare la mia attività che mi porta a stare in contatto con le persone, mi piace e mi stimola. Dal punto di vista personale, coltivare i miei interessi, sport, eventi culturali, concerti, mostre. E poi mi piacerebbe continuare a divulgare il mio messaggio. È una cosa che mi sta molto a cuore e mi sto organizzando in merito. Ci tengo molto a condividere la mia esperienza, perché penso possa servire a dare coraggio nel momento in cui ti senti disperato. È un coraggio, una forza che nasce da dentro di noi. Il mio può essere uno spunto, la prima nota di una composizione meravigliosa che però sta alla singola persona realizzare. A volte dobbiamo solo spostarci e cambiare punto di vista.
La sclerosi multipla non l’ho voluta io, non me la sono andata a cercare, ma visto che ci dovremo “portare per mano” sino alla fine, allora cerchiamo un compromesso per sopportarci a vicenda. Con me la sclerosi multipla non si annoia ma… e allora forse ha deciso di stare un po’ quieta!».

Come vorresti concludere questa intervista?
«Sicuramente ringraziando te, che hai avuto il tempo e la pazienza di ascoltarmi. Ma vorrei ringraziare anche me, per come ho reagito, vorrei ringraziare le persone che mi sono state vicino e vorrei ringraziare la vita che mi ha messo di fronte a una prova che mi ha fatto maturare e che mi ha fatto scoprire una Mara migliore di quella che ho lasciato andare. Spero di potere andare avanti nel fare tutto ciò che mi emoziona il più a lungo possibile, recuperando, in questo modo, la bambina che è in me e che è la sorgente della mia energia».

*Laura Bonanni è psicologa psicoterapeuta specialista in Analisi Transazionale; Mara Violani è presente in Instagram (marviolani@libero.it).

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L’accessibilità dell’infobus sui nuovi tram di Torino

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Come riferisce l’APRI di Torino (Associazione Pro Retinopatici e Ipovedenti), nel corso di un incontro coordinato dal Comune di Torino tra la FISH Piemonte e la disability manager del GTT (Gruppo Torinese Trasporti), quest’ultima ha aggiornato i partecipanti sullo stato di accessibilità dell’infobus sui nuovi tram Hitachi del capoluogo piemontese Uno dei nuovi tram Hitachi della città di Torino

Il 13 gennaio scorso la delegata per la FISH Piemonte (già Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap, oggi Federazione Italiana per i Diritti delle Persone co Disabilità e Famiglie) della nostra Associazione [APRI-Associazione Pro Retinopatici e Ipovedenti, N.d.R.]  Dajana Gioffrè e il nostro consigliere Valter Primo hanno partecipato ad un incontro coordinato dal Comune di Torino nella persona di Elena Ceretto, con la disability manager di GTT (Gruppo Torinese Trasporti) Rita Gambino.
L’incontro è stato centrato su un momento di aggiornamento circa lo stato di accessibilità dell’infobus sui nuovi tram Hitachi ora collocati soprattutto sulla linea 9 della città di Torino.

La disability manager ha informato le persone con disabilità visiva sui lavori di aggiornamento del software che consente il buon funzionamento dell’infobus e che tali lavori sono al momento in corso sui tram già in funzione, ciò che avverrà con i nuovi mezzi in arrivo.
L’azienda di trasporti ha invitato comunque i nostri soci a segnalare eventuali malfunzionamenti dell’infobus, scrivendo a gambino.r@gtt.to.it.
A tal proposito, è stato anche reso noto che verranno avviate alcune campagne di sensibilizzazione per la segnalazione dei malfunzionamenti sui mezzi pubblici torinesi. (APRI-Associazione Pro Retinopatici e Ipovedenti di Torino)

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Alcune proposte per contrastare la violenza sulle donne con disabilità

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Attraverso i propri strumenti informativi, l’ANMIC ha illustrato il lavoro svolto sul tema della violenza nei confronti delle donne con disabilità e per contrastare tale fenomeno, sta raccogliendo i dati sui casi pervenuti al proprio Ufficio Antidiscriminazione, sta organizzando un prossimo evento divulgativo e sta predisponendo percorsi formativi mirati a divulgare la cultura nonviolenta nelle scuole, nonché tra gli operatori e le operatrici sociali

Il 15 gennaio scorso l’ANMIC (Associazione Nazionale a tutela delle Persone con Disabilità, già Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi Civili) ha messo online una puntata di ANMIC Informa (la rubrica informativa curata dall’Associazione), interamente dedicata al tema Violenza sulle donne con disabilità: analisi, riflessioni e proposte per il cambiamento. Il filmato (della durata di 13.17 minuti) è liberamente fruibile sul canale YouTube ANMIC 24 a questo link.

La puntata di cui si tratta è stata condotta dal presidente nazionale dell’ANMIC Nazaro Pagano, il quale ha evidenziato come in àmbito associativo la riflessione su questi temi si sia sviluppata già da qualche tempo quale conseguenza delle frequenti segnalazioni di casi di violenza ai danni delle donne con disabilità pervenute al proprio Ufficio Antidiscriminazione.
«Purtroppo – spiegano dall’Associazione -, i dati e le segnalazioni raccolti mostrano come le donne con disabilità siano spesso vittime di abusi e discriminazioni multiple, aggravate dalla loro condizione e da un contesto sociale che, in molti casi, non fornisce adeguati strumenti di protezione e supporto. Questa violenza non è solo fisica, ma spesso si manifesta attraverso forme più subdole, come l’abuso psicologico, economico e sociale, rendendo il fenomeno ancora più complesso da affrontare».

Dunque l’ANMIC è impegnata a raccogliere i dati e le notizie su questo fenomeno, ad individuare gli strumenti da mettere in campo per contrastarlo e ad organizzare per il prossimo mese di marzo un evento divulgativo in cui verranno illustrate le evidenze riscontrate. Tale evento, attualmente ancora in fase di definizione, sarà organizzato in collaborazione con altri enti, con l’Ordine dei Medici e alcune Società Scientifiche.

Quello della violenza nei confronti delle donne con disabilità, ha sottolineato Pagano, è un tema significativo cui l’ANMIC intende rispondere anche con la predisposizione di interventi formativi (online e in presenza) mirati a divulgare la cultura nonviolenta nelle scuole, nonché tra gli operatori e le operatrici sociali. La violenza va condannata a prescindere dal soggetto a cui è rivolta, e tuttavia l’Associazione sta riscontrando le maggiori criticità proprio in relazione alle donne con disabilità, essendo esse esposte a discriminazione multipla, quella che deriva dalla compresenza nella stessa persona di più caratteristiche suscettibili di produrre discriminazione (in questo caso l’essere donne e persone con disabilità). Va poi tenuto presente che solitamente le donne con disabilità hanno, rispetto alle altre donne, minori possibilità di difesa, e spesso si trovano immerse in relazioni di prevaricazione, senza avere, specie nei casi di donne con disabilità intellettiva, la possibilità di contrastarle o di sottrarsi ad esse.

L’approccio a queste tematiche, ha chiarito ancora Pagano, deve essere trasversale agli schieramenti politici, deve proporre, come accennato, interventi culturali, ma deve anche prevedere azioni coercitive da parte di chi è istituzionalmente preposto a preservare la sicurezza di tutti i cittadini e le cittadine. (Simona Lancioni)

L’Ufficio Antidiscriminazione dell’ANMIC si può contattare attraverso il numero verde 800 572775 (lunedì, mercoledì e venerdì, ore 9-12), oppure utilizzando il recapito antidiscriminazione@anmic.it.
Il presente contributo è già apparso nel sito di Informare un’h-Centro Gabriele e Lorenzo Giuntinelli di Peccioli (Pisa) e viene qui ripreso, con minimi riadattamenti dovuti al diverso contenitore, per gentile concessione.

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L’audiodescrizione del film “Sei nell’anima”, che racconta l’ascesa di Gianna Nannini

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«Audiodescrivere un’opera come questa mi ha dato la possibilità di apportare alla voce di un’artista qualcosa di nuovo nell’immaginario collettivo di chi non vede, che ovviamente conosce i cantanti solo per la loro voce»: lo scrive tra l’altro Laura Giordani, adattatrice di dialoghi, audiodescrittrice e docente universitaria, nel raccontare il suo lavoro di audiodescrizione per il film Netflix “Sei nell’anima”, che racconta l’ascesa iniziale della rockstar Gianna Nannini L’attrice Letizia Toni nei panni di Gianna Nannini, in una scena del film “Sei nell’anima”

Uno dei poteri dell’arte, si sa, è quello di essere “onnipervasiva”: arriva ovunque e tocca tutto, anche altre forme d’arte. Per esempio, il cinema può farci vedere più da vicino un artista appartenente al mondo delle arti visive o della musica. È il caso del film Netflix Sei nell’anima (2024), successo nazionale che ha raccontato l’incredibile avventura che è stata l’ascesa della regina indiscussa del rock italiano, Gianna Nannini.
Diretta da Cinzia TH Torrini, la pellicola è tratta dall’autobiografia Cazzi miei (2016) e vede l’attrice Letizia Toni nei panni della rockstar a cavallo tra gli Anni Settanta e Ottanta.
Il film si avvale inoltre della partecipazione della conduttrice televisiva e radiofonica Andrea Delogu nei panni di una giovane Mara Maionchi, la produttrice che “scoprì” la regina del rock italiano.
Alla sottoscritta è stata affidata l’audiodescrizione di questo film Netflix, con l’obiettivo di renderlo accessibile a tutte le persone con disabilità visiva.

D’ora in poi abbreviata in AD, l’audiodescrizione, com’è noto, traduce in parole le azioni che, in un’opera audiovisiva, non possono essere percepite dalla vista. Uno speaker ne legge poi il testo descrittivo, la cui traccia viene “missata” a quella originale del film, che si compone di dialoghi, rumori, musiche e suoni.
Ma oltre agli aspetti più tecnici, un’AD dovrebbe rendere visibile ciò che non lo è agli occhi dei fruitori, trasponendone il senso artistico desiderato e ideato dal regista. Prendendo in prestito i versi iniziali di Ragazzo dell’Europa (1982) – canzone che compare nel film – l’audiodescrittore dovrebbe “stare negli occhidel fruitore e “raccontargli gli inganni” del gran bel sogno che è il cinema.

La natura particolare di questa lavorazione ha suscitato in me delle riflessioni: audiodescrivere l’intrigante esperienza di vita di Gianna Nannini significa fondere una descrizione “in prosa” alla poesia delle sue canzoni, ma non solo. Da vedente, sono abituata ad associare la voce graffiante della Nannini alla sua immagine, che è riconoscibilissima. Ma l’audiodescrizione di un’opera del genere si carica della responsabilità di creare nella mente del fruitore l’immagine della sorgente di quella voce: nel concreto, si tratta di attribuirle un qualcosa che non le era mai stato attribuito: è un’operazione che comunque va a cambiare la concezione mentale di quel personaggio nella mente del fruitore.

La musica, dal punto di vista di una persona con disabilità visiva, è sicuramente l’arte più inclusiva di tutte: bastano l’udito e il sentimento, un po’ come per l’AD di un’opera audiovisiva. Entrambe, inoltre, mirano a un’armonia che fonda magistralmente tutte le componenti. Va da sé che quando l’AD tocca l’ambito musicale ci si aspetti la quintessenza dell’armonia. È stato dunque di vitale importanza accostare un testo descrittivo che si unisse bene con il carattere indomito della protagonista e con i suoi grandi successi, senza rinunciare ad adattarsi alle varie tematiche trattate nel film: la ribellione giovanile, la tenacia dei propri sogni, lo scontro padre-figlia, ma anche la droga, il disagio, la pressione lavorativa.
La protagonista, inoltre, viene anche connotata a fondo per la sua provenienza senese: «Gianna entra in una camera. Appoggia il borsone sul letto e lo apre. Estrae il fazzoletto di seta della Contrada dell’Oca, quartiere di Siena, e lo posiziona accanto alla custodia della chitarra. Poi tira fuori un poster di Janis Joplin […] e lo appende alla porta. […] Afferra una scatola di Ricciarelli, biscotti tipici di Siena e ne mangia uno. Chitarra alla mano, si siede in poltrona e canta».
In questo caso, elementi tipici quali oggetti, luoghi e prodotti gastronomici, hanno richiesto l’aggiunta di incisi che ne giustificassero la presenza o che ne spiegassero la natura.

Il testo descrittivo di quest’opera si è poi dovuto fare particolarmente cupo laddove toccava temi aspri come la morte dell’amica Tina per overdose: «Alla pensione, fa per entrare in camera sua ma desiste sentendo la musica provenire dalla stanza accanto. Fruga nelle tasche dei jeans. Apre con la sua chiave. Il sorriso sul suo volto scompare. Il registratore continua a girare a vuoto. Gli occhi azzurri di Gianna si posano sconvolti sul corpo inerme di Tina riverso sul letto disfatto, seminuda, con gli occhi spalancati. Sul braccio destro, i lividi intorno ai buchi e un laccio emostatico. Accanto a lei una siringa insanguinata. Gianna indietreggia atterrita ed esce dalla stanza. Con una barella, due uomini portano via il corpo senza vita di Tina, ricoperto da un lenzuolo bianco».
Come sempre accade nelle opere audiovisive, è il linguaggio filmico a “mostrarci la via”. La musica che proveniva dalla stanza è finita: l’inquadratura sul registratore che continua a girare a vuoto è metafora di ciò che stiamo per vedere, ovvero una giovane vita stroncata dal mostro che è la droga. Certi segnali vanno colti e messi in risalto: solo così si evita un’AD vuota, piatta e noncurante del senso artistico dell’opera.

Una scena “di famiglia” del film “Sei nell’anima”

Altre scene potenti all’interno del film sono quelle di sesso: l’irrequietezza di un’anima ribelle come quella della protagonista passa anche da clip che sottolineano la natura sfrenata e improvvisa degli episodi amorosi, in un climax di passione: «Nel cuore della notte, a casa di Gianna, lei e Mark si baciano, si spogliano. Addossati alla parete, si toccano. A letto, lui affonda la bocca tra le cosce di lei che si contrae dal piacere. Poi le scivola dentro, i corpi nudi a contatto, travolti dalla passione».
Lo stesso vale per la scena in cui Gianna fa la conoscenza di “Undici”, una ragazza leccese con cui nascerà un’intensa storia d’amore: «Bevono entrambe un sorso di vino. La ragazza posa il calice e si tocca il collo con espressione dolorante. Gianna le prende la mano e le fa scorrere il pollice lungo le vene dal polso al gomito. […] La ragazza la scruta con un sorrisetto ammiccante. La mano di Gianna le sfiora il braccio in una lenta carezza fino a un bracciale rigido d’argento sul bicipite. […] Più tardi, in un bosco. La ragazza dai capelli corti è appoggiata al cofano di un’auto con i fari accesi. Gianna strappa un filo d’erba. Lo annoda e crea un anello. Lo infila all’anulare sinistro della ragazza. […] I loro visi si fanno più vicini. Le loro bocche si cercano. Si assaporano. Gianna le sfiora le labbra con le dita. Poi la bacia con passione. Undici le sfila il giubbotto di pelle. Gianna le apre la zip dei jeans e le sfiora la pelle del ventre. Si baciano toccandosi…».
Il sorrisetto ammiccante e la lenta carezza sono elementi che innescano un corteggiamento serrato. L’esperienza omosessuale – l’ennesimo aspetto che caratterizza una rockstar che antepone il sentimento ai precetti sociali di quegli anni – viene presentata come un assaporamento. Sono temi vitali per un’artista che ha fatto della sua stessa vita un’espressione di rottura con i retaggi di un Paese ancora troppo vincolato al passato.

A incarnare la generazione precedente alla sua, perbenista e osservante di quei canoni sociali, il padre, che la voleva una tennista di successo, anziché una rockstar dissoluta. L’audiodescrizione di un ricordo della giovane Gianna rende bene il loro scontro generazionale: «Gianna cammina nella foschia notturna e ricorda: da adolescente gioca una partita di tennis sotto lo sguardo attento del padre, seduto sugli spalti a bordo campo. Gianna, seduta in panchina con espressione combattuta, guarda il padre che la incita. La partita ricomincia. Gianna e la sua avversaria tornano in campo. Gianna, immobile, non risponde al servizio. Si volta verso il padre e lo guarda con aria di sfida. Il cielo imbrunisce e il viso del padre si contrae dalla rabbia. I due, sotto la pioggia battente, si scrutano a lungo. Il pubblico lascia gli spalti. Padre e figlia continuano a fissarsi. Lui, rassegnato e fradicio, abbassa le braccia lungo i fianchi; lei è irremovibile».

In conclusione, audiodescrivere un’opera del genere mi ha dato la possibilità di apportare alla voce di un’artista qualcosa di nuovo nell’immaginario collettivo di chi non vede, che ovviamente conosce i cantanti solo per la loro voce. Ma nel caso di quest’opera, l’inclusione non sta solo nell’averla resa accessibile, ma anche nell’averla impreziosita con la voce di Mario Loreti, speaker professionista cieco che, proprio per questa lavorazione, lo scorso 1° dicembre ha vinto il Premio Speciale Accessibilità al Festival del Doppiaggio Voci nell’Ombra. E pensare che lui stesso si era detto “dubbioso” della sua performance: con sua grande sorpresa – ma non la nostra – questa lavorazione gli è valsa un importante riconoscimento. Con la sua voce, è davvero riuscito a entrare “nell’anima” del testo descrittivo [nei prossimi giorni daremo spazio a una nostra intervista esclusiva a Mario Loreti, N.d.R.].

*Adattatrice di dialoghi, audiodescrittrice, docente universitaria. Ne segnaliamo anche, sempre sulle nostre pagine (a questo link), il recente contributo intitolato “La buona audiodescrizione di un ‘teen drama’”.

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Il concorso di idee “Cortina per Tutti”: si può partecipare fino al 31 gennaio

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Come segnala la rete Village for all (V4A®), è ancora aperta fino al 31 gennaio la possibilità di partecipare al concorso “Cortina per Tutti”, rivolto dal Comune di Cortina a cittadini/cittadine, associazioni e a chiunque abbia un’idea innovativa per favorire l’inclusione e l’accessibilità nei settori dell’ospitalità, dei servizi, delle infrastrutture e delle attrazioni turistiche. Il tutto con un occhio puntato in particolare ai Giochi Olimpici e Paralimpici Invernali Milano-Cortina del 2026 Roberta Alverà, vicesindaca di Cortina d’Ampezzo con Deleghe al Turismo e all’Accessibilità, promotrice del concorso d’idee “Cortina per Tutti”

Come avevamo riferito nell’estate dello scorso anno, durante un incontro organizzato dal Comune di Cortina d’Ampezzo, per far conoscere alle realtà territoriali gli strumenti operativi introdotti per preparare la località delle Dolomiti ad offrire un’ospitalità accessibile in vista dei prossimi Giochi Olimpici e Paralimpici Invernali del 2026 (Milano-Cortina 2026), era stato presentato agli imprenditori Destination4All, percorso pluriennale messo a punto da Village for all (V4A®), la nota rete impegnata da molti anni sul tema dell’innovazione turistica specializzata in ospitalità accessibile, per migliorare appunto l’ospitalità accessibile di Cortina, progetto partito già da tempo, che intende portare innanzitutto a migliorare la qualità delle informazioni sull’accessibilità, coinvolgendo tutti gli attori della filiera turistica (ospitalità, commercio, ristorazione, servizi e altro).
Ora la stessa Village for all ricorda che è ancora aperta fino al 31 gennaio la possibilità di partecipare al concorso Cortina per Tutti, rivolto dal Comune di Cortina a cittadini/cittadine, associazioni e a chiunque abbia un’idea innovativa per favorire l’inclusione e l’accessibilità nei settori dell’ospitalità, dei servizi, delle infrastrutture e delle attrazioni turistiche. (S.B.)

A questo link sono disponibili tutte le informazioni sul concorso di idee Cortina per Tutti.

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Una mostra per sfidare la narrazione dominante sulla disabilità

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A Torino, nell’ambito del progetto “Inclusione 6.0.”, in mostra dal 24 gennaio al 28 febbraio i quaranta poster vincitori del concorso internazionale “Posterheroes”. L’ingresso è gratuito
Particolare di uno dei poster in mostra a Torino

Torna a Torino la mostra Beautifully Diverse, che ospita i quaranta poster vincitori del concorso Posterheroes, edizione 2023, nell’àmbito del progetto Inclusione 6.0, portato avanti dalla Città di Torino, finanziato dal Fondo per le Periferie Inclusive e avente quale capofila la CPD (Consulta per le Persone in Difficoltà), in partenariato con “Liberitutti”, Weco Impresa Sociale, l’Associazione Hackability, Vol.To (Volontariato Torino) e la Fondazione Time2.

Posterheroes è un concorso internazionale il cui obiettivo è quello di alimentare la discussione su tematiche di interesse sociale e ambientale attraverso la comunicazione visiva. L’edizione 2023 dell’iniziativa, denominata, come detto, Beautifully Diverse, è il risultato della collaborazione tra l’Associazione PLUG Creativity, la Fondazione Time2, la Società Favini e ITC-ILO e ha avuto per tema la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità.
Il concorso ha proposto alla comunità creativa internazionale di sfidare la narrazione dominante sulla disabilità, al fine di promuovere una cultura della diversità priva di stereotipi e di valorizzare narrazioni autentiche e trasformative.

La mostra raccoglie dunque i quaranta poster vincitori che, selezionati da una giuria internazionale di persone esperte nell’àmbito della comunicazione visiva e sociale, intendono promuovere una nuova narrazione della disabilità, come semplice espressione della diversità che caratterizza il genere umano.
Nel pomeriggio del 24 gennaio (ore 17.30), presso i Bagni Pubblici di Via Aglié a Torino (Rete delle Case del Quartiere), si terrà il vernissage della mostra e l’evento sarà un’occasione per celebrare il superamento degli stigmi e delle rappresentazioni discriminatorie verso le diversità, anche in occasione del Giorno della Memoria 2025.
Per l’occasione dialogheranno sui temi dei diritti, della democrazia e della cittadinanza Samuele Pigoni, segretario generale della Fondazione Time2, Erika Mattarella, direttrice dei Bagni Pubblici di Via Agliè e Francesca Bisacco, presidente della CPD. Inoltre, è stato invitato a portare i saluti istituzionali Jacopo Rosatelli, assessore alle Politiche Sociali della Città di Torino. (C.C.)

Gli spazi della mostra sono accessibili alle persone in carrozzina mediante ascensore da cortile interno. Le opere vincitrici della menzione Fondazione Time2 sono fornite di audiodescrizioni, a cura dell’Associazione Forword. Dieci delle opere in mostra hanno a disposizione riproduzioni tattili. Sono disponibili delle cuffie anti-rumore per chi ne avesse bisogno. I bagni sono accessibili e gender neutral. Per supporti specifici all’accesso alla mostra è possibile fare riferimento al personale dei Bagni Pubblici di Via Aglié e/o scrivere a bagnipubblici@coopliberitutti.it. Per ogni ulteriore informazione: Fabrizio Vespa (fabrizio.vespa@cpdconsulta.it).

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“Di passo in passo”: storia di vita, storia di vite

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“Di passo in passo” di Donata Scannavini è un’autobiografia che ci ricorda cosa è successo alla vita delle persone con disabilità negli ultimi decenni, nel tanto bene e anche nel tanto male. Una lettura facile, ma non banale, che permette di emozionarsi e di ragionare nello stesso tempo

Ogni vita è unica, preziosa, dignitosa e interessante. Ma non è detto che tutte le storie di vita siano altrettanti interessanti, soprattutto quando si parla di vite delle persone con disabilità o dei loro familiari.
Negli anni che abbiamo alle spalle le condizioni esistenziali sono molto cambiate: tante sono state le conquiste ottenute, sia dal punto di vista normativo, sia per quanto riguarda i supporti concreti su cui le persone con disabilità possono contare rispetto a non molti anni fa. Il risultato è che le persone con disabilità di oggi vivono di più e meglio rispetto a quelle del passato, anche se la condizione di discriminazione resta ancora evidente: le persone con disabilità, infatti, studiano e lavorano meno delle altre, sono maggiormente dipendenti dai propri familiari, hanno meno relazioni amicali e meno opportunità di partecipare alla vita sociale. In tal senso, l’obiettivo di una società accessibile e priva di stigmi e pregiudizi è così lontano che, a volte appare quasi un sogno, un’utopia.
Quella che è senz’altra cresciuta è la consapevolezza dei propri diritti e della propria dignità da parte delle stesse persone con disabilità e dei loro familiari. Una crescita di consapevolezza che riguarda anche il valore e l’importanza della propria voce, del proprio punto di vista sulla propria esistenza e anche sul mondo in cui ci si trova a vivere.
Forse, come reazione ad una società che invece fatica ancora (e molto) ad ascoltare e a dare il giusto valore alla voce delle persone con disabilità che, in questi ultimi anni, molte fra loro hanno iniziato a scrivere.
Il genere dell’autobiografia è certamente quello che raccoglie oggi il maggior numero di titoli riguardanti la disabilità: vanno forte le storie di successo, ma anche quelle di dolore e fatica o una combinazione dei due fattori, ovvero le storie di successo conseguito attraverso il dolore e la fatica.

Di passo in passo di Donata Scannavini (Armando Editore, 2024), che è certamente un’autobiografia, ha il merito di discostarsi da questo cliché: si parla di successi e fallimenti, di gioie e di dolori, di relazioni, interessi e di tanto altro ancora. Ma in fondo si tratta di situazioni ordinarie della vita comuni a gran parte delle persone: in fondo non troverete niente di “speciale”, niente di “eccezionale” e anche niente di particolarmente “coraggioso”.
Il merito di Scannavini è quello di approfittare del suo desiderio di raccontare la sua vita per ricordarci cosa sia successo alla vita delle persone con disabilità negli ultimi decenni, nel tanto bene e anche nel tanto male. Un bene e un male feriale e quotidiano che ha contrassegnato la sua esistenza come quella di milioni di altre persone con disabilità nel nostro Paese.
È un racconto che procede in ordine cronologico, facilitando quindi il compito del lettore e che, di tanto in tanto, si ferma per dare spazio a delle considerazioni di carattere generale, che aiutano a cogliere quanto questa semplice e interessante storia di vita possa aiutarci a capire quanto sia importante il punto di vista, anche nel senso del punto di osservazione, delle persone con disabilità sulla vita loro, di chi li circonda e di come funzioni la società.
Una lettura facile, ma non banale, durante la quale è possibile emozionarsi e ragionare, nello stesso tempo.

*Direttore della LEDHA (Lega per i Diritti delle Persone con Disabilità, componente lombarda della FISH-Federazione Italiana per i Diritti delle Persone con Disabilità e Famiglie).

Donata Scannavini, Di passo in passo, Armando Editore, 2024 (collana “Testimonianze”).

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Chi è malato guarisce solo se qualcuno lo abbraccia

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L’abbraccio come concetto che unisce, sostanziato nello slogan Chi è malato guarisce solo se qualcuno lo abbraccia: sono le parole chiave scelte dall’AIFO (Associazione Italiana Amici di Raoul Follereau) per la 72^ Giornata Mondiale dei malati di Lebbra del 26 gennaio, ponendo l’accento sulla centralità della persona e non della malattia e sottolineando l’importanza dell’inclusione, della cura e del sostegno per chi è malato L’immagine-simbolo scelta dall’AIFO per la 72^ Giornata Mondiale dei malati di Lebbra del 26 gennaio

L’abbraccio come concetto che unisce, sostanziato nello slogan Chi è malato guarisce solo se qualcuno lo abbraccia: sono queste le parole chiave scelte dall’AIFO (Associazione Italiana Amici di Raoul Follereau) per la 72^ Giornata Mondiale dei malati di Lebbra del 26 gennaio, ponendo l’accento sulla centralità della persona e non della malattia e sottolineando l’importanza dell’inclusione, della cura e del sostegno per chi è malato, a partire dalle persone colpite dalla lebbra e per tutti coloro che vivono ai margini.

Istituita da Raoul Follereau, la Giornata Mondiale è promossa appunto nel nostro Paese dall’AIFO, Associazione che da oltre sessant’anni è in prima linea nel mondo per la lotta alla lebbra, per garantire il diritto alla cura e all’inclusione per tutti. In occasione dell’evento, dunque, la stessa AIFO organizzerà in numerose Regioni italiane varie iniziative per informare e sensibilizzare le persone su una malattia che, pur essendo curabile, rappresenta ancora un problema sanitario importante in diversi paesi dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina, dove persistono condizioni socioeconomiche precarie che ne favoriscono la trasmissione.
Per promuovere dunque il tema del diritto alla salute globale, centinaia di volontari AIFO saranno nelle piazze e nelle parrocchie d’Italia con il Miele della solidarietà e il Kit – Stare bene è un diritto il cui ricavato finanzierà i progetti sociosanitari dell’AIFO nel mondo, e in particolare quelli per la lotta alla lebbra, oltreché per le altre malattie tropicali neglette.
Accanto all’AIFO vi saranno l’Agesci, il GI.FRA (Gioventù Francescana), il SISM (Segretariato Italiano Studenti in Medicina) e alcune Diocesi, oltre all’importante Alto Patronato del Presidente della Repubblica.

«Nonostante appaia molto distante dall’Occidente – spiegano dall’AIFO -, la lebbra esiste ancora e rimane un problema di salute pubblica in vari Paesi del mondo. Oggi si trova nella lista delle malattie tropicali neglette dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e chi ne è malato ne è ancora emblema dell’esclusione sociale, di un isolamento che spesso li condanna alla povertà e alla disabilità. Rispetto ai dati più recenti prodotti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, nel corso del 2023 erano stati registrati in totale 182.815 casi globali di lebbra con un aumento del 5% rispetto all’anno precedente. La concentrazione delle persone diagnosticate era soprattutto in India, Brasile e Indonesia e tra i nuovi casi il 5,7% erano bambini/e (minori di 15 anni), mentre il 39,9% dei casi globali si riscontravano tra le donne. Dai dati raccolti si evince che è ancora in crescita il numero delle persone che presentano gravi disabilità al momento della diagnosi: nel 2023, tra le persone diagnosticate, il 5,3 % presentavano disabilità gravi, di cui il 2,7 %, bambini/e. Ciò indica che, ancora oggi, a causa della scarsa conoscenza dei sintomi della malattia all’interno delle comunità, delle difficoltà di accesso e della carenza di qualità dei servizi di trattamento, la diagnosi avviene tardivamente e in molti casi la persona colpita dalla malattia si presenta già con disabilità fisiche irreversibili e la malattia può essersi già diffusa anche tra i contatti familiari».

«Nei progetti da noi gestiti – aggiungono dall’AIFO – seguiamo la Road Map 2021-2030 dell’Organizzazione Mondiale della Sanità per il controllo delle malattie tropicali neglette, a sua volta in linea con la Strategia Globale per l’Eliminazione della Lebbra (Towards zero leprosy, 2021-2030). Il cammino verso un mondo senza lebbra è lungo e presuppone azioni integrate verso l’obiettivo dei “Tre Zeri”, ossia zero trasmissione, zero disabilità e zero discriminazione. A questo si aggiunge l’importanza della ricerca scientifica, fondamentale per superare le lacune ancora presenti».
«Il cammino verso “zero lebbra” – conferma Giovanni Gazzoli, medico AIFO specializzato in malattie tropicali – comprende la promozione della ricerca scientifica, costruendo il consenso sulle priorità di ricerca della comunità mondiale: si veda il vaccino attualmente nell’ultima fase di sperimentazione e l’identificazione di nuovi farmaci, come il Telacebec program for leprosy sostenuto anche dall’AIFO».

«Per fermare la diffusione della malattia – sottolineano ancora dall’AIFO – e affinché l’impatto dei programmi di controllo sia duraturo, è necessario migliorare la situazione socioeconomica dei Paesi endemici attraverso un approccio globale che agisca non solo sugli aspetti sanitari, ma anche sui determinanti sociali come l’istruzione e l’occupazione stabile. Nello specifico, oltre alla sensibilizzazione e all’informazione della popolazione, promuoviamo un approccio multisettoriale che include la riabilitazione fisica e socioeconomica delle persone con una disabilità causata dalla malattia e dei loro familiari».

«L’AIFO – dichiara Antonio Lissoni, presidente dell’Associazione – lavora prevalentemente in Paesi dove non esistono diritti, figuriamoci le opportunità, ma il nostro impegno è volto a creare consapevolezza sui propri diritti, umani e sociali e a cercare con ostinata determinazione di dare vita a condizioni di crescita, di autonomia, mostrando a chi è più vulnerabile che ce la può fare. È proprio questo il significato della Giornata Mondiale del 26 gennaio: cura, ma non solo, formazione, ma non solo, soprattutto capacità di creare opportunità, perché chi non lo è mai stato possa sentirsi persona, in grado di gestire la propria vita».

«In Mozambico – concludono dall’AIFO – Stato dell’Africa classificato al 183° posto tra i 198 Paesi più poveri al mondo, abbiamo incontrato Dario, la cui vita è stata segnata dalla lebbra, perché la malattia non è solo fisica, se è vero che l’esclusione e la discriminazione causano profonde ferite nella psiche delle persone colpite. Ma Dario, fortunatamente, è stato diagnosticato per tempo e ha potuto iniziare il suo percorso di cura e di speranza grazie all’aiuto della nostra Associazione». (S.B.)

A questo link, nel sito dell’AIFA, sono presenti tutte le notizie e gli approfondimenti sulla Giornata Mondiale del 26 gennaio. Per altre informazioni: Ufficio Stampa AIFO (Simona Marotta), s.marotta@bovindo.it.

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Si è insediato il nuovo Consiglio Nazionale del Terzo Settore

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«Presieduto dalla viceministra del Lavoro e delle Politiche Sociali Bellucci, il nuovo Consiglio Nazionale del Terzo Settore, composto da 74 membri e insediatosi nei giorni scorsi, avrà quale vicepresidente, il direttore del Forum Nazionale del Terzo Settore Maurizio Mumolo. L’organismo resterà in carica per i prossimi tre anni, attraversando una fase ritenuta assolutamente cruciale per il Terzo Settore Il direttore del Forum Nazionale del Terzo Settore Maurizio Mumolo è stato eletto alla Vicepresidenza del Consiglio Nazionale del Terzo Settore

Durante la seduta di insediamento del nuovo Consiglio Nazionale del Terzo Settore, composto da 74 membri, è stato eletto all’unanimità, in qualità di vicepresidente, il direttore del Forum Nazionale del Terzo Settore Maurizio Mumolo.
«Presieduto dalla viceministra del Lavoro e delle Politiche Sociali Maria Teresa Bellucci, il nuovo Consiglio resterà in carica per i prossimi tre anni, attraversando una fase assolutamente cruciale per il Terzo Settore – commentano dal Forum – che, dopo quasi dieci anni dall’inizio del percorso di riforma, attende a breve, come ci auguriamo, il via libera dell’Unione Europea al nuovo impianto fiscale, passaggio molto delicato, che potrà comportare grandi cambiamenti nella vita delle organizzazioni, e che necessita quindi di massima attenzione e impegno. A tal proposito, anche il Consiglio Nazionale del Terzo Settore dovrà svolgere un ruolo importante».
«Auspichiamo inoltre – aggiungono dal Forum – che l’insediamento del nuovo Consiglio Nazionale del Terzo Settore – favorisca innanzitutto l’apertura di una nuova stagione di implementazione e manutenzione della riforma, ma anche l’inizio di una fase di costruzione di strumenti efficaci di sviluppo e sostegno per il Terzo Settore, alla stregua di quanto accade per altri pezzi importanti dell’economia italiana, e in grado di valorizzare il contributo insostituibile di questo comparto anche per la coesione sociale del Paese». (S.B.)

A questo link è disponibile l’elenco dei soci e degli aderenti al Forum Nazionale del Terzo Settore, tra cui anche la FISH (Federazione Italiana per i Diritti delle Persone con Disabilità e Famiglie). Per ulteriori informazioni: stampa@forumterzosettore.it.

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Lavoro e disabilità: una chimera anche per chi studia e ha un’alta formazione

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«Vorrei centrare la mia attenzione – scrive Enrichetta Alimena – sulle persone con disabilità che hanno alti livelli di formazione, ma che pure non riescono ad avere un lavoro stabile, che possa garantire loro un progetto di vita dignitoso. Una situazione non più sostenibile, perché il lavoro, un lavoro che segua le aspirazioni della persona, è l’unico strumento per un percorso di vita dignitoso»

Sulle pagine di Superando nelle ultime settimane si è sviluppato nuovamente il dibattito sul lavoro per le persone con disabilità; ricordo ad esempio l’articolo scritto da Marino Bottà, direttore generale dell’ANDEL (Agenzia Nazionale Disabilità e Lavoro) che si concentra sulle scarse opportunità lavorative per chi ha una disabilità ad alta necessità di supporto e bassi livelli di istruzione e formazione [“Lavoro e disabilità: serve un cambio totale di strategia”, N.d.R.].
Io vorrei invece spendere qui la mia attenzione sulle persone con disabilità che hanno alti livelli di formazione, ma che pure non riescono ad avere un lavoro stabile, che possa garantire loro un progetto di vita dignitoso.

Se guardiamo i dati dell’ANVUR (Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca) del 2022 abbiamo una rappresentazione chiara della situazione. Dall’anno accademico 1999-2000 il numero di studenti con disabilità è quadruplicato da 4.443 a 17.073 nell’anno accademico 2019-2020. In particolare l’81% degli studenti con DSA (disturbi specifici dell’apprendimento) risulta iscritto ad un corso di laurea triennale, contro il 63 % degli studenti con disabilità; per quanto poi riguarda le lauree magistrali e magistrali a ciclo unico, le percentuali degli studenti con DSA si fermano all’8-9% e sono invece più alte quelle degli studenti con disabilità. Gli studenti con disabilità che accedono al dottorato, infine, sono una novantina in tutta Italia.
Questi dati ci dimostrano dunque che il sistema di istruzione e formazione italiano inclusivo, pur con tutti i limiti che conosciamo, riesce ad offrire una prospettiva di futuro a tante ragazze e ragazzi con disabilità, qualcosa che solo qualche decennio fa era impensabile.
Le Università si stanno attrezzando, offrendo i supporti e gli accomodamenti ragionevoli necessari a rendere l’ambiente universitario accogliente per chi abbia a una disabilità o diverse situazioni di svantaggio.
Tutto risolto, quindi? Certo che no, ci sono ancora diverse barriere da abbattere, ma la strada è stata intrapresa con una certa convinzione e sistematicità. E penso anche alle Linee Guida da poco rese pubbliche sull’inclusione degli studenti con disabilità nelle Università [su di esse si legga un nostro ampio approfondimento a questo link, N.d.R.], dove si descrivono tutte le strategie e metodologie da mettere in campo, il monitoraggio delle barriere, la diversificazione degli strumenti e dei supporti didattici ecc.

Si fa poi riferimento al tema dell’autonomia e indipendenza delle persone con disabilità per puntare ad un percorso di vita soddisfacente, ed è qui che torniamo al tema del lavoro. Sì, perché nonostante gli alti livelli di scolarizzazione e formazione, i livelli di occupazione sono ancora molto bassi, se è vero che secondo gli ultimi dati ISTAT, solo il 32% delle persone con disabilità ha un lavoro e le donne, tanto per cambiare, sono le più penalizzate. A lavorare, infatti, sono solo il 26% delle donne, e questo anche se, come dimostrano i dati dell’ANVUR, le donne studiano di più degli uomini: ad esempio, tra il totale delle persone con disabilità che studiano in università, il 52,9% sono donne e il 47,1% uomini; per quanto poi riguarda la frequenza di Master di Primo e Secondo Livello, il 70,3% sono donne con disabilità, mentre tra gli uomini la percentuale si ferma al 29,7% e il divario tra donne e uomini con disabilità c’è anche tra chi frequenta i corsi di laurea triennale, magistrale e le scuole di specializzazione; le percentuali vanno di nuovo a vantaggio degli uomini con disabilità, solo quando si parla di dottorato. Dunque, si torna qui al tema della doppia e multipla discriminazione delle donne con disabilità.

Tornando a quel 32% di persone con disabilità occupate, il dato prodotto non distingue tra i livelli di formazione, ma non è difficile sapere quanto il lavoro, per chi ha una disabilità, se arriva, arriva molto più tardi rispetto agli atri, è precario e spesso non rispondente agli studi conseguiti.
Dobbiamo quindi lavorare tutti insieme per colmare questi divari tra donne e uomini con disabilità ma anche tra persone con disabilità che si formano, ma che non trovano uno sbocco lavorativo.
Le cause di questi divari sono tante. Prima di tutto vi è un fattore culturale che vede le persone con disabilità come “eterni bambini e ragazzi” che devono sempre imparare, e non sono mai pronte a prendersi delle responsabilità, verso se stessi e gli altri, coltivando un fenomeno di infantilizzazione davvero mortificante. In questo i giovani con disabilità pagano il pregiudizio di essere giovani, che in Italia vuol dire non crescere mai, figuriamoci se hanno una disabilità…
Ma il fatto che il problema dell’occupazione in Italia sia generale, non ci deve fornire l’alibi per non agire, perché nel caso delle persone con disabilità la situazione non è più sostenibile e di questa situazione devono essere consapevoli tutti, persone con disabilità, politici, associazioni di categoria e Terzo Settore, tenendo conto anche del fatto che molte persone con disabilità lavorano e si impegnano all’interno di Associazioni ed Enti del Terzo Settore, ma svolgono spesso attività di volontariato.
Abbiamo bisogno inoltre dell’alleanza con le Università, con il mondo della formazione e naturalmente degli enti pubblici e privati, e dobbiamo agire presto, perché le persone con disabilità non possono aspettare ancora, perché anche il loro tempo, come quello di tutti, ha un valore. Senza mai dimenticare che il lavoro, un lavoro che segua le aspirazioni della persona, è l’unico strumento per un percorso di vita dignitoso; altrimenti, quando si parla di inclusione sociale e di percorso di vita, si rischia di fare solo retorica.

*Attivista per i diritti delle persone con disabilità, docente e formatrice sui temi della disabilità e disability manager. Autrice del libro “Lotta per l’inclusione. Il movimento delle persone con disabilità negli anni Settanta in Italia”, ha realizzato due radio-documentari con Rai Radio 3 (“Il confino. Disabilità e lockdown” e “Tutto normale. Un altro sguardo sulla disabilità”). Fa parte della RIDS (Rete Italiana Disabilità e Sviluppo) ed è “esperta junior” in Cooperazione Inclusiva. Nel 2024 ha ricevuto il Premio AIFO “Donne per l’inclusione”.

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Cosa piace fare a una persona? Questa dev’essere la domanda!

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«Un vero progetto di vita – scrive Liana Cappato – deve partire da una domanda fondamentale: “Cosa piace fare a questa persona?”, “Cosa la appaga e la rende felice?”. Come non capire che la motivazione è ciò che muove ciascuno di noi, e che questo vale anche per chi ha una disabilità?» Una realizzazione grafica dedicata ai concetti di esclusione, segregazione, integrazione e inclusione

Leggendo su queste stesse pagine il recente contributo di Gianfranco Vitale sull’inclusione [“Per far sì che l’inclusione non sia solo uno slogan”, N.d.R.], non ho potuto non soffermarmi, come mi succede spesso in occasione dei suoi articoli mai banali, sui tanti spunti contenuti nell’intervento.
Sono mamma di un ragazzo autistico di 21 anni e anch’io, sebbene l’idea che mio figlio trascorra molte ore del giorno da solo in camera mi dia i brividi, penso che confinare le persone con disabilità in eventi cosiddetti “dedicati” e ristretti alimenti l’esclusione anziché contrastarla.
Proprio mentre leggevo lo scritto di Vitale, il mio telefono ha iniziato a riempirsi di notifiche: erano le mamme di un gruppo frequentato da mio figlio, Mattia. Con entusiasmo, stavano confermando la partecipazione dei loro ragazzi a una Giornata in discoteca, a loro dedicata. Si tratta di un appuntamento mensile, due ore da trascorrere nel pomeriggio a discoteca chiusa. Potranno ballare, sì, ma tra di loro, senza gli altri!
Come si può definire inclusiva una pratica del genere? Dove sta l’inclusione? Eppure, tanti accolgono queste iniziative con gioia, quasi con un senso di liberazione, mentre in realtà siamo davanti a un meccanismo perverso: chi organizza questo genere di eventi strumentalizza per altri fini (magari politici) la disperazione delle famiglie, offrendo soluzioni che non abbattono barriere, ma le rafforzano.
Invece di creare momenti davvero condivisi, dove i cosiddetti “normali” possano interagire e divertirsi con le persone con disabilità, si preferisce optare per momenti separati, che appaiono solidali, ma che in realtà alimentano l’esclusione. Siamo noi familiari, troppo spesso, a essere complici di queste dinamiche perverse. Anziché accontentarci di un sorriso effimero, dovremmo avere il coraggio di rifiutare questo genere di iniziative.
Intendiamoci: trovo che non vi sia nulla di sbagliato nel formare gruppi di persone con disabilità che condividono interessi e obiettivi comuni. Tuttavia questi obiettivi non possono essere limitati a un paio d’ore in discoteca o una giornata al luna park, camuffata da Disability Day. L’inclusione è qualcosa di ben più profondo: significa creare spazi e opportunità in cui tutti possano davvero convivere e crescere insieme.

Nella città in cui vivo sono stati messi in campo progetti e risorse alternative che hanno dimostrato quanto l’inclusione possa essere concreta e significativa. Un esempio sono le tazzine chiamate Smodellate, create da persone con disabilità. Ogni tazzina è unica, diversa dalle altre, e proprio per questa loro magnifica imperfezione sono apprezzate e vendute. I loro creatori trovano in questa attività un senso di appartenenza, perché l’inclusione vera consiste nel dare un lavoro che sia gratificante e, soprattutto, vario. Se non si persegue questo obiettivo si rischia di trasformare tutto in una monotona catena di montaggio, proprio come accadeva durante la Rivoluzione Industriale.
Mi è capitato di ascoltare persone che promuovevano progetti apparentemente inclusivi, ma che in realtà sfioravano lo sfruttamento. Una frase che mi ferisce profondamente è questa: «Se metti una persona normale a sgranare dieci chili di fagioli, si lamenterà, ma se lo fai fare a un autistico, lui non protesterà. Perfetto, cosa vogliamo di più?». Secondo questa logica aberrante, il fatto che una persona con autismo compia un’attività senza ribellarsi significherebbe che gli piace farlo. Ma com’è possibile essere d’accordo con questa idea vergognosa?
Se parliamo di “progetto di vita”, non possiamo proporre alle famiglie soluzioni standardizzate, contenitori vuoti in cui inserire i figli per condannarli a una vita monotona fatta di mansioni ripetitive, come sgranare fagioli, assemblare pezzi di protesi dentali o preparare tortellini. Un vero progetto di vita deve partire da una domanda fondamentale: «Cosa piace fare a questa persona?», «Cosa la appaga e la rende felice?». Come non capire che la motivazione è ciò che muove ciascuno di noi, e che questo vale anche per chi ha una disabilità?
Non possiamo limitarci a dire: «Lui è autistico, obbedisce, quindi tanto meglio». È inaccettabile che progetti così spersonalizzati prosciughino le risorse economiche persino delle famiglie, che spesso si trovano con le tasche vuote, ma si sentono dire: «Andrà tutto bene». Questa frase, tristemente ricorrente, non ha mai portato nulla di buono, e noi dobbiamo rimanere vigili.

Le famiglie, con figli ormai adulti, vivono nella costante ansia del futuro. Sentono il peso del tempo che passa e la paura di non essere più in grado di garantire un domani dignitoso ai propri cari. È per questo che, talvolta, accettano qualsiasi proposta, pur di vedere i loro figli fare “qualcosa”. Alla fine qualcosa ci inventeremo, diceva il titolo discutibilissimo di un libro che ho letto qualche anno fa. No: non è “qualcosa” da inventare la soluzione del problema. ma ciò che occorre trovare è la soluzione “giusta”!
Ci chiediamo mai davvero cosa vogliano fare questi ragazzi? Cosa li interessa? Quali sono le loro attitudini? Se non partiamo da queste domande, il progetto di vita sarà sempre qualcosa di imposto, e i nostri figli si troveranno a subirlo, costretti a fare attività che non li appassionano, come impastare pizze, pulire cozze o altre mansioni che possono (forse) essere utili a qualcun altro, ma non a loro.
L’esclusione, purtroppo, inizia molto presto, già dall’infanzia, e prosegue e si allarga nella società col trascorrere degli anni. È ancora vivo in molti di noi il ricordo a scuola di quell’armadietto vuoto, mentre gli altri avevano attaccati gli inviti alle feste di compleanno. È ancora viva la ferita di quelle recite in cui per nostro figlio non c’era spazio, perché sembrava rovinare il momento. È ancora vivo il ricordo di quelle gite considerate pericolose o inutili per lui.
L’inclusione vera non è solo una parola, ma un impegno che deve partire da una profonda comprensione delle persone, dei loro desideri, delle loro passioni. Perché solo così potremo costruire per loro, e con loro, un futuro che sia davvero su misura.

Abbiamo lottato invano per garantire ai nostri figli il diritto allo studio. Durante le prove INVALSI [Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema Educativo di Istruzione e di Formazione, N.d.R.] ci veniva suggerito di tenerli a casa, per non disturbare il normale svolgimento di test standardizzati che dovrebbero rappresentare la qualità della scuola italiana. Ma come si può avere un quadro completo della scuola, se dalle statistiche vengono esclusi centinaia di migliaia di studenti, compresi quelli con DSA (disturbi specifici dell’apprendimento)? Questi ultimi, pur partecipando alle prove come gli altri, non vengono considerati ai fini statistici. Ancora peggio, gli alunni con disabilità cognitiva non le sostengono affatto. Per il “signor INVALSI”, è come se non esistessero.
La normativa attuale prevede che per accedere agli studi universitari sia necessario ottenere un diploma di scuola secondaria di secondo grado. Tuttavia, gli studenti con programmazione differenziata ottengono solo un attestato delle competenze, anche se sostengono l’esame calibrato sulle loro capacità. Questo documento, come ho appena ricordato, è standardizzato e non mette in evidenza né valorizza le competenze acquisite. Il risultato? Molte persone con disabilità non hanno accesso a percorsi universitari progettati su misura per loro. Altro che inclusione!

Dopo la scuola superiore, le famiglie sono ancor più abbandonate a se stesse. Si trovano a gridare nel deserto. È come abbaiare alla luna. Le uniche prospettive sono rappresentate dal confinamento dei propri figli in centri di formazione, che ricordano da vicino le vecchie scuole speciali, o in centri diurni difficilmente accessibili. Un vero fallimento.
Il Ministero per le Disabilità, anziché pensare solo ad autopromuoversi, spesso con la passiva complicità di Associazioni del tutto incapaci di incalzarlo sul terreno del rispetto dei diritti, dovrebbe riflettere su queste problematiche e agire per restituire dignità alle persone con disabilità e alle loro famiglie. Allo stesso modo, Regioni e Comuni dovrebbero tenere a mente che il loro dovere (ho detto DOVERE) è impegnarsi quotidianamente per costruire una società inclusiva e aperta, con opportunità reali e concrete per tutti.
Bisognerebbe abbattere le barriere che iniziano dai marciapiedi delle nostre città, dove i cosiddetti “normali” si voltano. Non di rado, verso noi e i nostri figli con un sorriso che ferisce.
È necessario fornire alle famiglie un supporto concreto per uscire dall’isolamento sociale. Ma questo richiede il coinvolgimento di tutti, a partire dalla prima infanzia, in un processo di crescita culturale ed emotiva. Solo così potremo sperare di costruire una società davvero inclusiva, ogni giorno dell’anno e non solo in occasione di ricorrenze e momenti simbolici che non lasciano traccia.

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A Monza “Tutti pazzi per il musical”: in scena 100 giovani con disabilità

Superando -

Il 26 gennaio al Teatro Manzoni di Monza lo show di beneficenza”Tutti pazzi per il musical”, con l’Associazione Paolo Zorzi per le Neuroscienze e la Cooperativa Il Granello Don Luigi Monza. Le donazioni contribuiranno a sostenere la ricerca scientifica in àmbito neurologico Il momento finale della rappresentazione dello spettacolo “Questo sono io”

Tutti pazzi per il musical è il titolo dello spettacolo che metteranno in scena, domenica 26 gennaio, i cento giovani con disabilità della Cooperativa monzese Il Granello Don Luigi Monza al Teatro Manzoni di Monza.
L’evento, promosso dall’Associazione Paolo Zorzi per le Neuroscienze, sarà gratuito su prenotazione e le offerte raccolte andranno a finanziare progetti per la ricerca scientifica in àmbito neurologico e neuropsichiatrico dell’IRCCS Istituto Neurologico Carlo Besta di Milano e dell’IRCCS Fondazione Don Gnocchi, i due Enti di cui l’Associazione Paolo Zorzi è storica sostenitrice.

I ragazzi e le ragazze del Granello si esibiranno in un medley dei vari musical messi in scena nell’ultimo decennio, da Pinocchio al Piccolo Principe, da Grease a The Greatest Show Man. Già nel febbraio 2023 avevano portato in tournée in Lombardia lo spettacolo Questo sono io, con grande successo di pubblico e di stampa.

L’Associazione Paolo Zorzi per le Neuroscienze, la cui sede operativa è in Via San Martino, 1 a Monza, è nata nel 1985 ed esattamente da quarant’anni, dunque, avvalendosi di un Comitato Scientifico proprio, raccoglie fondi per promuovere studi mirati all’integrazione tra la ricerca di base e l’attività clinica, in accordo con le finalità delle citate IRCCS Istituto Neurologico Carlo Besta e Fondazione Don Gnocchi.
Nello specifico i progetti riguardano le malattie neurologiche croniche accomunate dall’essere potenzialmente invalidanti e che richiedono approcci terapeutici innovativi (T.I.T.A.N.- Trattamenti Innovativi Tecnologicamente Assistiti): epilessia dell’età infantile ed adulta, tumori cerebrali, disordini del movimento (distonie) ad esordio infantile, disturbi del neurosviluppo.
La Cooperativa Sociale Il Granello Don Luigi Monza è nata invece a Cislago (Varese) nel 1987, affondando le proprie radici nell’esperienza cattolica, secondo i princìpi della promozione del valore della persona e del suo inserimento sociale nel rispetto della sua unicità. Vi si svolge attività di formazione socio educativa di inserimento lavorativo di ragazzi e adulti con disabilità fisiche e psichiche. La struttura si compone di 17 unità operative e conta più di 300 utenti. (C.C.)

Per maggiori informazioni: Gruppo Arete (servizi@gruppoarete.it). Per prenotarsi all’evento del 26 gennaio: tel. 039 5783469 – 351 0979511 – info@associazionepaolozorzi.it.

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“Più di quanto immagini”: un inno alla capacità di superare ogni limite

Superando -

Una canzone sulla disabilità, tutta “made in Friuli Venezia Giulia”, è stata presentata durante una conferenza stampa alla presenza della ministra per le Disabilità Locatelli. «Il brano vuole dimostrare che le persone con disabilità hanno le stesse aspirazioni e i medesimi diritti di tutti gli altri. È un invito a superare i pregiudizi e a costruire una società più inclusiva e solidale»  La registrazione di “Più di quanto immagini” nello studio di Andrea Rigonat a Fiumicello (Udine)

|Credi forse sia facile essere me,| svegliarsi a lottare ogni giorno per vincere,| barriere architettoniche e i giudizi della gente.| A volte pensi di valere poco o niente,|non voglio il tuo aiuto se non sono io che te lo chiedo|.
Sono alcuni versi di Più di quanto immagini, canzone tutta made in Friuli Venezia Giulia, nata dalla collaborazione tra l’Impresa Sociale Laluna di San Giovanni di Casarsa della Delizia (Pordenone) e l’Associazione L’Arte della Musica, presentata pubblicamente proprio oggi a Roma, nel corso di una conferenza stampa presso la sede dell’Ufficio di Rappresentanza della Regione Friuli Venezia Giulia, evento cui hanno partecipato tra l’altro numerose personalità istituzionali.

La canzone friulana, che vuole essere «un inno all’autodeterminazione delle persone con disabilità» e che ha già raccolto oltre 10.200 visualizzazioni sui social, YouTube e Spotify, nasce da un laboratorio creativo che ha coinvolto persone con disabilità e che ha visto la partecipazione di numerosi artisti e musicisti di spicco, tra cui Nicola Milan e Francesca Ziroldo. Il progetto musicale è sostenuto dalla Regione Friuli Venezia Giulia e la canzone è stata registrata nello studio di Andrea Rigonat a Fiumicello (Udine), lo stesso utilizzato dalla celebre cantante Elisa.
«Siamo estremamente orgogliosi di avere presentato a Roma, in una prestigiosa sede, la nostra canzone Più di quanto immagini – ha dichiarato Erika Biasutti, direttrice di Laluna, organizzazione attiva dal 1994 -. Questo progetto nasce da un percorso di crescita e di inclusione che da anni portiamo avanti a Laluna. Qui le persone con disabilità imparano l’autonomia, l’indipendenza, si allenano a vivere da soli. La musica è stata il mezzo attraverso cui abbiamo voluto dare voce a queste esperienze, a queste aspirazioni».

La conferenza stampa di Roma è stata dunque l’occasione per presentare ufficialmente il progetto e lanciare un messaggio forte a favore dell’inclusione. Vi sono intervenuti la mnistra per le Disabilità Alessandra Locatelli, la senatrice Giusy Versace, i deputati Emanuele Loperfido, Massimiliano Panizzut e Gian Antonio Girelli, Massimiliano Fedriga, presidente della Regione Friuli Venezia Giulia, l’assessore della stessa alla Salute, alle Politiche Sociali e alla Disabilità Riccardo Riccardi e Claudio Colussi, sindaco di Casarsa della Delizia.
Tra i relatori, la già citata Erika Biasutti; Vincenzo Falabella presidente nazionale della FISH (Federazione Italiana per i Diritti delle Persone con Disabilità e Famiglie) e consigliere del CNEL (Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro); Sergio Cerruti, presidente della Commissione Affari Legali e Istituzioni dell’AFI (Associazione Fonografici Italiani); Giovanna De Caro, coautrice del testo di Più di quanto immagini e componente della rete Sistema Abitare; i già menzionati Francesca Ziroldo e Nicola Milan, rispettivamete cantante e coordinatrice del laboratorio di Più di quanto immagini, la prima, compositore del brano e presidente dell’Arte della Musica il secondo; Rachele Francescutti, responsabile della comunicazione per Laluna.

«Questa canzone – ha sottolineato Francescutti – rappresenta molto più di un semplice brano musicale. È un inno alla capacità di superare ogni limite. Con questo progetto vogliamo dimostrare che la disabilità può diventare anche risorsa: ogni persona, infatti, indipendentemente dalle sue abilità, ha il diritto di esprimere se stessa e di realizzare i propri sogni». (C.C. e S.B.)

Per maggiori informazioni Michela Sovrano (michela.sovrano@gmail.com).

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