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Il 28 e 29 aprile a Roma il “Giubileo delle Persone con Disabilità”

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Il “Giubileo delle Persone con Disabilità”, evento dell’Anno Santo 2025, si terrà a Roma il 28 e 29 aprile. ​L’iniziativa, promossa dal Dicastero per l’Evangelizzazione della Curia romana, è dedicata alle persone con disabilità, ai loro familiari e amici, agli accompagnatori. ​L’obiettivo è creare un momento di inclusione e spiritualità, con un programma ricco di celebrazioni e incontri

Il Giubileo delle Persone con Disabilità, evento straordinario dell’Anno Santo 2025, si terrà a Roma il 28 e 29 aprile. ​L’iniziativa, promossa dal Dicastero per l’Evangelizzazione della Curia romana, sarà dedicata segnatamente alle persone con disabilità, ai loro familiari e amici, agli accompagnatori, con l’obiettivo di creare un momento di inclusione e spiritualità, presentando un programma ricco di celebrazioni e incontri. ​

Ogni partecipante che si è iscritto riceverà la Carta del Pellegrino, strumento digitale gratuito che consentirà l’accesso agli eventi, sconti su trasporti e alloggi e la prenotazione per il pellegrinaggio alle Porte Sante.​ Il 28 aprile, quindi, i pellegrini potranno attraversare la Porta Santa delle Basiliche Maggiori di Roma e seguire la celebrazione della Messa in Piazza San Pietro alle 17.​ Il 29 aprile, infine, l’incontro con Papa Francesco, alle 11, sarà il momento centrale, seguito da un pranzo di benvenuto e da un pomeriggio di festa nei Giardini di Castel Sant’Angelo.

«Il Giubileo delle Persone con Disabilità – sottolineano i promotori – sarà un’occasione unica per celebrare la fede e la speranza, con un inno dedicato e una preghiera ufficiale. In tal senso Roma si prepara ad accogliere migliaia di pellegrini, unendo spiritualità, inclusione e solidarietà». (C.C.)

Il vademecum. Ulteriori informazioni a questo link.

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È aperto al pubblico a Genova il laboratorio “I Pasticci della Tartaruga”

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“I Pasticci della Tartaruga” è un laboratorio di pasticceria a Genova che produce dolci senza glutine di alta qualità, realizzati da giovani adulti con disabilità cognitiva. Il progetto, promosso dalla Cooperativa  La Compagnia della Tartaruga, mira a creare opportunità di formazione e inserimento lavorativo per questi giovani, valorizzandone le capacità in un ambiente umano e professionale. «Ogni dolce rappresenta un passo verso una società più inclusiva e attenta alle diversità» Sono dolci buoni davvero per tutti quelli prodotti dal laboratorio di pasticceria I Pasticci della Tartaruga, promosso a Genova dalla Cooperativa Sociale La Compagnia della Tartaruga.
Realizzati con cura artigianale e ingredienti di alta qualità da tre giovani adulti con disabilità cognitiva – Alice (30 anni), Amina (24 anni) e Massimiliano (39 anni) – guidati dal pasticciere Michele Pietragalla, i dolci dei Pasticci della Tartaruga sono Gluten Free (“senza glutine”), creati in un laboratorio dedicato, appartenente al network Alimentazione Fuori Casa dell’AIC (Associazione Italiana Celiachia). Fatti a mano uno per uno, unici come uniche sono le persone che li producono, sono creati con ricette che nascono già di base con un basso contenuto di farina, arricchite con materie prime “pregiate” come la frutta secca.

Elemento distintivo del laboratorio di pasticceria è il forte valore sociale: nasce infatti con l’obiettivo principale di creare opportunità reali di formazione e inserimento lavorativo per giovani con disabilità cognitiva, «valorizzandone le capacità e le potenzialità, in un ambiente professionale ma profondamente umano, dove la qualità del prodotto va di pari passo con la qualità delle relazioni», come si legge in una nota della Cooperativa Sociale.

«Fare dolci buoni per tutti, partendo da chi è spesso escluso: è questa la nostra rivoluzione», afferma Enrico Pedemonte, presidente della Cooperativa La Compagnia della Tartaruga. «Con I Pasticci della Tartaruga, così come con il bed & breakfast La Sosta della Tartaruga, trasformiamo la lentezza in valore, e il lavoro in strumento di inclusione autentica. I nostri giovani, affiancati da un pasticciere esperto, producono dolci senza glutine che non sono pensati solo per chi ha un’intolleranza, ma per chiunque voglia scegliere la qualità e la cura artigianale. Ogni dolce rappresenta così un piccolo passo verso una società più inclusiva e attenta alle diversità. Perché l’inclusione può essere anche una scelta di gusto, concreta e quotidiana». (C.C.) A questo link è disponibile un testo di ulteriore approfondimento. Per altre informazioni: Ufficio Stampa Compagnia della Tartaruga (Paola Iacona), paolaiacona.comunicazione@gmail.com.

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Ma se io avessi previsto che… i Regolamenti di Contabilità contano più delle Convenzioni Internazionali!

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«Non sono giustificabili – scrive Roberto Toppoli – le prassi in vigore nei Servizi Sociali Municipali di Roma Capitale sulla gestione dei fondi per i servizi sociali. È una questione di volontà e di comprendere la specificità dei servizi erogati in favore delle persone, che non possono essere equiparati ad altre funzioni dell’Ente Locale. Qui parliamo delle vite delle persone, del loro bene-essere, del superamento delle barriere che non permettono di godere pienamente dei propri diritti»

Ma se io avessi previsto tutto questo… Da ammiratore di Francesco Guccini, avrei dovuto intitolare questo scritto L’avvelenata, visto lo stato d’animo nel quale mi trovavo nei giorni scorsi, dopo l’ennesima segnalazione, da parte del familiare di una persona con disabilità a Roma, riguardante una criticità nell’erogazione del servizio cosiddetto “domiciliare” in favore del proprio figlio.
La storia è, più o meno, sempre la stessa. La persona con disabilità porta con sé una situazione complessa, il grado di intensità assistenziale è alto, la cooperativa che eroga il servizio non è più in grado di portarlo avanti. I familiari si rivolgono, ovviamente, al Servizio Sociale Municipale chiedendo, in alternativa, l’attivazione della cosiddetta “assistenza indiretta”, ovvero l’erogazione del servizio da parte di operatore/i che la famiglia stessa cercherà, contrattualizzerà e retribuirà, rendicontando mensilmente al Municipio il quale provvederà, dopo i dovuti controlli di regolarità amministrativa, a compensare le cifre spese.
Tutto semplice? Parrebbe di sì. Non si tratta, per il Municipio, di spendere più denari, ma soltanto di imputarne la spesa in una diversa “voce economica”; infatti, non si parla più di un “servizio”, ma di un “contributo”, ripeto, a saldo invariato per il bilancio municipale.
La risposta del Servizio, però, non è così lineare: se la famiglia intende avvalersi dell’assistenza indiretta, deve “rinunciare” all’attuale servizio, il SAISH (Servizio per l’Autonomia e l’Integrazione della Persona con Disabilità), e iscriversi ad una nuova “lista di attesa” con tempi di attivazione del servizio non prevedibili.
E qui ci chiediamo dove sia la presa in carico, ovvero di chi sia la responsabilità su quanto messo in campo in favore di questa persona che, dall’oggi al domani, viene “scaricata” senza una reale motivazione.

Prima di continuare, mi si permetta una digressione su un altro argomento che non smette di indignarmi ogni volta che, per motivi professionali, mi trovo a leggere una Delibera o una Determinazione Dirigenziale, che sia regionale o comunale. Prendetene una a caso e preparatevi ad una buona mezz’oretta introduttiva dedicata ai “rimandi” ad altri atti o norme. Vi attende un florilegio di: Premesso, Visto, Tenuto conto, Preso atto, Atteso che, Considerato, Ritenuto, Dato atto, che illustra quanto di positivo e condivisibile abbiano stabilito le normative internazionali, europee, nazionali e regionali. E quando si tratta di disabilità, tra le norme richiamate, non manca mai la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità. Ma la Convenzione ONU, all’articolo 3, delinea servizi sociali che operano in tutt’altra direzione di quella alla quale ci troviamo di fronte nelle situazioni reali, come quella dalla quale abbiamo preso le mosse. Infatti, la citata Convenzione, all’articolo 3, tra i Principi generali riconosce «il rispetto per la dignità intrinseca, l’autonomia individuale – compresa la libertà di compiere le proprie scelte – e l’indipendenza delle persone». E poi afferma, all’articolo 19 (Vita indipendente ed inclusione nella società), che «le persone con disabilità abbiano la possibilità di scegliere, sulla base di eguaglianza con gli altri, il proprio luogo di residenza e dove e con chi vivere e non siano obbligate a vivere in una particolare sistemazione abitativa; che abbiano accesso ad una serie di servizi di sostegno domiciliare, residenziale o di comunità, compresa l’assistenza personale necessaria per permettere loro di vivere all’interno della comunità e di inserirvisi e impedire che esse siano isolate o vittime di segregazione; che i servizi e le strutture comunitarie destinate a tutta la popolazione siano messe a disposizione, su base di eguaglianza con gli altri, delle persone con disabilità e siano adatti ai loro bisogni».
Ma tutti questi princìpi sono resi inutili enunciazioni da regolamenti di contabilità, che si presumono invalicabili e immodificabili e consolidate prassi che al Comune di Roma si traducono in «si è sempre fatto così!». Gli uffici si barricano, cioè, dietro una presunta rigidità degli stanziamenti presenti nel bilancio e quindi nell’impossibilità di utilizzare le risorse stanziate (tornando all’esempio iniziale per il SAISH), per un diverso servizio, nel nostro caso l’assistenza indiretta.
Ma se fosse così sarebbe più opportuno, e lineare, che tutti i Premesso, Visto, Tenuto conto, Preso atto, Atteso che, Considerato, Ritenuto, Dato atto si riducessero a:
° Premesso quanto enunciato dalla Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità.
° Considerato che questa Amministrazione ritiene il Regolamento di Contabilità norma sovraordinata alle Convenzioni internazionali.
° Atteso che le nostre prassi operative sono immutabili.
° Ritenuto quindi che i diritti sanciti nelle Convenzioni internazionali non siano esigibili nel nostro Paese…
Non sarebbe più coerente con l’operato dei servizi?

Chi scrive non ritiene giustificabili le prassi attualmente in vigore nei Servizi Sociali Municipali di Roma Capitale in merito alla gestione dei fondi per i servizi sociali. Il trasferimento dei fondi all’interno dello stesso Centro di Responsabilità (o di costo) da una voce economica all’altra è operazione di estrema semplicità e anche dove si dovessero trasferire fondi tra diversi Centri di Responsabilità la necessaria variazione – si ribadisce una volta ancora, a saldo invariato -, comporterebbe solo un Atto di Giunta capitolina che le Ragionerie Municipali potrebbero effettuare con estrema semplicità.
Per quanto riguarda i tempi “tecnici”, lo ritengo un falso problema perché si potrebbero utilizzare i fondi già presenti alla voce economica del nuovo servizio, in attesa che tali fondi venissero reintegrati con il trasferimento sopra descritto.
È una questione di volontà e, a parer mio, di comprendere la specificità dei servizi erogati in favore delle persone, che non possono essere equiparati ad altre funzioni dell’Ente Locale. Qui parliamo delle vite delle persone, del loro bene-essere, del superamento delle barriere che non permettono di godere pienamente dei propri diritti. Un irrigidimento di queste procedure rappresenta plasticamente proprio quella prospettiva oppressiva del Servizio Sociale che, a livello di comunità professionale, si sta approfondendo in questi tempi così critici per il nostro sistema di welfare.
L’Ordine Nazionale degli Assistenti Sociali (CNOAS) ha aperto infatti una seria riflessione su quella che dovrebbe essere, al contrario, una prospettiva anti-oppressiva ovvero un approccio da parte dell’assistente sociale che possa rappresentare un’importante opportunità per la promozione di politiche, interventi e pratiche nei servizi sociali, autenticamente orientati a promuovere la giustizia sociale.
Il Servizio Sociale viene definito, a livello internazionale, come «disciplina e professione chiamata a promuovere la giustizia sociale e la liberazione delle persone da forme di discriminazione e oppressione, favorendo l’esigibilità e il riconoscimento dei diritti e individuando gli interventi degli assistenti sociali a livello micro e macro come inscindibili (IFSW-International Federation of Social Workers e IASSW-International Association of Schools of Social Work, 2014).
Il Codice Deontologico, nella sua versione del 2020, affronta il tema dell’oppressione in due articoli, il 28 e il 47, facendo riferimento a diversi tipi di violenza e discriminazione che la professione si impegna a contrastare, sia per focalizzare l’attenzione sul fronte organizzativo nel quale gli assistenti sociali agiscono, rischiando di partecipare alla riproduzione di forme di oppressione istituzionale. Sono i princìpi che guidano gli attuali orientamenti maggiormente condivisi nella letteratura professionale che si concentra sull’importanza di un Servizio Sociale che metta al centro la relazione di fiducia e scambio con le persone e sulla necessità di includere interventi in grado di incidere sulle strutture sociali e i processi culturali alla base delle disuguaglianze.
La letteratura empirica e l’esperienza sul campo ci mostrano, tuttavia, una realtà nei servizi piuttosto differente. Nel primo numero del 2023 della «Rivista di Servizio Sociale», Elena Allegri e Mara Sanfelice affermano: «Carenze relazionali e comunicative, frammentazione dei percorsi di cura, accesso diseguale alle risorse in diversi territori, uno storico disinvestimento nel nostro sistema di welfare sul servizio sociale, diverse criticità nella formazione di base degli assistenti sociali sembrano variabili che convergono nel compromettere la possibilità del servizio sociale di farsi agente di cambiamento sociale e struttura societaria per promuovere una società inclusiva. Il servizio sociale orientato da un approccio anti-oppressivo dovrebbe innanzitutto affrontare il modo in cui i sistemi sociali e di welfare perpetuano forme di disuguaglianza e oppressione che impattano sulla vita quotidiana delle persone e, in secondo luogo, dovrebbe attivare interventi che contribuiscano a un cambiamento positivo a vari livelli di interazione. Tale prospettiva si è sviluppata con l’obiettivo di contribuire a contrastare forme di oppressione e disuguaglianza sociale nei confronti di individui, gruppi e comunità; tuttavia, la sua traduzione in pratica incontra barriere a diversi livelli, radicate anche nei processi che influenzano la definizione del ruolo e delle funzioni degli assistenti sociali nei sistemi di welfare».

Come ho avuto modo di dire in Campidoglio il 5 febbraio scorso, in occasione di un evento sul “Budget di salute”, è necessario un profondo ripensamento del senso e del valore del Servizio Sociale alla luce delle nuove acquisizioni in campo di disabilità, nella direzione tracciata dal documento presentato dal CNOAS al recente G7 su Inclusione e Disabilità, un testo dal titolo Assistenti sociali e disabilità – La nostra posizione in dieci punti, dove si afferma, tra l’altro, che «l’assistente sociale riconosce la centralità e l’unicità della persona in ogni intervento; considera ogni individuo anche dal punto di vista biologico, psicologico, sociale, culturale e spirituale, in rapporto al suo contesto di vita e di relazione». Da queste premesse derivano, ad esempio, il passaggio dall’assistenza ai diritti, la valutazione con e non sulla persona e, in definitiva il necessario ripensamento dei servizi.

Ultimo punto che vorrei qui evidenziare – e ce ne sarebbero tanti altri che per motivi di spazio non affronteremo in questa sede – è proprio quello relativo al citato “Budget di salute” (ora “Budget di progetto”, secondo il Decreto Legislativo 62/24). Questa metodologia viene esplicitamente prevista, nella Regione Lazio, all’articolo 53, comma 5 della Legge Regionale 11/16 (Sistema integrato degli interventi e dei servizi sociali della Regione Lazio), che afferma: «La Regione, al fine di dare attuazione alle indicazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sui “determinanti sociali della salute” e alle relative raccomandazioni del 2009 […], adotta una metodologia di integrazione sociosanitaria basata su progetti personalizzati sostenuti da budget di salute, costituiti dall’insieme di risorse economiche, professionali e umane necessarie a promuovere contesti relazionali, familiari e sociali idonei a favorire una migliore inclusione sociale del soggetto assistito…» [sottolineato dell’Autore, N.d.R.]».
Se i Servizi Territoriali del Lazio avessero dato seguito a questa normativa (quindi si possono non applicare le leggi?) il problema che abbiamo presentato all’inizio non si sarebbe neanche presentato.
Quanti anni sono che si studia questa metodologia, quanti corsi di formazioni, quanti convegni, quante sperimentazioni, quanta bibliografia dobbiamo ancora leggere, per cominciare a tradurre tutta questa teoria in prassi? Fabrizio Starace nel 2011, nel libro da lui curato Manuale pratico per l’integrazione sociosanitaria. Il modello del Budget di salute, presentava nella Parte seconda le sperimentazioni positive fatte in Campania e in Friuli Venezia Giulia. Avete capito bene, nel 2011, 14 anni fa, in due Regioni erano terminate le sperimentazioni del “Budget di salute”! Per parte sua, la Regione Lazio ne ha effettuata una nell’ASL RM6, terminata, con la consegna di una relazione finale, nel gennaio 2020. Che fine ha fatto? Altri cinque anni sono passati, lasciando tutto com’era.

Non è più tempo di procrastinare, accampare scuse, scaricare la responsabilità su altri. A livello normativo, sia nazionale che regionale, appare chiaro che il “Budget di salute” rappresenta una scelta ineludibile quando si definisce un progetto personalizzato: si veda, per tutte, la Legge 77/20, il già citato Decreto Legislativo 62/24 e, per la Regione Lazio, la pure citata Legge Regionale 11/16.
In questa sede è solo il caso di riportare un paragrafo del Decreto Legislativo 62/24, la cosiddetta “Riforma della Disabilità”, dove viene detto: «Il budget di progetto è caratterizzato da flessibilità e dinamicità al fine di integrare, ricomporre, ed eventualmente riconvertire, l’utilizzo di risorse pubbliche, private ed europee». È proprio di questa flessibilità e dinamicità che c’è bisogno nei servizi territoriali di Roma Capitale, per non rendere vane le dichiarazioni di princìpi che ogni giorno sentiamo ribadire.

Ma se io avessi previsto tutto questo… Avrei scelto comunque di fare l’assistente sociale, proprio per promuovere la giustizia sociale e la liberazione delle persone da ogni forma di discriminazione e oppressione!

*Assistente sociale, consulente dell’AIPD di Roma (Associazione Italiana Persone Down), vicepresidente del Comitato I.SO.LA. (Comitato per l’Integrazione Socio-Sanitaria nella Regione Lazio). Gli interessati, come singoli o come organizzazione, a portare avanti i temi trattati nel presente contributo di riflessione, possono contattare lo stesso Comitato I.SO.LA., scrivendo a comitato.isola.lazio@gmail.com.

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Indizione, ai sensi dell’articolo 554 del decreto legislativo n. 297/1994 e dell’ordinanza ministeriale 23 febbraio 2009, n. 21, dei concorsi per titoli per l’aggiornamento e l’integrazione delle graduatorie per l’accesso ai ruoli provinciali dei...

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“For All”: un progetto per rendere Roma un modello di accessibilità e inclusione

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«Rendere la Capitale un modello di accessibilità e inclusione, soprattutto per le persone con disabilità, con l’obiettivo anche di creare un modello replicabile altrove»: punta a questo “For All – Roma una città fruibile per tutti”, progetto realizzato con il contributo del Fondo Carta Etica di UniCredit, e con la Federazione FISH quale capofila, in partenariato con l’ANFFAS Nazionale, la FAIP, Pedius, il Consorzio La Rosa Blu e MAV Formazione, che vivrà il 22 aprile il proprio lancio ufficiale, durante un evento online

Come anticipato nei giorni scorsi, riferendo della fase formativa dell’iniziativa, il 22 aprile verrà lanciato ufficialmente il progetto For All – Roma una città fruibile per tutti tramite un evento online visibile in diretta sul canale YouTube della FISH (Federazione Italiana per i Diritti delle Persone con Disabilità e Famiglie) a partire dalle 9.
Realizzato con il contributo del Fondo Carta Etica di UniCredit, For All – Roma una città fruibile per tutti ha quale capofila la FISH, in partenariato con l’ANFFAS Nazionale (Associazione Nazionale di Famiglie e Persone con Disabilità Intellettive e Disturbi del Neurosviluppo), la FAIP (Federazione delle Associazioni Italiane di Persone con Lesione al Midollo Spinale), Pedius, La Rosa Blu (Consorzio degli Enti aderenti alla rete associativa dell’ANFFAS Nazionale) e MAV Formazione. «L’obiettivo – spiegano dalla FISH – è rendere la Capitale un modello di accessibilità e inclusione, soprattutto per le persone con disabilità, tramite un’esperienza che non si fermerà ai confini di Roma, poiché l’intento è quello di creare un modello replicabile su scala nazionale, a partire appunto dalla sperimentazione romana».

«Cuore dell’iniziativa – spiegano ancora dalla Federazione – sarà la creazione di otto percorsi pienamente accessibili, collegati ai principali snodi di arrivo e ai luoghi di interesse di Roma, tra cui le Stazioni Termini e Tiburtina, gli Aeroporti di Fiumicino e Ciampino, il Colosseo, il Foro Romano, la Via Francigena e le quattro Basiliche Papali. I siti coinvolti saranno oggetto di un’attenta mappatura e analisi per garantirne la massima accessibilità, eliminando barriere architettoniche e barriere senso-percettive. Parallelamente verrà sviluppata una piattaforma digitale, composta da un sito web e da un’app mobile, che metterà a disposizione mappe interattive, informazioni sui collegamenti accessibili tra aeroporti, stazioni e luoghi sacri, e dettagli sui servizi di mobilità come navette attrezzate, trasporti pubblici e punti assistenza. L’intero progetto, dunque, sarà accompagnato da strumenti e contenuti pensati per facilitare la fruizione turistica e culturale. Guide digitali dedicate alle diverse disabilità, paline informative lungo i percorsi, video immersivi a trecentosessanta gradi per sensibilizzare il pubblico, e ulteriori attività di formazione rivolte a operatori turistici, guide, studenti e volontari, per migliorare le competenze nell’accoglienza e nella relazione con le persone con disabilità. For All, infatti, rappresenta una progettualità ampia e strutturata, che assume particolare valore in questo anno giubilare».

«Rendere accessibile e fruibile una città come Roma – sottolinea Vincenzo Falabella, presidente della FISH – significa compiere un passo concreto verso l’attuazione dei diritti delle persone con disabilità, a partire dalla mobilità, dalla cultura e dal turismo. Il progetto For All incarna pienamente la visione di un’Italia inclusiva e accessibile, che guarda con responsabilità al futuro».

«Siamo felici di poter continuare a contribuire come ANFFAS alla promozione di turismo e cultura senza barriere in un’ottica di accessibilità universale – afferma dal canto suo Roberto Speziale, presidente nazionale dell’ANFFAS – nel pieno rispetto della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità. Roma diventa così un modello a cui altre città italiane ed internazionali potranno fare riferimento ai fini della piena inclusione dei cittadini e delle cittadine con disabilità».

«Siamo da sempre vicini alle esigenze del territorio – conclude Roberto Fiorini, Regional Manager Centro Italia di UniCredit -, fornendo un contributo concreto alle necessità delle comunità in cui operiamo. Il sostegno a For All è stato possibile grazie al Progetto Carta Etica che prevede una donazione della Banca del 2 per mille per ogni acquisto effettuato da parte di clienti e dipendenti UniCredit con carte di credito “Etiche”. Con questo progetto sono stati raccolti oltre 40 milioni di euro dal 2005 per sostenere circa 1.400 iniziative di solidarietà, affrontando bisogni urgenti delle comunità, come emergenze, disabilità e supporto a bambini, donne e anziani in difficoltà». (S.B.)

Per ogni ulteriore informazione: ufficiostampa@fishonlus.it.

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“Maltrattamento istituzionale” e violazione dei diritti di persone vulnerabili

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Periodicamente gli organi d’informazione diffondono allarmanti notizie di gravi violenze contro persone che vivono nelle varie tipologie di strutture residenziali, ma molto probabilmente è solo la punta dell’iceberg di un fenomeno diffuso in maniera preoccupante, strettamente correlato con una serie di violazioni dei diritti a danno di persone con disturbi mentali, disabilità, anziane e/o vulnerabili: parte da questo assunto, per concentrarsi sul concetto di “maltrattamento istituzionale”, il presente approfondimento di Domenico Massano

Periodicamente – e anche in questi giorni, su queste stesse pagine – vengono diffuse dai mass media allarmanti notizie di gravi violenze contro le persone inserite in comunità alloggio o terapeutiche, in “repartini” ospedalieri, RSA, case famiglia… Pur senza voler fare improprie generalizzazioni, molto probabilmente si tratta solo della punta dell’iceberg di un fenomeno diffuso in maniera preoccupante, che è in continuità ed è strettamente correlato con una serie di violazioni dei diritti, di diversa forma e complessità, frequenti e a danno di molte di quelle persone con disturbi mentali, disabilità, anziane e/o vulnerabili, che vivono nelle varie tipologie di strutture residenziali (1).
Nel tentativo di affrontare tale problema nelle sue reali dimensioni, potrebbe rappresentare un’utile chiave di lettura ed analisi, sia per i singoli che per le organizzazioni, quella del “maltrattamento istituzionale”, concetto che ha iniziato ad emergere e ad essere utilizzato negli ultimi anni, soprattutto nell’àmbito dei servizi e degli interventi rivolti ai minori.
Secondo lo psichiatra Juan Luis Linares, professore all’Università Autonoma di Barcellona, si incorre nel maltrattamento istituzionale «quando le istituzioni sociali a cui è affidata l’erogazione di alcuni servizi falliscono nello svolgimento della loro missione, provocando danni alle persone alle quali dovrebbero servire». Linares ritiene che una delle principali cause all’origine del maltrattamento istituzionale sia il fatto che «le istituzioni incaricate di vigilare, prendersi cura e proteggere le persone sono allo stesso tempo le stesse incaricate di controllarle e vigilare sui loro comportamenti: comportamenti che la stessa istituzione si occupa di definire come idonei o non adatti» (2).
Attraverso il costrutto di maltrattamento istituzionale, Linares ha cercato di aprire uno sguardo critico sugli interventi, professionali e istituzionali, che non solo non rispondono ai bisogni delle persone, ma che spesso ne violano i diritti e causano sofferenze.

Restando nella sfera minorile, anche Aurea Dissegna, sociologa, docente universitaria e giudice onorario del Tribunale per Minori, si è posta l’obiettivo di porre in evidenza il tema del maltrattamento istituzionale, che ritiene sia «perpetrato, se pur non sempre consapevolmente e con effetti indiretti a volte imprevedibili, dalle stesse istituzioni preposte alla cura, protezione e tutela […]. Sono forme di maltrattamento sfuggente, difficili da riconoscere, rilevare e dimostrare, attribuibili a varie cause che possono di fatto approdare a disattesa e violazione, anche grave, di diritti e a forme di vittimizzazione secondaria. […] le sue espressioni sono identificabili a volte con azioni od omissioni di singole persone e professionisti coinvolti, altre volte, invece, le modalità possono essere di tipo più generale, dovute ai contesti, all’organizzazione, alle procedure, a competenze di più istituzioni che non si coordinano. […] Il maltrattamento istituzionale è un fenomeno subdolo e sommerso, che richiede (agli operatori ed alle organizzazioni) di averne consapevolezza, per essere preso in considerazione, analizzato, approfondito, definito e gestito» (3).
Secondo Dissegna, quindi, il maltrattamento istituzionale rappresenta l’esito di dinamiche sia di tipo organizzativo-istituzionale, sia di carattere professionale-personale, difficili da gestire, controllare e, a volte, anche dimostrare, ma, soprattutto, è un fenomeno di cui manca una piena consapevolezza individuale e collettiva, così come manca il coraggio di un’assunzione di responsabilità per svelarlo, affrontarlo ed indagarne le cause.

Entrambi questi contributi, pur riferendosi all’area minorile, non solo fanno emergere e definiscono un problema, quello del maltrattamento istituzionale, ma costituiscono un utile strumento di analisi e denuncia che dovrebbe e potrebbe essere utilizzato anche in altri contesti, come, ad esempio, per i servizi e le istituzioni rivolte a persone con disabilità, anziane o con disturbo psichico.
Provando a concentrare l’attenzione su quest’ultimo ambito, attraverso la chiave di lettura del maltrattamento istituzionale si possono evidenziare diverse forme di violenza e violazioni dei diritti poco visibili, riconoscibili e dimostrabili, spesso giustificate da necessità terapeutiche o semplicemente attuate “per il bene del paziente”, che si traducono in abusi di potere, in arbitrarietà delle decisioni, in dinieghi e/o concessioni discrezionali, in sottili manipolazioni o raggiri, in situazioni di trascuratezza…, violenze per certi aspetti più “morbide” e dissimulate che, però, fanno da substrato culturale, da terreno fertile e presupposto per la deriva verso altre ben più gravi ed esplicite. In campo psichiatrico, inoltre, il costrutto di maltrattamento istituzionale sembra, in parte, poter richiamare e riportare l’attenzione sul concetto di “crimini di pace”, introdotto da Franco Basaglia per offrire una chiave di lettura di tutte le violenze istituzionalizzate, anche quando discrete e coperte con la giustificazione di teorie scientifiche, compiute dai tecnici del sapere pratico, da quei professionisti che sono i «funzionari, consapevoli o inconsapevoli, dei crimini di pace che si perpetrano in nome dell’ideologia dell’assistenza, della cura, della tutela dei malati e dei più deboli» (4).

L’attualità di queste parole sembra confermata dalle considerazioni dello psichiatra Benedetto Saraceno che, nella sua “Ultima lezione” (5), titolata Trattare bene le persone (un’implicita denuncia dei maltrattamenti che invece subiscono), stigmatizzava le ipocrisie di una psichiatria che, dimentica del suo passato, delle sue lotte e delle sue conquiste, è tornata a mettere in campo «tutta la sua durezza, la sua disumanità, la violenza costrittiva di Diagnosi e Cura, la miseria dei suoi luoghi, l’arroganza dei suoi operatori o magari e semplicemente soltanto la loro impotenza», in un contesto in cui emerge una sorta di progressiva miopia dei diversi professionisti «che sembrano adattarsi alla paralisi dei servizi e soprattutto a quella dei propri cervelli» ed in cui «anche il bravo operatore è spesso la prima vittima del suo stesso servizio».

I servizi, le comunità terapeutiche e le varie strutture residenziali per la salute mentale vedono una presenza sempre più diffusa di personale formato e convinto – indipendentemente dal ruolo e dalla qualifica – che il proprio lavoro di cura abbia poco o nulla a che fare con l’apertura e la collaborazione con i diversi soggetti presenti sul territorio e con la garanzia dei diritti delle persone, ma che consista principalmente nel controllarle e confinarle a tempo indeterminato, concedendo diversi gradi di libertà a seconda del livello di condiscendenza terapeutica; nel convincerle dell’ineluttabilità di alcune scelte che le riguardano; nel contenerle occupate, moltiplicando attività, laboratori e gite; nel compilare test, diari, verbali, pieni di fredde valutazioni (6). «Il compito di queste figure intermedie sarà quindi quello di mistificare, attraverso il tecnicismo, la violenza, senza tuttavia modificarne la natura; facendo sì che l’oggetto di violenza si adatti alla violenza di cui è oggetto. [Lo psichiatra, lo psicoterapeuta, l’educatore, l’infermiere, …] sono i nuovi amministratori della violenza del potere… il loro compito, che viene definito terapeutico-orientativo, è quello di adattare gli individui ad accettare la loro condizione di “oggetti di violenza”, dando per scontato che l’essere oggetto di violenza sia l’unica realtà loro concessa» (7).
Quello ai “crimini di pace”, quindi, è un parallelo e un richiamo particolarmente calzante, che ricorda come nei diversi servizi, dipartimenti, istituzioni in àmbito psichiatrico (ma non solo), le persone continuino spesso ad essere «l’ultimo anello di una catena di violenze e di esclusioni [dalla famiglia, dal lavoro, dagli amici, dalla società…], di cui ci si continua ad illudere di non essere responsabili» (8).

È nuovamente «percepibile l’ombra del manicomio», come evidenzia un altro noto psichiatra, Giuseppe Tibaldi, denunciando chiaramente questo chiaro e progressivo depauperamento della cultura e delle pratiche che avevano portato alla riforma della psichiatria in Italia e alla chiusura dei manicomi, ricordando come «al primo posto venivano, senza esitazioni, i diritti fondamentali di cittadinanza dei pazienti (alla permanenza nel contesto sociale, alla formazione ed al lavoro, alla partecipazione alle scelte che li riguardavano, ecc.); al secondo posto poteva essere collocata l’attenzione alla storia personale, alla ricostruzione dei significati – personali e familiari – della follia. Il farmaco – e la cultura medicalizzante che si portava dietro – veniva per ultimo. Nella pratica quotidiana di molti servizi, ospedalieri e ambulatoriali, questa gerarchia di valori e di priorità, individuali e collettivi, sembra venuta meno (anche se sul piano dei documenti ufficiali, delle dichiarazioni programmatiche, nessuno mette in discussione i principi fondamentali della Riforma). Sarebbe semplicistico cercare un colpevole, cui addossare la responsabilità principale di questo depauperamento della cultura del disturbo mentale cui stiamo assistendo, come testimoni, e come attori diretti. Il depauperamento, però, c’è: la crescente importanza del farmaco e delle teorie biologiche che lo accompagnano […] corre parallela ad un minor interesse per la dimensione dei diritti di cittadinanza, come la casa, il lavoro, la qualità delle relazioni sociali».
Questo depauperamento culturale si accompagna, ed è strettamente collegato, alla presenza sempre più invasiva di una “cultura paternalistica” tra gli operatori della psichiatria di comunità italiana: «A un estremo, il paternalismo democratico dei professionisti che ritengono di essere coloro che meglio conoscono e tutelano i diritti fondamentali delle persone che loro si rivolgono (fidati, sono sicuro che questo è il trattamento, la psicoterapia, l’attività, il farmaco – la dose, la durata, la necessità di continuarlo – che va bene per te); all’altro estremo, il paternalismo autoritario di chi dice se non fai il depot, ti ricovero in TSO [Trattamento Sanitario Obbligatorio, N.d.R.]» (9).

Questa deriva culturale, questo paternalismo democratico/autoritario, accompagnato da una sorta di “buonismo operativo”, sono il contesto dove il maltrattamento istituzionale trova terreno fertile e in cui può facilmente camuffarsi spesso dietro specialismi, tecnicismi o ineluttabili scelte terapeutiche che possono rivelarsi uno scivoloso piano inclinato verso pericolose derive: «Che sia in nome della punizione o della riabilitazione, dell’assistenza o della cura, i crimini di pace vengono perpetrati sui più deboli, sugli inermi, secondo uno schema di violenza istituzionalizzata che si ripete […] il grado di violenza può variare a seconda dell’istituzione, della capacità di occultamento, del margine di gioco concesso» (10).
Pur senza prendere in considerazione cliniche, grandi strutture istituzionali o “repartini” ospedalieri (SPDC-Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura), anche solo guardando a circoscritti e apparentemente innocui osservatori, come quelli di piccole comunità terapeutiche in bei contesti territoriali, con personale qualificato (psichiatra, psicologi, educatori, infermieri, operatori socio sanitari), e, quindi, per molti aspetti forse, servizi “sufficientemente buoni”, si può constatare come questo, tuttavia, non impedisca che, per diverse ragioni, si verifichino casi che si potrebbero inquadrare nella cornice del maltrattamento istituzionale. Val la pena sottolineare il fatto che per quanto l’osservatorio delle piccole comunità possa sembrare ristretto quanto a numeri, offre sicuramente un quadro significativo poiché molti degli accadimenti coinvolgono, in quanto condivisi o, quanto meno, comunicati e conosciuti, dipartimenti e servizi invianti che a loro volta seguono centinaia di persone con, presumibilmente, modalità analoghe facendo emergere un modus operandi che se non è consuetudine, è quantomeno tollerato.

Sono molti gli episodi di maltrattamenti istituzionali occasionali o quotidiani di cui in questi piccoli contesti si possono raccogliere testimonianze: lasciare le persone nel letto sporco e/o bagnato per insegnare loro, magari incontinenti, a non “sporcare”; fare body shaming (ad esempio riferendosi ai “soliti ciccioni” parlando in équipe di persone con problematiche legate al peso anche a causa dei farmaci); buttare i “troppi libri” dalla mensola di un ospite perché “creano disordine”; somministrare la terapia al bisogno “alla prima parolaccia”, per sedare preventivamente ogni possibile lite; usare un linguaggio infantilizzante nel rivolgersi alle persone; minacciare l’interdizione o il TSO come strumenti per il consenso e l’obbedienza; violare la privacy, gestire discrezionalmente le risorse economiche, mentire o ingannare sulla somministrazione dei farmaci, chiamare o identificare le persone per diagnosi, piuttosto che per nome; ritardare o negare alcune comunicazione, informazioni, atti burocratici…; agire costantemente un paternalismo di cura e custodia stigmatizzante e spersonalizzante che non solo nega diritti, ma che inibisce o compromette qualsiasi percorso di emancipazione ed autodeterminazione.
Ci sono poi storie che procedono per anni, a volte nate da inserimenti forzati e involontari (o con un consenso estorto), sorta di deportazioni moderne sine die, dopo le quali si lavora (anche con colloqui psicologici, psichiatrici, educativi…) per convincere le persone che quella è la realtà più adatta per loro, l’unica consentita per il loro bene, condannandoli alla pratica quotidiana dell’intrattenimento spacciata come riabilitazione, e a una vita senza scopo, senza speranza e senza un altrove (11).

Ma il maltrattamento istituzionale passa anche da modalità di scrittura dei diari, delle comunicazioni o delle relazioni, in cui raramente sono riportati aspetti positivi, capacità e risorse, ma quasi solo difficoltà, criticità, episodi negativi, interpretazioni animate da stigma, sospetto, pregiudizi
Quello della scrittura potrebbe sembrare un elemento secondario, ma non è così, perché, come insegnava Victor Klemperer, la lingua non si limita a creare e pensare per noi, dirige anche il nostro sentire: «Le parole possono essere come minime dosi di arsenico: ingerite senza saperlo sembrano non avere alcun effetto, ma dopo qualche tempo ecco rivelarsi l’effetto tossico» (12).

Come è evidente, tutto ciò non solo va ad alimentare all’interno dei gruppi di lavoro e dei servizi alcune dinamiche che configurano maltrattamento istituzionale, ma, soprattutto, va a costruire un certo tipo di cultura di riferimento e, come argomentava Erving Goffman, «a sviluppare una teoria della natura umana [che] razionalizza le attività, provvede un mezzo sottile per mantenere la distanza sociale dagli internati, e un giudizio stereotipato su di loro, giustificando il trattamento cui sono sottoposti» (13).
Sono dinamiche e culture pervasive e invischianti, cui è difficile opporsi, facile assuefarsi, in particolare tenendo conto di alcuni meccanismi di funzionamento delle persone in gruppo, finemente analizzati da Stanley Milgram, ossia della pericolosa capacità degli individui di rinunciare alla loro morale e umanità, anzi, «della necessità di comportarsi in tal modo al momento in cui la loro personalità individuale viene incorporata in più vaste strutture istituzionali» (14).

Il maltrattamento istituzionale costituisce, in conclusione, una criticità e un campo di doverosa considerazione, approfondimento e ricerca, strettamente correlati alla dimensione del potere insito nei servizi e del rischio di un suo abuso o di un suo uso “violante”: «Le istituzioni, gli operatori, i professionisti sono chiamati a essere consapevoli di questo rischio, perché solo se consapevoli potranno non esserne sopraffatti. Il primo passo consiste nell’aver consapevolezza (da parte di istituzioni, servizi e personale) che questo rischio non residuale esiste per poter poi passar ad individuare ed elaborare possibili interventi di fronteggiamento, per riconoscerlo, riparlo e, per quanto possibile, almeno ridurlo» (15).
In preparazione alla Conferenza Nazionale del 2023, l’Ordine degli Assistenti Sociali coraggiosamente dichiarava: «Maltrattamento e violenza istituzionale, oppressione e soppressione dei diritti, sono molto più frequenti di quanto pensiamo. Noi assistenti sociali siamo parte del sistema e dobbiamo contrastare queste forme di discriminazione e di oppressione. Il tema del potere nelle professioni è spesso rimosso, ma come Ordine abbiamo deciso di accendere un faro su ciò che facciamo e soprattutto sul come. Tutti sbagliano, ma i professionisti – noi per primi – devono essere consapevoli che hanno più responsabilità di altri. La strada è ancora lunga, noi vogliamo percorrerla per migliorare e riconoscere cosa possiamo fare per essere dalla parte di chi è più debole. Speriamo di non essere i soli ad intraprendere questo percorso» (16).
Tale sincera analisi e presa di consapevolezza dovrebbe tradursi in una sollecitazione e contaminazione positiva di altri ordini, istituzioni e professionisti, in modo tale che, congiuntamente, si inizi ad analizzare e affrontare il tema del maltrattamento istituzionale nei diversi servizi e ambiti di intervento (psichiatria, persone con disabilità, anziane…), ponendosi anche una scomoda domanda, ossia se si tratti di un problema superabile o che vi è connaturato e quindi tale da richiedere un radicale cambiamento dell’intero sistema.
In questo cammino complesso e avvolto nell’oscurità dell’indifferenza e dell’inconsapevolezza, è opportuno conservare «un pensiero sensato, ed un agire ad etica minima ispirato» (17) e, soprattutto, tenere come faro le parole e i contributi sempre attuali di Basaglia: «Analizziamo pure il mondo del terrore, il mondo della violenza, il mondo dell’esclusione, se non riconosciamo che quel mondo siamo noi – poiché siamo le istituzioni, le regole, i principi, le norme, gli ordinamenti e le organizzazioni – se non riconosciamo che noi facciamo parte del mondo della minaccia e della prevaricazione da cui il malato si sente sopraffatto, non potremo capire che la crisi del malato è la nostra crisi» (18).

*Pedagogista, curatore tra l’altro, insieme a Simona Piera Franzino, della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità in CAA (Comunicazione Aumentativa Alternativa). Il presente approfondimento è già apparso in Persone e Diritti.it e viene qui ripreso, con alcuni riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.

Note:
(1) Si vedano ad esempio: M. Palma, Garante Nazionale dei diritti delle persone private della liberta, Relazione al Parlamento 2023 (e anni prec.); A Buon Diritto, Rapporto sullo stato dei diritti in Italia (Persona e disabilità – Salute mentale); B. Saraceno, I “nuovi” manicomi, 2023; Monitorare le strutture dove vivono persone con disabilità, in «Superando.it», 9 gennaio 2025.

(2) L. Linares, in Il maltrattamento istituzionale dei minorenni, Alpes Italia, 2023.
(3) A. Dissegna, Maltrattamento istituzionale, FrancoAngeli, 2022.
(4) F. Basaglia, F.O. Basaglia, Crimini di pace. Ricerche sugli intellettuali e sui tecnici come addetti all’oppressione, Einaudi, 1975.
(5) L’ultima lezione: trattare bene le persone, Lectio Magistralis di Benedetto Saraceno pronunciata a Torino il 25 gennaio 2024.
(6) M. Benasayag, Funzionare o esistere?, Vita e pensiero, 2019.
(7) F. Basaglia, Le istituzioni della violenza, in Scritti (1953-1980), Il Saggiatore, 2017.
(8) F. Basaglia, Appunti di psichiatria istituzionale, in Scritti (1953-1980) cit.
(9) G. Tibaldi, Introduzione a Indagine su un’epidemia, di R.  Whitaker, Giovanni Fioriti Editore, 2013. Si veda anche G. Tibaldi, Il gioco vale la candela?, in «Rivista Sperimentale di Freniatria», vol. CXL, n. 2, 2016.
(10) D. Di Cesare, Tortura, Bollati Boringhieri, 2016.
(11) B. Saraceno, L’ultima lezione: trattare bene le persone cit.
(12) V. Klemperer, LTI. La lingua del Terzo Reich. Taccuino di un filologo, Giuntina, 1998.
(13) E. Goffman, Asylums, Einaudi, 1961.
(14) S. Milgram, Obbedienza all’autorità, Bompiani 1975.
(15) A. Dissegna, Maltrattamento istituzionale, cit.
(16) CNOAS (Consiglio Nazionale Ordine Assistenti Sociali), Con le vittime, sempre, 2023.
(17) F. Rotelli, Quale psichiatria? Taccuino e lezioni, Alphabeta, 2020.
(18) F. Basaglia, Crisi istituzionale o crisi psichiatrica?, in Scritti (1953-1980) cit.

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“Info Point”, ovvero L’accessibilità è un diritto per tutte le persone con disabilità

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Grazie a “Info Point”, progetto dell’ANFFAS Nazionale, alcuni celebri luoghi romani di cultura hanno potuto dotarsi del bollino di “Sito Accessibile For All”, acquisendo accessibilità “universale”, non solo, quindi, legata all’abbattimento delle barriere architettoniche, ma anche di quelle senso-percettive e culturali, in piena attuazione della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità

Grazie al progetto dell’ANFFAS Nazionale (Associazione Nazionale Famiglie e Persone con Disabilità Intellettive e Disturbi del Neurosviluppo) denominato Info Point, l’accessibilità ad alcuni celebri luoghi romani di cultura diviene “universale”: non solo, quindi, abbattimento delle barriere architettoniche, ma anche di quelle senso-percettive e culturali, in piena coerenza e attuazione della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità. Si parla, in questa prima fase, della Keats and Shelley House, del Colosseo, della Domus Aurea, del Palatino, del Foro Romano, delle Industrie Fluviali, di Villa Farnesina, di Palazzo Colonna e della Galleria Colonna, oltreché di Come un Albero Museo Bistrot, di Explora-Museo dei Bambini e del Teatro Basilica.
«È grazie alla collaborazione della nostra Associazione e di tutti quei luoghi di cultura – spiegano dall’ANFFAS – che è stato possibile – nell’arco dei diciotto mesi del progetto attuato grazie ad un finanziamento avuto nell’àmbito del progetto NGEU (Next Generation EU), attraverso i fondi destinati al PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) – poter analizzare la situazione di fatto nella quale tali siti già garantivano un sufficiente grado di accessibilità, soprattutto in termini di abbattimento delle barriere architettoniche, e individuare tutte quelle azioni migliorative che, appunto, potessero loro consentire di acquisire il bollino di Sito Accessibile For All. Tutto questo si è realizzato grazie ad un selezionato gruppo di persone con disabilità intellettive e del neurosviluppo con impedimenti anche motori e di altra natura, che andando a visitare musei, teatri ecc., accompagnati da alcuni operatori nella funzione di facilitatori, si sono incaricati di individuare e suggerire tutti quegli accorgimenti che potessero, appunto, far sì che gli spazi culturali coinvolti potessero valutare di migliorare la propria accessibilità in senso “universale”. Si può affermare che i risultati abbiano superato le attese e questo anche grazie alla sensibilità e alla collaborazione dimostrata dai responsabili e dagli operatori dei siti di cultura interessati».

I risultati del progetto, dunque, sono oggi visibili a tutti e tutte all’interno di un database costruito ad hoc nel sito dedicato. Allo stesso tempo è stato predisposto un portale specifico per formare gli operatori dei luoghi di cultura sui nuovi concetti di accessibilità universale e su come introdurre ed utilizzare al meglio il linguaggio “facile da leggere e da capire” (Easy to Read) e la CAA (Comunicazione Aumentativa Alternativa), ma anche sulle modalità di accoglienza e gestione delle persone con disabilità ad alta complessità. Oggi, quindi, è disponibile un primo elenco di musei statali, musei privati e teatri le cui descrizioni, oltre alle classiche brochure cartacee o note inserite sui vari siti, sono tradotte sia in linguaggio Easy to Read che in CAA. E la citata piattaforma formativa, oltreché per gli operatori dei luoghi di cultura, si è rilevata assai utile anche per i facilitatori, per i familiari e/o volontari, e per le stesse persone con disabilità.

«Questo progetto – aggiungono dall’ANFFAS – assume particolare rilevo se si pensa che il completamento di esso è pressoché coincidente con l’avvio dell’Anno Santo e, quindi, con una imperdibile occasione per promuovere ulteriormente la cultura dell’accessibilità universale e fornire una formazione apposita sul tema di essa a tutti i soggetti interessati. Tra l’altro i luoghi di cultura la cui accessibilità è stata verificata dai nostri referenti e il cui personale abbia completato il previsto percorso formativo, possono oggi fregiarsi, come detto, del logo Sito Accessibile For All che ne attesta e garantisce la piena accessibilità. Un vero e proprio Plus che potrà essere di interesse per tutti gli altri siti sia della Capitale che delle altre città italiane». A tal proposito, l’ANFFAS Nazionale si dichiara sin da subito disponibile a collaborare con i luoghi di cultura dell’intero territorio nazionale e invita i referenti di musei, biblioteche, teatri e altre strutture culturali a contattare la propria sede nazionale (nazionale@anffas.net), «ai fini – viene detto – di rendere totalmente accessibile il nostro intero patrimonio culturale e poter esporre il logo di Sito Accessibile For All».
«Quest’ultimo – concludono dall’Associazione a proposito del logo – testimonia infatti l’impegno dei siti di interesse culturale nel promuovere e applicare concretamente i concetti dell’accessibilità universale e consentirà al pubblico di avere consapevolezza e certezza di visitare un luogo che non presenta barriere architettoniche e senso-percettive, garantendo anche il diritto alla fruizione delle relative informazioni per le persone con disabilità intellettive e del neurosviluppo e per tutti coloro che ne potranno avere indubbio beneficio. Il tutto in contesti in cui l’intero personale è adeguatamente formato e informato sulle varie forme di disabilità e sulle diverse necessità di sostegno e di relazione». (S.B.)

Per ogni ulteriore informazione: comunicazione@anffas.net.

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Sport e inclusione oltreoceano: dal Friuli Venezia Giulia a Guadalupa nei Caraibi

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Il progetto “Sports for Inclusion” ha portato giovani di tutta Europa, con e senza disabilità, a Guadalupa, nei Caraibi, per condividere un’esperienza unica tra sport acquatici e scambio culturale. La Cooperativa Sociale friulana Il Piccolo Principe ha rappresentato l’Italia in questa iniziativa, che ha puntato sull’inclusione attraverso attività sportive come il surf adattato e il kayak. L’energia del progetto continuerà a Casarsa della Delizia (Pordenone), con l’arrivo, da settembre, di volontari europei Una foto di gruppo a Guadalupa per i giovani coinvolti nel progetto internazionale “Sports for Inclusion”

All’insegna dello sport, da Casarsa della Delizia (Pordenone), in Friuli Venezia Giulia, alle spiagge della Guadalupa, nei Caraibi: protagonista di questo viaggio è stata la Cooperativa Sociale Il Piccolo Principe, che ha partecipato al progetto Sports for Inclusion, un’iniziativa finanziata dal programma europeo Erasmus+, insieme all’ANFFAS (Associazione Nazionale di Famiglie e Persone con Disabilità Intellettive e Disturbi del Neurosviluppo) e con l’Associazione Sportiva Dilettantistica Pinna Sub di San Vito al Tagliamento.

Il progetto, di cui è capofila la Fondazione ANFFAS Giulio Locatelli di Pordenone, ha permesso dunque a un piccolo gruppo di persone di vivere un’esperienza di scambio giovanile internazionale senza barriere.
Tra i partecipanti italiani, in rappresentanza del Piccolo Principe, sono partiti Angelique Manuel, educatrice del Centro Socio Occupazionale ed Enrico Cester che ha completato con successo il proprio percorso lavorativo alla “Cucina delle Fratte”. A completare la delegazione italiana, anche Daniele Furlanis, campione del mondo di nuoto pinnato, Piero Pasqualin, Sirio Brichese, Rachele Cecotto e Massimiliano Popaiz, allenatore della Nazionale Italiana di Nuoto Pinnato.
E all’iniziativa (nome completo: Sports for Inclusion – Progetto Surf & Inclusion), che si è svolta, come detto, in Guadalupa dal 16 al 23 marzo scorsi, hanno partecipato anche altri giovani provenienti da Spagna, Aruba, Guadalupa e Martinica.

L’obiettivo è stato quello di promuovere una vera inclusione, offrendo a giovani con e senza disabilità l’opportunità di condividere un’esperienza formativa e sportiva. Le attività principali si sono concentrate sugli sport acquatici, in particolare il surf adattato e il kayak, affiancate da metodologie di educazione non formale. I giovani partecipanti, di età compresa tra i 18 e i 30 anni (con accompagnatori senza limiti di età), sono stati coinvolti in un mix di attività sportive, alloggiando in riva all’oceano e godendo di un clima favorevole che ha reso l’esperienza ancora più piacevole.
«Si è trattato di un progetto che ha saputo coniugare sport, inclusione e scambio culturale, lasciando un segno tangibile nei partecipanti», ha commentato Luigi Cesarin, presidente del Piccolo Principe. E l’impegno di questa Cooperativa Sociale verso l’apertura e lo scambio continua: a partire da settembre e fino al mese di giugno del 2026, infatti, essa ospiterà due volontari europei che avranno l’opportunità di fare esperienza diretta nei diversi servizi offerti dalla realtà casarsese. (C.C.)

Per maggiori informazioni: Michela Sovrano (michela.sovrano@gmail.com).

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Il dibattito sui caregiver: considerare anche alcuni aspetti di natura molto pratica

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«Oggi – scrive Maurizio Ferrari – il tema dei caregiver familiari è giustamente sotto i riflettori e la prospettiva di giungere a una norma che ne riconosca l’imprescindibile ruolo sociale, disciplinando le indispensabili forme di tutela e di sostegno, sembra essere piuttosto concreta. E tuttavia, ho la sensazione che nel dibattito non siano considerati alcuni aspetti di natura molto pratica, ma, a mio parere, decisamente essenziali»

I caregiver familiari di persone con disabilità complesse hanno un ruolo sociale imprescindibile. Nel senso che la nostra società, semplicemente, non può farne a meno. E nessun caregiver familiare che conosco vuole abdicare a questo ruolo, ma ritiene a giusto titolo di dover essere adeguatamente riconosciuto e sostenuto.
Sono il padre di una giovane donna con autismo grave (“livello 3”, come dicono le classificazioni in vigore), che ha da poco intrapreso la strada della vita indipendente – ma con alti sostegni e protezioni – e per la quale mia moglie è stata caregiver “titolare esclusiva” per oltre 30 anni. Io ho fatto la mia parte come “caregiver di riserva”, ma il sistema retributivo che tuttora prevale nel nostro Paese ha indotto la nostra coppia genitoriale a fare una scelta quasi obbligata: papà guadagna di più, quindi lavorerà a tempo pieno; la mamma guadagna di meno, quindi lavorerà a tempo parziale per potersi dedicare alla figlia. Una scelta che ancora oggi provoca in noi dubbi e turbamenti, ma sulla quale non possiamo più fare nulla. Mia moglie si è dedicata all’impegno di cura con amore e abnegazione assoluti, nel profondo silenzio di un contesto sociale che dà per scontato ogni sforzo che un genitore può e deve produrre per il bene di un figlio con disabilità grave.
Il dibattito sulla figura del caregiver familiare è infatti molto recente, fino a una decina di anni fa non ne parlava nessuno. Nulla più che una questione privata, da risolvere nel nucleo familiare. Oggi il tema è giustamente sotto i riflettori e la prospettiva di giungere a un Disegno di Legge organico che inquadri opportunamente la figura del caregiver familiare, ne riconosca il ruolo sociale e, soprattutto, disciplini le indispensabili forme di tutela e di sostegno, sembra essere piuttosto concreta. Con tutte le cautele del caso…

Tuttavia, ho la sensazione che nel dibattito non siano considerati alcuni aspetti di natura molto pratica, ma, a mio parere, decisamente essenziali. Che ne sarà, ad esempio, di una persona che è stata caregiver per tutta la vita, o quasi, e che si ritrova oggi a essere considerata “ex caregiver”? Perché il figlio o la figlia ha intrapreso, in un modo o nell’altro, la strada della residenzialità uscendo quindi dalla convivenza con i genitori? In altri termini, i caregiver che giungono al termine del loro “servizio permanente effettivo” appena prima che una legge sancisca il giusto riconoscimento e sostegno del loro ruolo, finiranno con un pugno di mosche in mano? Continueranno a essere invisibili? Personalmente non credo che un Disegno di Legge degno di questo nome possa trascurare questo aspetto. E ho una mia idea in proposito. Ci arrivo andando un po’ in verticale nel ragionamento.
A mio parere, un corretto sistema di sostegni deve poter agire proficuamente quanto meno su due leve: conciliazione lavoro-vita-cura e tutela previdenziale.

Riguardo alla prima leva, ci sono molte cose che si possono fare: flessibilità degli orari, estensione del lavoro da remoto, job sharing, welfare contrattuale. Non mi dilungo perché in rete è possibile recuperare i materiali della normativa vigente e delle Proposte di Legge sulla figura del caregiver familiare, con tutte le ipotesi sul tavolo in tema di conciliazione lavoro-vita-cura.
Colpevolmente più scarse sono le proposte inerenti la seconda leva, ovvero la tutela previdenziale. Nella maggior parte dei casi, infatti, leggo di contributi figurativi a carico dello Stato, equiparati a quelli da lavoro domestico, nel limite complessivo di cinque anni, cumulabili a quelli eventualmente versati per attività lavorative di qualsiasi natura. Mi sembra un’ipotesi alquanto riduttiva, buona al massimo per sanare eventuali buchi contributivi.
Ma la questione è molto più complessa. Pensiamo infatti ai cosiddetti “ex caregiver” a cui facevo cenno prima, che hanno lavorato per una vita dovendosi anche prendere cura del congiunto con disabilità complessa e che non riescono ad andare in pensione anticipatamente perché la convivenza con il figlio con disabilità è appena terminata, oppure, quando ci arrivano, si ritrovano con un trattamento pensionistico da fame perché hanno sempre dovuto lavorare part-time.
So che i puristi si scandalizzeranno, perché più volte ho avvertito una sorta di rifiuto ad accostare l’impegno di cura, totalizzante e umanamente pervasivo, alla categoria del “lavoro”, ma in tutta franchezza preferisco guardare al risultato concreto, nel momento in cui questo sia in grado di dare piena dignità e tutela al caregiver o ex caregiver in questione.

In poche parole, per non escludere nessuno, ritengo che il caregiver familiare dovrebbe essere equiparato a chi svolge lavori usuranti, purché abbia svolto per almeno 10 anni (15? 20? Se ne può discutere…) l’attività di cura di una persona con disabilità grave. Come tale, il caregiver familiare avrebbe diritto alla pensione anticipata relativa appunto ai lavori usuranti: 41 anni e 10 mesi di contributi le donne, 42 anni e 10 mesi di contributi gli uomini, indipendentemente dall’età anagrafica.
Allo stesso modo, avrebbe diritto all’APE (Anticipo Pensionistico) Sociale (63 anni e 5 mesi, con almeno 30 anni di contribuzione), purché venga resa strutturale e il requisito di cura/assistenza cambi in questo modo: non più «caregiver che al momento della richiesta assistono da almeno 6 mesi il coniuge o un parente di primo grado convivente con handicap in situazione di gravità», bensì «caregiver che hanno assistito per almeno 10 anni (15? 20?) il coniuge o un parente di primo grado convivente con handicap in situazione di gravità».

Questioni venali, terra terra, dirà qualcuno. Ne siamo sicuri? Concordo sulla necessità di una presa di coscienza collettiva e di una profonda qualificazione culturale del dibattito, ma la causa dei caregiver familiari si gioca anche e soprattutto sui punti di caduta, non solo sugli inquadramenti teorici, per quanto rilevanti possano essere.
Chi è disposto a prendere in esame queste proposte? O a farne di alternative?

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Continuità di cura e strategie nei disturbi del neurosviluppo

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La SINPIA (Società Italiana di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza) ha pubblicato recentemente un documento il cui tema centrale è la continuità di cura. Pensato per milioni di bambini e adolescenti, il testo pone le basi per una riorganizzazione più equa e sostenibile dei servizi, nel rispetto del diritto alla salute e al benessere della persona lungo tutto il suo percorso di crescita evolutiva

Al centro c’è sempre la persona e il suo percorso: con il documento La continuità delle cure nei disturbi del neurosviluppo, pubblicato nel febbraio scorso, la SINPIA (Società Italiana di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza) aggiunge un tassello importante per trasformare questo principio in azioni concrete.

Il documento, che si può liberamente consultare e scaricare a questo link, elabora le linee di indirizzo clinico-organizzative per assicurare continuità di cura ai soggetti con disturbi del neurosviluppo. In sostanza, è stata elaborata una “guida” per affrontare i bisogni di milioni di bambini e adolescenti: con il 20% della popolazione infantile e adolescenziale coinvolta, è evidente, infatti, l’urgenza di un intervento su misura.

Il cuore del testo è dato da un approccio inclusivo: tutte le patologie neuropsichiatriche dell’infanzia e dell’adolescenza vengono incluse, con il paziente e le sue esigenze posti al centro del percorso di cura. Particolare attenzione è dedicata al passaggio tra i servizi per l’età evolutiva e quelli per l’età adulta, un momento cruciale spesso ostacolato da risorse limitate, burocrazia e carenze organizzative.

Per superare la frammentazione dei servizi, ridurre la cronicizzazione dei disturbi e migliorare la qualità della vita dei pazienti, nel documento della SINPIA emergono diverse soluzioni. Vengono in particolare individuate quattro fasi fondamentali per una transizione efficace: preparazione, passaggio, integrazione e monitoraggio, con il supporto di équipe specializzate e multidisciplinari. L’obiettivo è quello di un’assistenza personalizzata, adattandosi alla complessità dei disturbi nel tempo e sfruttando le finestre evolutive per massimizzare l’efficacia degli interventi.

Nel documento non solo si analizza la rilevanza epidemiologica di disturbi come quelli dello spettro autistico, ADHD (disturbo da deficit di attenzione e iperattività) e altri disturbi psichiatrici, ma si pone anche l’accento sull’importanza di un riconoscimento precoce e di interventi tempestivi, per guidarne l’evoluzione e ridurne l’impatto sociale.
A fianco delle famiglie, gli esperti evidenziano il sovraccarico dei servizi, esacerbato dalla pandemia da Covid, e invitano a una collaborazione più stretta tra le Istituzioni.

In sostanza, con questa pubblicazione la SINPIA intende offrire non solo una road map per un’assistenza più equa e sostenibile, ma anche un messaggio di speranza: il diritto alla salute e al benessere può diventare il pilastro di una società realmente inclusiva. (Carmela Cioffi)

Si ringrazia Giovanni Merlo per la segnalazione.

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Anche il “Tondo Doni” nell’audio-tour “Michelangelo audiodescritto” di Blindsight Project

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In marzo, cogliendo l’occasione del 550° anniversario dalla nascita di Michelangelo Buonarroti, l’Associazione Blindsight Project aveva reso noto di avere messo online l’audiodescrizione della “Pietà”. Ora è disponibile anche quella della “Sacra Famiglia”, opera nota anche come “Tondo Doni”. Entrambe le audiodescrizioni fanno parte dell’audio-tour “Michelangelo audiodescritto”, realizzato nell’àmbito del progetto “Talking Italy©”, promosso sempre da Blindsight Project La “Sacra Famiglia” (“Tondo Doni”) di Michelangelo

Il mese scorso avevamo dato notizia dell’inaugurazione di Michelangelo audiodescritto, iniziativa promossa dall’Associazione Blindsight Project nell’àmbito del più ampio progetto Talking Italy©. Quest’ultimo, lo ricordiamo, è un progetto ideato e portato avanti da tale Associazione, per rendere l’arte accessibile alle persone cieche e ipovedenti attraverso degli audio-tour.
Il 6 marzo scorso, dunque, cogliendo l’occasione della ricorrenza del 550° anniversario dalla nascita di Michelangelo Buonarroti (nato nel 1475 e deceduto nel 1564), Blindsight Project aveva reso noto di aver messo online l’audiodescrizione della Pietà (disponibile a questo link), il celeberrimo gruppo scultoreo ospitato presso la Basilica di San Pietro in Vaticano, che raffigura Maria (la Madonna) mentre sorregge il corpo esanime del figlio Gesù, dopo la sua passione e deposizione dalla croce. Ora segnaliamo che è divenuta disponibile online (al medesimo link) un’altra importante opera dell’artista toscano: la Sacra Famiglia, capolavoro pittorico di forma circolare, noto anche come Tondo Doni, realizzato nel 1505-1506 e ospitato dalla Galleria degli Uffizi di Firenze.
In esso i personaggi principali sono raffigurati in una sorta di posa “piramidale”, con Maria (in primo piano) seduta a terra, con le gambe piegate, che, con una torsione del busto, solleva e porge delicatamente Gesù Bambino nelle mani di San Giuseppe, posizionato dietro di lei. Sullo sfondo, distanziate e separate da un basso muretto, altre figure umane di difficile identificazione.

La Sacra Famiglia è stata audiodescritta da Laura Raffaeli, presidente di Blindsight Project, in collaborazione con Michela Calò dell’Università di Palermo, mentre la voce è di Ludovica Marineo.
Le prossime opere di Michelangelo che verranno audiodescritte dall’Associazione sono il Mosè e la Cappella Sistina.

In conclusione segnaliamo ancora una volta gli otto audio-tour realizzati sinora da Blindsight Project attraverso il progetto Talking Italy©: il Parco dei Mostri di Bomarzo, l’Antiquarium di Sutri e il Museo Colle del Duomo a Viterbo, Villa d’Este a Tivoli, il Complesso Monumentale di Sant’Agnese e Santa Costanza, la Chiesa di San Luigi dei Francesi, la Basilica di Santa Maria sopra Minerva a Roma e, infine, Michelangelo audiodescritto, che è, come detto, in fase di completamento. (Simona Lancioni)

Per ulteriori informazioni su Michelangelo audiodescritto: president@blindsight.eu.
Il presente contributo è già apparso nel sito di Informare un’h-Centro Gabriele e Lorenzo Giuntinelli di Peccioli (Pisa) e viene qui ripreso, con alcuni riadattamenti dovuti al diverso contenitore, per gentile concessione.

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Le riflessioni di una parrocchiana (con disabilità)

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«Ho 57 anni e una tetraparesi spastica dovuta ad asfissia perinatale – scrive Donata Scannavini -. Per profonde convinzioni personali frequento da sempre la parrocchia che è sempre la stessa, ma vorrei qui cercare di fare un discorso più generale, anche se di certo non esaustivo, sul rapporto tra disabilità e fede, partendo appunto dalla mia esperienza personale»

Ho 57 anni e una tetraparesi spastica dovuta ad asfissia perinatale. Per profonde convinzioni personali frequento da sempre la parrocchia che è sempre la stessa, l’Annunciazione di Milano, non avendo io mai cambiato abitazione.
Ripensando alla mia esperienza in questo àmbito, devo in primo luogo sottolineare che il fatto di essere sempre stata nella stessa parrocchia mi ha senza dubbio facilitato le cose, nel senso che la maggior parte dei parrocchiani mi conosce da sempre, mi ha vista crescere e frequentare la parrocchia stessa, prima con i miei genitori, poi da sola o con mio marito. Mi sento quindi parte della parrocchia e noto con piacere che le persone mi aiutano spontaneamente, per esempio ad entrare in Chiesa o quando devo andare a fare la Comunione.
Anche con i sacerdoti che negli anni si sono succeduti non ho avuto particolari problemi, ho avuto anche qualche incarico, nel senso che per parecchi anni ho fatto parte del Consiglio Pastorale Parrocchiale.

Da queste prime righe sembra che la mia esperienza nella Chiesa sia stata sempre idilliaca, ma non è proprio così. Specie da bambina, infatti, benché i miei genitori mi esortassero a farlo, non amavo frequentare l’oratorio, percepivo nelle altre bambine e anche un po’ nelle suore, che gestivano l’oratorio stesso, una sorta di compatimento. Non venivo realmente inserita nel gruppo, non ero partecipe dei giochi e delle attività che venivano proposte – che magari avrei potuto fare anch’io con modalità diverse – ma rimanevo ai margini, con la netta sensazione che quando e chi si rivolgeva a me lo faceva per “fare un’opera buona verso la bambina handicappata”, come si diceva a quei tempi.
La situazione è nettamente migliorata durante l’adolescenza; anche grazie a una suora molto attenta a sostenermi in un periodo per me molto difficile – a 17 anni ho perso mio papà – mi sono inserita nel gruppo giovani e lì sì che sentivo di farne davvero parte, aiutata dove avevo necessità, ma per il resto considerata come tutti gli altri.

Questa in breve è la mia esperienza di Chiesa, dove comunque ho dato per scontato che l’elemento più importante è il cammino di fede che l’appartenenza a una comunità ecclesiale permette di fare e che per me è stato ed è fondamentale.
Vorrei ora cercare di fare un discorso più generale, anche se di certo non esaustivo, sul rapporto tra disabilità e fede, partendo appunto dalla mia esperienza.

È innegabile (comunque negli anni, anche solo in vacanza, mi è capitato di frequentare altre comunità) che esista nella Chiesa una visione pietistica e inferiorizzante della disabilità e di coloro che ne sono portatori, che, a mio parere, rispecchia pari pari quella della società civile; non vedo cioè una sostanziale differenza. Magari cambiamo le modalità con cui tali visioni si giustificano e si esplicano, per cui in ambito ecclesiale, ad esempio, si vede nella persona con disabilità qualcuno predestinato (non si sa bene perché) a “portare la croce” e quindi ad essere “corredentore del mondo” con Cristo, senza neanche chiedersi se alla persona stessa stia bene esserlo o se viceversa non abbia nessuna intenzione di aderire a questo presunto piano divino.
Come nel mondo civile, però, anche in quello ecclesiale le cose stanno lentamente cambiando, banalmente anche solo per il fatto che sono sempre più numerose le persone con disabilità che frequentano gli ambienti della società civile ed ecclesiale.
Ciò che a mio parere andrebbe fatto o almeno si dovrebbe cercare di fare in àmbito ecclesiale, è portare avanti in parallelo il discorso teologico e quello pastorale. Infatti è indubbia la necessità di scalfire tutte quelle errate convinzioni, come ha sottolineato molto bene Justin Glyn nel suo saggio “Us” not “Them”. Disability and Catholic Theology and Social Teaching (“Noi”, non “loro”. Disabilità, teologia e dottrina sociale cattolica), che hanno giustificato a livello teologico questa sorta di divisione tra “noi” (senza disabilità, mi permetto di aggiungere “forse”) e “loro” (con disabilità): siamo infatti tutti immagine di Dio e la disabilità non offusca quest’immagine. A mio parere, però, è altrettanto urgente lavorare a livello pastorale e quando parlo di “livello pastorale”, non intendo solo e tanto trovare delle modalità per far partecipare tutti e tutte alla varie funzioni o al catechismo, quanto fare in modo che ognuno si senta parte attiva della comunità, che possa trovare dei propri spazi e ruoli in cui, se lo desidera, mettersi egli stesso a servizio degli altri e della comunità.
Questo, a mio parere, potrebbe avere delle ricadute anche – mi si passi l’espressione – a livello teologico; se io vedo infatti una persona con disabilità impegnata in un servizio in parrocchia secondo le proprie possibilità e capacità, mi verrà più difficile considerarla solo come “un soggetto da aiutare”, in qualche modo “diverso dagli altri”.
Il cammino da fare in questo senso è ancora lungo, ritengo però che ci siano ormai delle buone basi per arrivare anche nella Chiesa a quel definitivo “noi” che includa tutti i figli di Dio.

Ringraziamo Giovanni Merlo per la collaborazione.

Sul rapporto tra Chiesa Cattolica e Disabilità, suggeriamo la lettura di una serie di contributi da noi recentemente pubblicati, ultimo dei quali Alla teologia manca ancora il capitolo della disabilità di Ilaria Morali (a questo link), in calce al quale sono indicati anche i link ad altri precedenti testi.

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