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“Di passo in passo”: storia di vita, storia di vite

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“Di passo in passo” di Donata Scannavini è un’autobiografia che ci ricorda cosa è successo alla vita delle persone con disabilità negli ultimi decenni, nel tanto bene e anche nel tanto male. Una lettura facile, ma non banale, che permette di emozionarsi e di ragionare nello stesso tempo

Ogni vita è unica, preziosa, dignitosa e interessante. Ma non è detto che tutte le storie di vita siano altrettanti interessanti, soprattutto quando si parla di vite delle persone con disabilità o dei loro familiari.
Negli anni che abbiamo alle spalle le condizioni esistenziali sono molto cambiate: tante sono state le conquiste ottenute, sia dal punto di vista normativo, sia per quanto riguarda i supporti concreti su cui le persone con disabilità possono contare rispetto a non molti anni fa. Il risultato è che le persone con disabilità di oggi vivono di più e meglio rispetto a quelle del passato, anche se la condizione di discriminazione resta ancora evidente: le persone con disabilità, infatti, studiano e lavorano meno delle altre, sono maggiormente dipendenti dai propri familiari, hanno meno relazioni amicali e meno opportunità di partecipare alla vita sociale. In tal senso, l’obiettivo di una società accessibile e priva di stigmi e pregiudizi è così lontano che, a volte appare quasi un sogno, un’utopia.
Quella che è senz’altra cresciuta è la consapevolezza dei propri diritti e della propria dignità da parte delle stesse persone con disabilità e dei loro familiari. Una crescita di consapevolezza che riguarda anche il valore e l’importanza della propria voce, del proprio punto di vista sulla propria esistenza e anche sul mondo in cui ci si trova a vivere.
Forse, come reazione ad una società che invece fatica ancora (e molto) ad ascoltare e a dare il giusto valore alla voce delle persone con disabilità che, in questi ultimi anni, molte fra loro hanno iniziato a scrivere.
Il genere dell’autobiografia è certamente quello che raccoglie oggi il maggior numero di titoli riguardanti la disabilità: vanno forte le storie di successo, ma anche quelle di dolore e fatica o una combinazione dei due fattori, ovvero le storie di successo conseguito attraverso il dolore e la fatica.

Di passo in passo di Donata Scannavini (Armando Editore, 2024), che è certamente un’autobiografia, ha il merito di discostarsi da questo cliché: si parla di successi e fallimenti, di gioie e di dolori, di relazioni, interessi e di tanto altro ancora. Ma in fondo si tratta di situazioni ordinarie della vita comuni a gran parte delle persone: in fondo non troverete niente di “speciale”, niente di “eccezionale” e anche niente di particolarmente “coraggioso”.
Il merito di Scannavini è quello di approfittare del suo desiderio di raccontare la sua vita per ricordarci cosa sia successo alla vita delle persone con disabilità negli ultimi decenni, nel tanto bene e anche nel tanto male. Un bene e un male feriale e quotidiano che ha contrassegnato la sua esistenza come quella di milioni di altre persone con disabilità nel nostro Paese.
È un racconto che procede in ordine cronologico, facilitando quindi il compito del lettore e che, di tanto in tanto, si ferma per dare spazio a delle considerazioni di carattere generale, che aiutano a cogliere quanto questa semplice e interessante storia di vita possa aiutarci a capire quanto sia importante il punto di vista, anche nel senso del punto di osservazione, delle persone con disabilità sulla vita loro, di chi li circonda e di come funzioni la società.
Una lettura facile, ma non banale, durante la quale è possibile emozionarsi e ragionare, nello stesso tempo.

*Direttore della LEDHA (Lega per i Diritti delle Persone con Disabilità, componente lombarda della FISH-Federazione Italiana per i Diritti delle Persone con Disabilità e Famiglie).

Donata Scannavini, Di passo in passo, Armando Editore, 2024 (collana “Testimonianze”).

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Chi è malato guarisce solo se qualcuno lo abbraccia

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L’abbraccio come concetto che unisce, sostanziato nello slogan Chi è malato guarisce solo se qualcuno lo abbraccia: sono le parole chiave scelte dall’AIFO (Associazione Italiana Amici di Raoul Follereau) per la 72^ Giornata Mondiale dei malati di Lebbra del 26 gennaio, ponendo l’accento sulla centralità della persona e non della malattia e sottolineando l’importanza dell’inclusione, della cura e del sostegno per chi è malato L’immagine-simbolo scelta dall’AIFO per la 72^ Giornata Mondiale dei malati di Lebbra del 26 gennaio

L’abbraccio come concetto che unisce, sostanziato nello slogan Chi è malato guarisce solo se qualcuno lo abbraccia: sono queste le parole chiave scelte dall’AIFO (Associazione Italiana Amici di Raoul Follereau) per la 72^ Giornata Mondiale dei malati di Lebbra del 26 gennaio, ponendo l’accento sulla centralità della persona e non della malattia e sottolineando l’importanza dell’inclusione, della cura e del sostegno per chi è malato, a partire dalle persone colpite dalla lebbra e per tutti coloro che vivono ai margini.

Istituita da Raoul Follereau, la Giornata Mondiale è promossa appunto nel nostro Paese dall’AIFO, Associazione che da oltre sessant’anni è in prima linea nel mondo per la lotta alla lebbra, per garantire il diritto alla cura e all’inclusione per tutti. In occasione dell’evento, dunque, la stessa AIFO organizzerà in numerose Regioni italiane varie iniziative per informare e sensibilizzare le persone su una malattia che, pur essendo curabile, rappresenta ancora un problema sanitario importante in diversi paesi dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina, dove persistono condizioni socioeconomiche precarie che ne favoriscono la trasmissione.
Per promuovere dunque il tema del diritto alla salute globale, centinaia di volontari AIFO saranno nelle piazze e nelle parrocchie d’Italia con il Miele della solidarietà e il Kit – Stare bene è un diritto il cui ricavato finanzierà i progetti sociosanitari dell’AIFO nel mondo, e in particolare quelli per la lotta alla lebbra, oltreché per le altre malattie tropicali neglette.
Accanto all’AIFO vi saranno l’Agesci, il GI.FRA (Gioventù Francescana), il SISM (Segretariato Italiano Studenti in Medicina) e alcune Diocesi, oltre all’importante Alto Patronato del Presidente della Repubblica.

«Nonostante appaia molto distante dall’Occidente – spiegano dall’AIFO -, la lebbra esiste ancora e rimane un problema di salute pubblica in vari Paesi del mondo. Oggi si trova nella lista delle malattie tropicali neglette dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e chi ne è malato ne è ancora emblema dell’esclusione sociale, di un isolamento che spesso li condanna alla povertà e alla disabilità. Rispetto ai dati più recenti prodotti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, nel corso del 2023 erano stati registrati in totale 182.815 casi globali di lebbra con un aumento del 5% rispetto all’anno precedente. La concentrazione delle persone diagnosticate era soprattutto in India, Brasile e Indonesia e tra i nuovi casi il 5,7% erano bambini/e (minori di 15 anni), mentre il 39,9% dei casi globali si riscontravano tra le donne. Dai dati raccolti si evince che è ancora in crescita il numero delle persone che presentano gravi disabilità al momento della diagnosi: nel 2023, tra le persone diagnosticate, il 5,3 % presentavano disabilità gravi, di cui il 2,7 %, bambini/e. Ciò indica che, ancora oggi, a causa della scarsa conoscenza dei sintomi della malattia all’interno delle comunità, delle difficoltà di accesso e della carenza di qualità dei servizi di trattamento, la diagnosi avviene tardivamente e in molti casi la persona colpita dalla malattia si presenta già con disabilità fisiche irreversibili e la malattia può essersi già diffusa anche tra i contatti familiari».

«Nei progetti da noi gestiti – aggiungono dall’AIFO – seguiamo la Road Map 2021-2030 dell’Organizzazione Mondiale della Sanità per il controllo delle malattie tropicali neglette, a sua volta in linea con la Strategia Globale per l’Eliminazione della Lebbra (Towards zero leprosy, 2021-2030). Il cammino verso un mondo senza lebbra è lungo e presuppone azioni integrate verso l’obiettivo dei “Tre Zeri”, ossia zero trasmissione, zero disabilità e zero discriminazione. A questo si aggiunge l’importanza della ricerca scientifica, fondamentale per superare le lacune ancora presenti».
«Il cammino verso “zero lebbra” – conferma Giovanni Gazzoli, medico AIFO specializzato in malattie tropicali – comprende la promozione della ricerca scientifica, costruendo il consenso sulle priorità di ricerca della comunità mondiale: si veda il vaccino attualmente nell’ultima fase di sperimentazione e l’identificazione di nuovi farmaci, come il Telacebec program for leprosy sostenuto anche dall’AIFO».

«Per fermare la diffusione della malattia – sottolineano ancora dall’AIFO – e affinché l’impatto dei programmi di controllo sia duraturo, è necessario migliorare la situazione socioeconomica dei Paesi endemici attraverso un approccio globale che agisca non solo sugli aspetti sanitari, ma anche sui determinanti sociali come l’istruzione e l’occupazione stabile. Nello specifico, oltre alla sensibilizzazione e all’informazione della popolazione, promuoviamo un approccio multisettoriale che include la riabilitazione fisica e socioeconomica delle persone con una disabilità causata dalla malattia e dei loro familiari».

«L’AIFO – dichiara Antonio Lissoni, presidente dell’Associazione – lavora prevalentemente in Paesi dove non esistono diritti, figuriamoci le opportunità, ma il nostro impegno è volto a creare consapevolezza sui propri diritti, umani e sociali e a cercare con ostinata determinazione di dare vita a condizioni di crescita, di autonomia, mostrando a chi è più vulnerabile che ce la può fare. È proprio questo il significato della Giornata Mondiale del 26 gennaio: cura, ma non solo, formazione, ma non solo, soprattutto capacità di creare opportunità, perché chi non lo è mai stato possa sentirsi persona, in grado di gestire la propria vita».

«In Mozambico – concludono dall’AIFO – Stato dell’Africa classificato al 183° posto tra i 198 Paesi più poveri al mondo, abbiamo incontrato Dario, la cui vita è stata segnata dalla lebbra, perché la malattia non è solo fisica, se è vero che l’esclusione e la discriminazione causano profonde ferite nella psiche delle persone colpite. Ma Dario, fortunatamente, è stato diagnosticato per tempo e ha potuto iniziare il suo percorso di cura e di speranza grazie all’aiuto della nostra Associazione». (S.B.)

A questo link, nel sito dell’AIFA, sono presenti tutte le notizie e gli approfondimenti sulla Giornata Mondiale del 26 gennaio. Per altre informazioni: Ufficio Stampa AIFO (Simona Marotta), s.marotta@bovindo.it.

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Si è insediato il nuovo Consiglio Nazionale del Terzo Settore

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«Presieduto dalla viceministra del Lavoro e delle Politiche Sociali Bellucci, il nuovo Consiglio Nazionale del Terzo Settore, composto da 74 membri e insediatosi nei giorni scorsi, avrà quale vicepresidente, il direttore del Forum Nazionale del Terzo Settore Maurizio Mumolo. L’organismo resterà in carica per i prossimi tre anni, attraversando una fase ritenuta assolutamente cruciale per il Terzo Settore Il direttore del Forum Nazionale del Terzo Settore Maurizio Mumolo è stato eletto alla Vicepresidenza del Consiglio Nazionale del Terzo Settore

Durante la seduta di insediamento del nuovo Consiglio Nazionale del Terzo Settore, composto da 74 membri, è stato eletto all’unanimità, in qualità di vicepresidente, il direttore del Forum Nazionale del Terzo Settore Maurizio Mumolo.
«Presieduto dalla viceministra del Lavoro e delle Politiche Sociali Maria Teresa Bellucci, il nuovo Consiglio resterà in carica per i prossimi tre anni, attraversando una fase assolutamente cruciale per il Terzo Settore – commentano dal Forum – che, dopo quasi dieci anni dall’inizio del percorso di riforma, attende a breve, come ci auguriamo, il via libera dell’Unione Europea al nuovo impianto fiscale, passaggio molto delicato, che potrà comportare grandi cambiamenti nella vita delle organizzazioni, e che necessita quindi di massima attenzione e impegno. A tal proposito, anche il Consiglio Nazionale del Terzo Settore dovrà svolgere un ruolo importante».
«Auspichiamo inoltre – aggiungono dal Forum – che l’insediamento del nuovo Consiglio Nazionale del Terzo Settore – favorisca innanzitutto l’apertura di una nuova stagione di implementazione e manutenzione della riforma, ma anche l’inizio di una fase di costruzione di strumenti efficaci di sviluppo e sostegno per il Terzo Settore, alla stregua di quanto accade per altri pezzi importanti dell’economia italiana, e in grado di valorizzare il contributo insostituibile di questo comparto anche per la coesione sociale del Paese». (S.B.)

A questo link è disponibile l’elenco dei soci e degli aderenti al Forum Nazionale del Terzo Settore, tra cui anche la FISH (Federazione Italiana per i Diritti delle Persone con Disabilità e Famiglie). Per ulteriori informazioni: stampa@forumterzosettore.it.

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Lavoro e disabilità: una chimera anche per chi studia e ha un’alta formazione

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«Vorrei centrare la mia attenzione – scrive Enrichetta Alimena – sulle persone con disabilità che hanno alti livelli di formazione, ma che pure non riescono ad avere un lavoro stabile, che possa garantire loro un progetto di vita dignitoso. Una situazione non più sostenibile, perché il lavoro, un lavoro che segua le aspirazioni della persona, è l’unico strumento per un percorso di vita dignitoso»

Sulle pagine di Superando nelle ultime settimane si è sviluppato nuovamente il dibattito sul lavoro per le persone con disabilità; ricordo ad esempio l’articolo scritto da Marino Bottà, direttore generale dell’ANDEL (Agenzia Nazionale Disabilità e Lavoro) che si concentra sulle scarse opportunità lavorative per chi ha una disabilità ad alta necessità di supporto e bassi livelli di istruzione e formazione [“Lavoro e disabilità: serve un cambio totale di strategia”, N.d.R.].
Io vorrei invece spendere qui la mia attenzione sulle persone con disabilità che hanno alti livelli di formazione, ma che pure non riescono ad avere un lavoro stabile, che possa garantire loro un progetto di vita dignitoso.

Se guardiamo i dati dell’ANVUR (Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca) del 2022 abbiamo una rappresentazione chiara della situazione. Dall’anno accademico 1999-2000 il numero di studenti con disabilità è quadruplicato da 4.443 a 17.073 nell’anno accademico 2019-2020. In particolare l’81% degli studenti con DSA (disturbi specifici dell’apprendimento) risulta iscritto ad un corso di laurea triennale, contro il 63 % degli studenti con disabilità; per quanto poi riguarda le lauree magistrali e magistrali a ciclo unico, le percentuali degli studenti con DSA si fermano all’8-9% e sono invece più alte quelle degli studenti con disabilità. Gli studenti con disabilità che accedono al dottorato, infine, sono una novantina in tutta Italia.
Questi dati ci dimostrano dunque che il sistema di istruzione e formazione italiano inclusivo, pur con tutti i limiti che conosciamo, riesce ad offrire una prospettiva di futuro a tante ragazze e ragazzi con disabilità, qualcosa che solo qualche decennio fa era impensabile.
Le Università si stanno attrezzando, offrendo i supporti e gli accomodamenti ragionevoli necessari a rendere l’ambiente universitario accogliente per chi abbia a una disabilità o diverse situazioni di svantaggio.
Tutto risolto, quindi? Certo che no, ci sono ancora diverse barriere da abbattere, ma la strada è stata intrapresa con una certa convinzione e sistematicità. E penso anche alle Linee Guida da poco rese pubbliche sull’inclusione degli studenti con disabilità nelle Università [su di esse si legga un nostro ampio approfondimento a questo link, N.d.R.], dove si descrivono tutte le strategie e metodologie da mettere in campo, il monitoraggio delle barriere, la diversificazione degli strumenti e dei supporti didattici ecc.

Si fa poi riferimento al tema dell’autonomia e indipendenza delle persone con disabilità per puntare ad un percorso di vita soddisfacente, ed è qui che torniamo al tema del lavoro. Sì, perché nonostante gli alti livelli di scolarizzazione e formazione, i livelli di occupazione sono ancora molto bassi, se è vero che secondo gli ultimi dati ISTAT, solo il 32% delle persone con disabilità ha un lavoro e le donne, tanto per cambiare, sono le più penalizzate. A lavorare, infatti, sono solo il 26% delle donne, e questo anche se, come dimostrano i dati dell’ANVUR, le donne studiano di più degli uomini: ad esempio, tra il totale delle persone con disabilità che studiano in università, il 52,9% sono donne e il 47,1% uomini; per quanto poi riguarda la frequenza di Master di Primo e Secondo Livello, il 70,3% sono donne con disabilità, mentre tra gli uomini la percentuale si ferma al 29,7% e il divario tra donne e uomini con disabilità c’è anche tra chi frequenta i corsi di laurea triennale, magistrale e le scuole di specializzazione; le percentuali vanno di nuovo a vantaggio degli uomini con disabilità, solo quando si parla di dottorato. Dunque, si torna qui al tema della doppia e multipla discriminazione delle donne con disabilità.

Tornando a quel 32% di persone con disabilità occupate, il dato prodotto non distingue tra i livelli di formazione, ma non è difficile sapere quanto il lavoro, per chi ha una disabilità, se arriva, arriva molto più tardi rispetto agli atri, è precario e spesso non rispondente agli studi conseguiti.
Dobbiamo quindi lavorare tutti insieme per colmare questi divari tra donne e uomini con disabilità ma anche tra persone con disabilità che si formano, ma che non trovano uno sbocco lavorativo.
Le cause di questi divari sono tante. Prima di tutto vi è un fattore culturale che vede le persone con disabilità come “eterni bambini e ragazzi” che devono sempre imparare, e non sono mai pronte a prendersi delle responsabilità, verso se stessi e gli altri, coltivando un fenomeno di infantilizzazione davvero mortificante. In questo i giovani con disabilità pagano il pregiudizio di essere giovani, che in Italia vuol dire non crescere mai, figuriamoci se hanno una disabilità…
Ma il fatto che il problema dell’occupazione in Italia sia generale, non ci deve fornire l’alibi per non agire, perché nel caso delle persone con disabilità la situazione non è più sostenibile e di questa situazione devono essere consapevoli tutti, persone con disabilità, politici, associazioni di categoria e Terzo Settore, tenendo conto anche del fatto che molte persone con disabilità lavorano e si impegnano all’interno di Associazioni ed Enti del Terzo Settore, ma svolgono spesso attività di volontariato.
Abbiamo bisogno inoltre dell’alleanza con le Università, con il mondo della formazione e naturalmente degli enti pubblici e privati, e dobbiamo agire presto, perché le persone con disabilità non possono aspettare ancora, perché anche il loro tempo, come quello di tutti, ha un valore. Senza mai dimenticare che il lavoro, un lavoro che segua le aspirazioni della persona, è l’unico strumento per un percorso di vita dignitoso; altrimenti, quando si parla di inclusione sociale e di percorso di vita, si rischia di fare solo retorica.

*Attivista per i diritti delle persone con disabilità, docente e formatrice sui temi della disabilità e disability manager. Autrice del libro “Lotta per l’inclusione. Il movimento delle persone con disabilità negli anni Settanta in Italia”, ha realizzato due radio-documentari con Rai Radio 3 (“Il confino. Disabilità e lockdown” e “Tutto normale. Un altro sguardo sulla disabilità”). Fa parte della RIDS (Rete Italiana Disabilità e Sviluppo) ed è “esperta junior” in Cooperazione Inclusiva. Nel 2024 ha ricevuto il Premio AIFO “Donne per l’inclusione”.

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Cosa piace fare a una persona? Questa dev’essere la domanda!

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«Un vero progetto di vita – scrive Liana Cappato – deve partire da una domanda fondamentale: “Cosa piace fare a questa persona?”, “Cosa la appaga e la rende felice?”. Come non capire che la motivazione è ciò che muove ciascuno di noi, e che questo vale anche per chi ha una disabilità?» Una realizzazione grafica dedicata ai concetti di esclusione, segregazione, integrazione e inclusione

Leggendo su queste stesse pagine il recente contributo di Gianfranco Vitale sull’inclusione [“Per far sì che l’inclusione non sia solo uno slogan”, N.d.R.], non ho potuto non soffermarmi, come mi succede spesso in occasione dei suoi articoli mai banali, sui tanti spunti contenuti nell’intervento.
Sono mamma di un ragazzo autistico di 21 anni e anch’io, sebbene l’idea che mio figlio trascorra molte ore del giorno da solo in camera mi dia i brividi, penso che confinare le persone con disabilità in eventi cosiddetti “dedicati” e ristretti alimenti l’esclusione anziché contrastarla.
Proprio mentre leggevo lo scritto di Vitale, il mio telefono ha iniziato a riempirsi di notifiche: erano le mamme di un gruppo frequentato da mio figlio, Mattia. Con entusiasmo, stavano confermando la partecipazione dei loro ragazzi a una Giornata in discoteca, a loro dedicata. Si tratta di un appuntamento mensile, due ore da trascorrere nel pomeriggio a discoteca chiusa. Potranno ballare, sì, ma tra di loro, senza gli altri!
Come si può definire inclusiva una pratica del genere? Dove sta l’inclusione? Eppure, tanti accolgono queste iniziative con gioia, quasi con un senso di liberazione, mentre in realtà siamo davanti a un meccanismo perverso: chi organizza questo genere di eventi strumentalizza per altri fini (magari politici) la disperazione delle famiglie, offrendo soluzioni che non abbattono barriere, ma le rafforzano.
Invece di creare momenti davvero condivisi, dove i cosiddetti “normali” possano interagire e divertirsi con le persone con disabilità, si preferisce optare per momenti separati, che appaiono solidali, ma che in realtà alimentano l’esclusione. Siamo noi familiari, troppo spesso, a essere complici di queste dinamiche perverse. Anziché accontentarci di un sorriso effimero, dovremmo avere il coraggio di rifiutare questo genere di iniziative.
Intendiamoci: trovo che non vi sia nulla di sbagliato nel formare gruppi di persone con disabilità che condividono interessi e obiettivi comuni. Tuttavia questi obiettivi non possono essere limitati a un paio d’ore in discoteca o una giornata al luna park, camuffata da Disability Day. L’inclusione è qualcosa di ben più profondo: significa creare spazi e opportunità in cui tutti possano davvero convivere e crescere insieme.

Nella città in cui vivo sono stati messi in campo progetti e risorse alternative che hanno dimostrato quanto l’inclusione possa essere concreta e significativa. Un esempio sono le tazzine chiamate Smodellate, create da persone con disabilità. Ogni tazzina è unica, diversa dalle altre, e proprio per questa loro magnifica imperfezione sono apprezzate e vendute. I loro creatori trovano in questa attività un senso di appartenenza, perché l’inclusione vera consiste nel dare un lavoro che sia gratificante e, soprattutto, vario. Se non si persegue questo obiettivo si rischia di trasformare tutto in una monotona catena di montaggio, proprio come accadeva durante la Rivoluzione Industriale.
Mi è capitato di ascoltare persone che promuovevano progetti apparentemente inclusivi, ma che in realtà sfioravano lo sfruttamento. Una frase che mi ferisce profondamente è questa: «Se metti una persona normale a sgranare dieci chili di fagioli, si lamenterà, ma se lo fai fare a un autistico, lui non protesterà. Perfetto, cosa vogliamo di più?». Secondo questa logica aberrante, il fatto che una persona con autismo compia un’attività senza ribellarsi significherebbe che gli piace farlo. Ma com’è possibile essere d’accordo con questa idea vergognosa?
Se parliamo di “progetto di vita”, non possiamo proporre alle famiglie soluzioni standardizzate, contenitori vuoti in cui inserire i figli per condannarli a una vita monotona fatta di mansioni ripetitive, come sgranare fagioli, assemblare pezzi di protesi dentali o preparare tortellini. Un vero progetto di vita deve partire da una domanda fondamentale: «Cosa piace fare a questa persona?», «Cosa la appaga e la rende felice?». Come non capire che la motivazione è ciò che muove ciascuno di noi, e che questo vale anche per chi ha una disabilità?
Non possiamo limitarci a dire: «Lui è autistico, obbedisce, quindi tanto meglio». È inaccettabile che progetti così spersonalizzati prosciughino le risorse economiche persino delle famiglie, che spesso si trovano con le tasche vuote, ma si sentono dire: «Andrà tutto bene». Questa frase, tristemente ricorrente, non ha mai portato nulla di buono, e noi dobbiamo rimanere vigili.

Le famiglie, con figli ormai adulti, vivono nella costante ansia del futuro. Sentono il peso del tempo che passa e la paura di non essere più in grado di garantire un domani dignitoso ai propri cari. È per questo che, talvolta, accettano qualsiasi proposta, pur di vedere i loro figli fare “qualcosa”. Alla fine qualcosa ci inventeremo, diceva il titolo discutibilissimo di un libro che ho letto qualche anno fa. No: non è “qualcosa” da inventare la soluzione del problema. ma ciò che occorre trovare è la soluzione “giusta”!
Ci chiediamo mai davvero cosa vogliano fare questi ragazzi? Cosa li interessa? Quali sono le loro attitudini? Se non partiamo da queste domande, il progetto di vita sarà sempre qualcosa di imposto, e i nostri figli si troveranno a subirlo, costretti a fare attività che non li appassionano, come impastare pizze, pulire cozze o altre mansioni che possono (forse) essere utili a qualcun altro, ma non a loro.
L’esclusione, purtroppo, inizia molto presto, già dall’infanzia, e prosegue e si allarga nella società col trascorrere degli anni. È ancora vivo in molti di noi il ricordo a scuola di quell’armadietto vuoto, mentre gli altri avevano attaccati gli inviti alle feste di compleanno. È ancora viva la ferita di quelle recite in cui per nostro figlio non c’era spazio, perché sembrava rovinare il momento. È ancora vivo il ricordo di quelle gite considerate pericolose o inutili per lui.
L’inclusione vera non è solo una parola, ma un impegno che deve partire da una profonda comprensione delle persone, dei loro desideri, delle loro passioni. Perché solo così potremo costruire per loro, e con loro, un futuro che sia davvero su misura.

Abbiamo lottato invano per garantire ai nostri figli il diritto allo studio. Durante le prove INVALSI [Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema Educativo di Istruzione e di Formazione, N.d.R.] ci veniva suggerito di tenerli a casa, per non disturbare il normale svolgimento di test standardizzati che dovrebbero rappresentare la qualità della scuola italiana. Ma come si può avere un quadro completo della scuola, se dalle statistiche vengono esclusi centinaia di migliaia di studenti, compresi quelli con DSA (disturbi specifici dell’apprendimento)? Questi ultimi, pur partecipando alle prove come gli altri, non vengono considerati ai fini statistici. Ancora peggio, gli alunni con disabilità cognitiva non le sostengono affatto. Per il “signor INVALSI”, è come se non esistessero.
La normativa attuale prevede che per accedere agli studi universitari sia necessario ottenere un diploma di scuola secondaria di secondo grado. Tuttavia, gli studenti con programmazione differenziata ottengono solo un attestato delle competenze, anche se sostengono l’esame calibrato sulle loro capacità. Questo documento, come ho appena ricordato, è standardizzato e non mette in evidenza né valorizza le competenze acquisite. Il risultato? Molte persone con disabilità non hanno accesso a percorsi universitari progettati su misura per loro. Altro che inclusione!

Dopo la scuola superiore, le famiglie sono ancor più abbandonate a se stesse. Si trovano a gridare nel deserto. È come abbaiare alla luna. Le uniche prospettive sono rappresentate dal confinamento dei propri figli in centri di formazione, che ricordano da vicino le vecchie scuole speciali, o in centri diurni difficilmente accessibili. Un vero fallimento.
Il Ministero per le Disabilità, anziché pensare solo ad autopromuoversi, spesso con la passiva complicità di Associazioni del tutto incapaci di incalzarlo sul terreno del rispetto dei diritti, dovrebbe riflettere su queste problematiche e agire per restituire dignità alle persone con disabilità e alle loro famiglie. Allo stesso modo, Regioni e Comuni dovrebbero tenere a mente che il loro dovere (ho detto DOVERE) è impegnarsi quotidianamente per costruire una società inclusiva e aperta, con opportunità reali e concrete per tutti.
Bisognerebbe abbattere le barriere che iniziano dai marciapiedi delle nostre città, dove i cosiddetti “normali” si voltano. Non di rado, verso noi e i nostri figli con un sorriso che ferisce.
È necessario fornire alle famiglie un supporto concreto per uscire dall’isolamento sociale. Ma questo richiede il coinvolgimento di tutti, a partire dalla prima infanzia, in un processo di crescita culturale ed emotiva. Solo così potremo sperare di costruire una società davvero inclusiva, ogni giorno dell’anno e non solo in occasione di ricorrenze e momenti simbolici che non lasciano traccia.

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A Monza “Tutti pazzi per il musical”: in scena 100 giovani con disabilità

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Il 26 gennaio al Teatro Manzoni di Monza lo show di beneficenza”Tutti pazzi per il musical”, con l’Associazione Paolo Zorzi per le Neuroscienze e la Cooperativa Il Granello Don Luigi Monza. Le donazioni contribuiranno a sostenere la ricerca scientifica in àmbito neurologico Il momento finale della rappresentazione dello spettacolo “Questo sono io”

Tutti pazzi per il musical è il titolo dello spettacolo che metteranno in scena, domenica 26 gennaio, i cento giovani con disabilità della Cooperativa monzese Il Granello Don Luigi Monza al Teatro Manzoni di Monza.
L’evento, promosso dall’Associazione Paolo Zorzi per le Neuroscienze, sarà gratuito su prenotazione e le offerte raccolte andranno a finanziare progetti per la ricerca scientifica in àmbito neurologico e neuropsichiatrico dell’IRCCS Istituto Neurologico Carlo Besta di Milano e dell’IRCCS Fondazione Don Gnocchi, i due Enti di cui l’Associazione Paolo Zorzi è storica sostenitrice.

I ragazzi e le ragazze del Granello si esibiranno in un medley dei vari musical messi in scena nell’ultimo decennio, da Pinocchio al Piccolo Principe, da Grease a The Greatest Show Man. Già nel febbraio 2023 avevano portato in tournée in Lombardia lo spettacolo Questo sono io, con grande successo di pubblico e di stampa.

L’Associazione Paolo Zorzi per le Neuroscienze, la cui sede operativa è in Via San Martino, 1 a Monza, è nata nel 1985 ed esattamente da quarant’anni, dunque, avvalendosi di un Comitato Scientifico proprio, raccoglie fondi per promuovere studi mirati all’integrazione tra la ricerca di base e l’attività clinica, in accordo con le finalità delle citate IRCCS Istituto Neurologico Carlo Besta e Fondazione Don Gnocchi.
Nello specifico i progetti riguardano le malattie neurologiche croniche accomunate dall’essere potenzialmente invalidanti e che richiedono approcci terapeutici innovativi (T.I.T.A.N.- Trattamenti Innovativi Tecnologicamente Assistiti): epilessia dell’età infantile ed adulta, tumori cerebrali, disordini del movimento (distonie) ad esordio infantile, disturbi del neurosviluppo.
La Cooperativa Sociale Il Granello Don Luigi Monza è nata invece a Cislago (Varese) nel 1987, affondando le proprie radici nell’esperienza cattolica, secondo i princìpi della promozione del valore della persona e del suo inserimento sociale nel rispetto della sua unicità. Vi si svolge attività di formazione socio educativa di inserimento lavorativo di ragazzi e adulti con disabilità fisiche e psichiche. La struttura si compone di 17 unità operative e conta più di 300 utenti. (C.C.)

Per maggiori informazioni: Gruppo Arete (servizi@gruppoarete.it). Per prenotarsi all’evento del 26 gennaio: tel. 039 5783469 – 351 0979511 – info@associazionepaolozorzi.it.

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“Più di quanto immagini”: un inno alla capacità di superare ogni limite

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Una canzone sulla disabilità, tutta “made in Friuli Venezia Giulia”, è stata presentata durante una conferenza stampa alla presenza della ministra per le Disabilità Locatelli. «Il brano vuole dimostrare che le persone con disabilità hanno le stesse aspirazioni e i medesimi diritti di tutti gli altri. È un invito a superare i pregiudizi e a costruire una società più inclusiva e solidale»  La registrazione di “Più di quanto immagini” nello studio di Andrea Rigonat a Fiumicello (Udine)

|Credi forse sia facile essere me,| svegliarsi a lottare ogni giorno per vincere,| barriere architettoniche e i giudizi della gente.| A volte pensi di valere poco o niente,|non voglio il tuo aiuto se non sono io che te lo chiedo|.
Sono alcuni versi di Più di quanto immagini, canzone tutta made in Friuli Venezia Giulia, nata dalla collaborazione tra l’Impresa Sociale Laluna di San Giovanni di Casarsa della Delizia (Pordenone) e l’Associazione L’Arte della Musica, presentata pubblicamente proprio oggi a Roma, nel corso di una conferenza stampa presso la sede dell’Ufficio di Rappresentanza della Regione Friuli Venezia Giulia, evento cui hanno partecipato tra l’altro numerose personalità istituzionali.

La canzone friulana, che vuole essere «un inno all’autodeterminazione delle persone con disabilità» e che ha già raccolto oltre 10.200 visualizzazioni sui social, YouTube e Spotify, nasce da un laboratorio creativo che ha coinvolto persone con disabilità e che ha visto la partecipazione di numerosi artisti e musicisti di spicco, tra cui Nicola Milan e Francesca Ziroldo. Il progetto musicale è sostenuto dalla Regione Friuli Venezia Giulia e la canzone è stata registrata nello studio di Andrea Rigonat a Fiumicello (Udine), lo stesso utilizzato dalla celebre cantante Elisa.
«Siamo estremamente orgogliosi di avere presentato a Roma, in una prestigiosa sede, la nostra canzone Più di quanto immagini – ha dichiarato Erika Biasutti, direttrice di Laluna, organizzazione attiva dal 1994 -. Questo progetto nasce da un percorso di crescita e di inclusione che da anni portiamo avanti a Laluna. Qui le persone con disabilità imparano l’autonomia, l’indipendenza, si allenano a vivere da soli. La musica è stata il mezzo attraverso cui abbiamo voluto dare voce a queste esperienze, a queste aspirazioni».

La conferenza stampa di Roma è stata dunque l’occasione per presentare ufficialmente il progetto e lanciare un messaggio forte a favore dell’inclusione. Vi sono intervenuti la mnistra per le Disabilità Alessandra Locatelli, la senatrice Giusy Versace, i deputati Emanuele Loperfido, Massimiliano Panizzut e Gian Antonio Girelli, Massimiliano Fedriga, presidente della Regione Friuli Venezia Giulia, l’assessore della stessa alla Salute, alle Politiche Sociali e alla Disabilità Riccardo Riccardi e Claudio Colussi, sindaco di Casarsa della Delizia.
Tra i relatori, la già citata Erika Biasutti; Vincenzo Falabella presidente nazionale della FISH (Federazione Italiana per i Diritti delle Persone con Disabilità e Famiglie) e consigliere del CNEL (Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro); Sergio Cerruti, presidente della Commissione Affari Legali e Istituzioni dell’AFI (Associazione Fonografici Italiani); Giovanna De Caro, coautrice del testo di Più di quanto immagini e componente della rete Sistema Abitare; i già menzionati Francesca Ziroldo e Nicola Milan, rispettivamete cantante e coordinatrice del laboratorio di Più di quanto immagini, la prima, compositore del brano e presidente dell’Arte della Musica il secondo; Rachele Francescutti, responsabile della comunicazione per Laluna.

«Questa canzone – ha sottolineato Francescutti – rappresenta molto più di un semplice brano musicale. È un inno alla capacità di superare ogni limite. Con questo progetto vogliamo dimostrare che la disabilità può diventare anche risorsa: ogni persona, infatti, indipendentemente dalle sue abilità, ha il diritto di esprimere se stessa e di realizzare i propri sogni». (C.C. e S.B.)

Per maggiori informazioni Michela Sovrano (michela.sovrano@gmail.com).

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Diritti e inclusione delle persone con disabilità in una prospettiva multidisciplinare

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Laureati e professionisti che a vario titolo si occupano o intendono occuparsi della tutela dei diritti delle persone con disabilità, possono iscriversi fino al 30 gennaio al corso di perfezionamento su “Diritti e inclusione delle persone con disabilità in una prospettiva multidisciplinare”, decima edizione dell’iniziativa promossa dall’Università di Milano, avvalendosi del patrocinio della Federazione lombarda LEDHA

C’è ancora tempo fino al 30 gennaio per iscriversi alla decima edizione del corso di perfezionamento su Diritti e inclusione delle persone con disabilità in una prospettiva multidisciplinare, iniziativa tradizionalmente seguita anche sulle nostre pagine, promossa dal Dipartimento di Diritto Pubblico Italiano e Sovranazionale dell’Università di Milano, avvalendosi del patrocinio della LEDHA (Lega per i Diritti delle Persone con Disabilità, componente lombarda della FISH-Federazione Italiana per i Diritti delle Persone con Disabilità e Famiglie).

Coordinato come sempre da Giuseppe Arconzo, docente di Diritto Costituzionale presso l’Ateneo organizzatore, tale corso, lo ricordiamo intende contribuire, in un’ottica multidisciplinare, alla formazione post-universitaria dei laureati e dei professionisti che, a vario titolo, si occupano o intendono occuparsi della tutela dei diritti delle persone con disabilità. Ne sono quindi destinatari professionisti dell’àmbito socio-sanitario, operatori della Pubblica Amministrazione impegnati nel settore dei servizi sociali, aderenti ad Associazioni, Fondazioni e Organizzazioni Non Governative, avvocati, magistrati e tutti quei professionisti che, per ragioni diverse, come detto, lavorano in àmbiti legati alla disabilità. L’iniziativa è aperta altresì a tutti i laureati interessati a specializzarsi in questo settore.

Le lezioni – erogate in modalità online (piattaforma Microsoft Teams) – sono in programma dal 6 febbraio al 29 maggio prossimi (a questo link il calendario completo) e, come detto inizialmente, le domande di ammissione dovranno essere presentate entro il 30 gennaio 2025. (S.B.) 

A questo link sono disponibili tutti gli approfondimenti sul corso. Per altre informazioni: giuseppe.arconzo@unimi.it, alessandra.iona@unimi.it.

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Un manuale sull’Assistenza Personale dalla Slovenia, dove da otto anni vi è una specifica Legge Nazionale

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“Assistenza Personale. Manuale per la comprensione della Vita Indipendente”: è uno strumento prodotto dall’Associazione slovena YHD, ove si illustra il percorso che nel 2017 ha portato all’approvazione in Slovenia di una Legge nazionale che rende l’Assistenza Personale un diritto esigibile dalle persone con disabilità, con contributi che possono arrivare a coprire anche 24 ore su 24, sette giorni su sette. Una realtà che, se confrontata con quella italiana, suscita molte riflessioni Una parte della copertina in inglese del manuale realizzato dall’Associazione slovenna YHD

Si intitola Assistenza Personale. Manuale per la comprensione della Vita Indipendente, un interessante strumento prodotto dalla YHD, un’Associazione per la Teoria e la Cultura della Disabilità con sede a Lubiana, in Slovenia, i cui Autori e Autrici sono Katrin Modic, Elena Pečarič e Domen Retelj. Il Manuale è stato pubblicato nel 2023 ed è stato realizzato con un contributo dell’Unione Europea. Esso è diffuso gratuitamente ed è disponibile in inglese a questo link, mentre la versione in italiano, prodotta in modo automatico con Deepl, e dunque non verificata, è disponibile a quest’altro link.
Si tratta di uno strumento che riguardo ad alcuni aspetti presenta delle similitudini con altri testi prodotti sugli stessi argomenti, ma sotto altri profili pone in rilievo ulteriori elementi degni di nota. Proponiamo una sintesi degli aspetti più significativi.

Dopo una parte definitoria, il Manuale riassume il percorso che ha portato alla nascita del Movimento per la Vita Indipendente negli ambienti universitari degli Stati Uniti d’America, e descrive come esso si sia diffuso anche in Slovenia proprio a partire dalla scuola, visto che gli alunni e le alunne erano costretti a vivere e frequentare le lezioni in istituti separati e segreganti.
Nonostante le brutte esperienze vissute in questi istituti, i/le giovani con disabilità sloveni volevano andare all’università e vivere una vita quotidiana simile a quella dei loro coetanei senza disabilità. Tuttavia gli Autori e le Autrici evidenziano come il Movimento per la Vita Indipendente in Slovenia non sia nato da concetti o modelli provenienti dall’estero, ma dalle esperienze di vita vissuta e dai bisogni reali di persone con disabilità del territorio che avevano lasciato gli istituti e iniziato a vivere nella comunità. Solo in seguito queste persone si sono rese conto che gli studenti e le studentesse di altri Paesi stavano lottando per gli stessi diritti con le stesse convinzioni.
Nella sostanza i/le giovani con disabilità e l’Associazione YHD, che si costituì nel 1996, chiedevano che l’Assistenza Personale venisse finanziata dallo Stato in modo sistemico attraverso una Legge specifica, e che i fondi sino ad allora utilizzati per l’istituzionalizzazione venissero destinati a programmi per la Vita Indipendente e per l’alloggio fuori dagli istituti.
In tal senso, l’azione della YHD era volta ad affermare che l’Assistenza Personale è un diritto umano da garantire universalmente, e non un supporto sociale o un servizio basato sulla protezione e sulla cura.
In questa prospettiva venne realizzato un progetto sperimentale nel quale alle persone con disabilità veniva finanziata un’Assistenza Personale che copriva, se necessario, anche 24 ore su 24, sette giorni su sette. Il progetto era rivolto a giovani con disabilità dai 18 ai 35 anni, e coinvolse dapprima 15 persone, che in seguito divennero 27.

Nel 1999 venne pubblicato un Manifesto per la Vita Indipendente e tuttavia, nonostante la Slovenia avesse ratificato sin dal 24 aprile 2008 la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, che all’articolo 19 riconosce il diritto delle persone con disabilità a vivere in modo indipendente e con la stessa libertà di scelta delle persone senza disabilità, nel Paese non vi era ancora un interesse politico a codificare l’Assistenza Personale. Pertanto i/le rappresentanti della YHD hanno organizzato molte proteste e promosso campagne pubbliche di sensibilizzazione per richiedere una Legge specifica.
Tutti questi sforzi hanno fatto sì che la Legge sull’Assistenza Personale venisse finalmente approvata nel febbraio 2017 e che entrasse in vigore nel gennaio 2019. Essa riconosce alle persone con significative disabilità della Slovenia il diritto legale all’Assistenza e, di conseguenza, la possibilità di condurre una Vita Indipendente.
Il servizio viene erogato a tutte le persone con disabilità di età compresa tra i 18 e i 65 anni che necessitano di più di 30 ore di Assistenza alla settimana. Quelle che hanno iniziato ad utilizzare l’Assistenza Personale prima di compiere i 65 anni possono mantenere il servizio anche dopo tale età. Il contributo può arrivare a coprire anche un’Assistenza per 24 ore su 24, sette giorni su sette. Alla persona con disabilità, inoltre, è richiesto di assumersi la responsabilità di stipulare un regolare contratto con l’assistente personale, di gestire il rapporto di lavoro e di rivestire il ruolo di datore di lavoro.
Il 1° gennaio 2019, quando è entrata in vigore la Legge, le persone con disabilità che usufruivano dell’Assistenza Personale statale erano 311, nel dicembre 2022 erano diventate 3.970.

Prevedibilmente, il Manuale dedica molto spazio agli aspetti operativi, fornendo spesso esempi concreti e significativi. Questa parte è esposta in modo molto dettagliato. Ecco alcuni dei temi trattati: la scelta dell’assistente personale, i colloqui, la prova, l’impostazione del programma di lavoro, la formazione dell’assistente personale, la definizione di “confini” relazionali, le modalità per licenziare un assistente personale, i tipi di comportamento e gli stili di comunicazione nella gestione del rapporto con l’assistente personale, la prevenzione e risoluzione di eventuali conflitti, gli obblighi del datore di lavoro e quelli dell’assistente personale, cosa fa e cosa non fa l’assistente personale, le differenze tra l’Assistenza Personale e gli altri servizi per le persone con disabilità, la supervisione dell’Assistenza Personale ecc.
Esaminando in modo critico l’esperienza slovena, va segnalato, ad esempio, che essa prevede che per le persone con disabilità che non sono in grado di svolgere in modo autonomo questo ruolo, venga nominato «un rappresentante legale che si assuma questa responsabilità per loro conto» (così è scritto nel secondo capitolo, Fornire Assistenza Personale).
In altra parte del Manuale è indicato che «avere la capacità giuridica di fornire lavoro» è uno dei requisiti richiesti per accedere all’Assistenza Personale (l’espressione inglese legal capacity, comunemente tradotta in italiano con “capacità giuridica”, deve intendersi comprensiva sia della “capacità giuridica” che della “capacità di agire” legalmente).
La possibilità che un rappresentante legale assuma delle responsabilità per conto della persona disabile, a parere di chi scrive, è in contrasto con l’articolo 12 della citata Convenzione ONU, che vieta i regimi decisionali sostitutivi, e prevede la realizzazione di sistemi decisionali supportati. Invece, riguardo al fatto che la persona con disabilità debba avere la piena “capacità giuridica”, è importante segnalare che lo stesso articolo 12 riconosce anche alle persone con disabilità (di qualunque tipo e gravità) la stessa “capacità giuridica e di agire” riconosciuta a tutte le altre persone, e che, dunque, eventuali limitazioni di detta capacità sarebbero in contrasto con la Convenzione ONU.

Un altro esempio di aspetto molto problematico è dato dal fatto che poiché l’Assistenza Personale è finanziata dallo Stato, alla persona con disabilità è richiesto di dare per scontato che le agenzie fornitrici di Assistenza Personale, i loro coordinatori e persino il Ministero possano a volte controllare come viene gestita. In questo caso, le persone con disabilità devono condividere parti della loro vita personale.
Ulteriori criticità sono quindi evidenziate anche nel Manuale della YHD. Ad esempio, gli Autori e le Autrici ritengono che la metodologia utilizzata dalle Istituzioni per valutare il bisogno di Assistenza Personale sia inadeguata perché fa ancora riferimento al modello di disabilità – quello medico – che in realtà è già superato.
Altro esempio: è disapprovata la scelta, operata da molte persone con disabilità slovene, di assumere come assistente personale uno o più familiari, perché ritenuta in contrasto con la filosofia della Vita Indipendente che la Legge sull’Assistenza Personale ha inteso promuovere, e anche perché spesso concretizza un conflitto di interessi inaccettabile.
Un aspetto che invece appare abbastanza innovativo consiste nel fatto che, non un semplice paragrafo, ma un intero capitolo (il quinto) sia dedicato agli abusi commessi nell’àmbito dell’Assistenza Personale, illustrando i motivi per i quali le persone con disabilità vengono abusate, fornendo indicazioni per riconoscere gli abusi, soffermandosi sugli abusi commessi in famiglia e sull’intreccio esistente tra il lavoro di cura (caregiving) e la violenza nei confronti delle persone con disabilità.
Riguardo a quest’ultimo aspetto, viene riportata la storia di una donna con disabilità che ha subìto abusi sia dal padre che da uno degli operatori che le fornivano assistenza in casa, e tuttavia la narrazione non entra nel merito di tratti specifici della violenza di genere.
Interessante è anche che nel dare indicazioni su come comportarsi in caso di violenza, venga considerata pure la situazione in cui siano le persone con disabilità (o i loro familiari) ad abusare dell’assistente personale (anche in questo caso è riportata una testimonianza). Per altro il tema dell’abuso di potere e delle molestie (anche sessuali) da parte della persona con disabilità datrice di lavoro trova trattazione anche in diverse altre parti del Manuale.

Dalla lettura del Manuale emergono molteplici differenze rispetto al contesto italiano, differenze su cui, per ragioni di sintesi, non ci soffermiamo in questo spazio. Rimane però un dato oggettivo: già dal 2017 la Slovenia ha una Legge nazionale specifica che riconosce alle persone con disabilità il diritto di fruire di un’Assistenza Personale finanziata con soldi pubblici. Si tratta di un servizio che, come già segnalato, può arrivare a coprire 24 ore su 24, sette giorni su sette. Qui in Italia, invece, il finanziamento dell’Assistenza Personale è discrezionalmente erogato e disciplinato dalle Regioni, con tutte le disuguaglianze territoriali che ne conseguono e con contributi densamente più modesti che, oltretutto, non si configurano nemmeno come un diritto esigibile.
Che dire? Abbiamo molto su cui riflettere. (Simona Lancioni)

Ringraziamo l’AVI Toscana (Associazione per la Vita Indipendente della Toscana) per la segnalazione. 

Il presente contributo è già apparso nel sito di Informare un’h-Centro Gabriele e Lorenzo Giuntinelli di Peccioli (Pisa) e viene qui ripreso, con alcuni riadattamenti dovuti al diverso contenitore, per gentile concessione.

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Serve quell’emendamento al nuovo Codice della Strada, per evitare tante multe a cittadini inconsapevoli

Superando -

«Se l’AICE e la FISH non si fossero mosse subito – scrive Salvatore Nocera -, l’opinione pubblica si sarebbe resa conto di questo grave problema solo quando le prime contravvenzioni avrebbero cominciato a fioccare su cittadini e cittadine con e senza disabilità, costretti ad assumere psicofarmaci dietro prescrizione medica, ma inconsapevoli che con il nuovo Codice della Strada la loro guida è ora un reato. Data l’urgenza del caso, l’emendamento a quella norma dovrà essere proposto rapidamente»

Ho letto in Superando il dettagliato articolo di Vincenzo Falabella, presidente della FISH (Federazione Italiana per i Diritti delle Persone con Disabilità e Famiglia), intitolato Quella norma da correggere nel nuovo Codice della Strada e riguardante la recente modifica dell’articolo 187 del Codice della Strada.
Il Presidente della FISH, riprendendo e ampliando un precedente contributo di Giovanni Battista Pesce, presidente dell’AICE (Associazione italiana Contro l’Epilessia), denominato Quella norma del nuovo Codice della Strada che discrimina e pubblicato anch’esso da Superando, ha evidenziato in modo chiaro i rischi cui vanno incontro molte persone con disabilità a causa di tale modifica a quell’articolo del Codice della Strada. Esso, infatti, rispetto al Codice precedente, condanna a pene assai gravi chiunque guidi dopo avere assunto psicofarmaci (i cui contenuti sono dettagliatamente indicati nell’articolo di Falabella).
Al termine dell’illustrazione dei gravissimi rischi ai quali vanno incontro le persone con disabilità costrette ad assumere psicofarmaci dietro prescrizione medica a causa delle proprie condizioni di salute, il Presidente della FISH fa propria la proposta di un emendamento indicato nel precedente articolo dell’AICE, comunicando che la FISH stessa «muoverà formalmente i propri passi nei confronti del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti».

Data l’urgenza del caso, l’emendamento dovrebbe essere proposto per la prima Proposta di Legge utile attualmente in discussione. A seguito di conversazioni avute da chi scrive con il presidente dell’AICE Pesce, sembrerebbe che la prima di esse potesse essere la discussione riguardante la conversione in legge del cosiddetto “Decreto Milleproroghe” (Decreto Legge 202/24).
Ovviamente sarà il Governo a decidere definitivamente come risolvere il problema. Da parte mia, quale vecchio cofondatore della FISH, desidero esprimere il mio vivo senso di ringraziamento all’AICE e alla FISH per avere con urgenza sollevato questo problema, il quale sino ad oggi non mi risulta che altri organismi, quali organizzazioni di persone con disabilità o associazioni di consumatori, abbiano evidenziato pubblicamente. Né si sarebbe potuto fare appello al Garante Nazionale dei Diritti delle Persone con Disabilità di recente istituzione, poiché ancora non sono stati pubblicati i recapiti ai quali noi cittadini possiamo rivolgerci.
Questo intervento del Presidente della FISH mostra la sensibilità della Federazione nei confronti dei problemi sollevati dalle Associazioni aderenti. Inoltre, la FISH sta offrendo un servizio non solo alle persone con disabilità ad essa aderenti, ma anche a tutte le altre, nonché a tantissime persone senza disabilità, costrette ad assumere psicofarmaci dietro prescrizione medica. Si tratta in sostanza di un pubblico servizio che la Federazione sta svolgendo, proprio perché è consapevole che il citato articolo 187, così come è attualmente formulato, è palesemente, anche se involontariamente, lesivo della libertà di mobilità di tante persone, e come tale censurabile quale incostituzionale, per contrasto con l’articolo 16, comma 1 della Costituzione.
Se l’AICE e la FISH non si fossero mosse con tanta urgenza, certamente l’opinione pubblica si sarebbe resa conto di questo grave problema sociale solo quando le prime contravvenzioni avrebbero cominciato a fioccare su cittadini inconsapevoli che la loro guida, legittima e necessaria fino a qualche settimana prima, adesso è divenuta un reato.
Sono certo, come lo sono sicuramente tutti gli interessati, che a seguito dell’intervento della FISH, il Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti si adopererà con la massima urgenza per ridare serenità e tranquillità a tanti cittadini e alle loro famiglie.

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Il digitale come “guida” per l’inclusione lavorativa

Superando -

Come è connesso il digitale con il mondo del lavoro e l’accessibilità? Quali i cambiamenti in atto? E come le nuove tecnologie potranno favorire l’inserimento lavorativo delle persone con disabilità? Saranno queste alcune delle domande al centro dell’incontro “Il lavoro: digitale come driver d’inclusione lavorativa”, promosso per il 22 gennaio dall’Associazione Premio Bomprezzi-Capulli

«La rivoluzione tecnologica è da vivere come una fondamentale occasione per includere le persone con disabilità, un’integrazione attraverso servizi e prodotti pensati anche per le persone con disabilità, ma non solo. La facilità d’uso, infatti, consente l’accesso al mondo del digitale anche a chi ha un’età avanzata o poca dimestichezza con le tecnologie. Ma lo sviluppo di hi-tech accessibile necessita anche del lavoro e delle competenze delle persone con disabilità e questo apre nuovi spiragli di impieghi. Va ricordato, in tal senso, che il tasso di disoccupazione per le persone con disabilità è quasi il doppio rispetto alla media nazionale»: a dirlo è Simone Fanti, vicepresidente dell’Associazione Premio Bomprezzi-Capulli, nel presentare l’incontro denominato Il lavoro: digitale come driver d’inclusione lavorativa, promosso dalla stessa Associazione Premio Bomprezzi-Capulli per la mattinata del 22 gennaio a Milano (Villa Mirabello, Via Villa Mirabello, 6, ore 10).

Come è connesso il digitale con il mondo del lavoro e l’accessibilità? Quali i cambiamenti in atto? E come le nuove tecnologie potranno favorire l’inserimento lavorativo delle persone con disabilità? Saranno dunque queste alcune delle domande al centro del dibattito di tale incontro, durante il quale analizzare come le tecnologie digitali, a partire dall’intelligenza artificiale, possano e debbano diventare “guide di inclusione” per le persone con disabilità, soprattutto nel mondo del lavoro, dove si affacciano nuove professioni e nuove opportunità grazie anche alle più recenti normative italiane ed europee – a partire dalla Direttiva Europea sull’Accessibilità (European Accessibility Act), che entrerà in vigore dal 25 giugno prossimo – che hanno messo al centro dell’azione delle Istituzioni l’accessibilità dei prodotti e dei servizi digitali.

Ricordiamo in  conclusione che alla più recente edizione del Premio Giornalistico Bomprezzi-Capulli (la quarta), il nostro giornale Superando, che ne è media partner sin dagli esordi, ha dedicato ampio spazio nel dicembre scorso (a questo link), così come al quarto rapporto dell’Osservatorio Cittadini e disabilità, indagine dell’SWG su come sta cambiando nel tempo la percezione dell’opinione pubblica sulla disabilità, lanciato per l’occasione. (S.B.)

A questo link è disponibile il programma completo dell’incontro di Milano del 22 gennaio, a quest’altro link un testo di ulteriore approfondimento sullo stesso. Per altre informazioni: segreteria@premiobomprezzi.it.

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Una sede inaccessibile per le persone con disabilità del II Municipio di Roma

Superando -

«Diminuzione della ridistribuzione dei “Fondi Welfare”, interruzioni dei servizi di assistenza domiciliare e dei laboratori, ma anche e soprattutto il disagio procurato alla comunità delle persone con disabilità del Municipio II di Roma, una parte delle quali deve oggi fare riferimento a una sede non accessibile, decisione presa senza consultare nessuno»: lo denuncia un gruppo di utenti con disabilità e di famiglie con persone con disabilità a carico Il sito non accessibile di Via Goito a Roma cui deve fare riferimento una parte di persone con disabilità del II Municipio della Capitale

Siamo un gruppo di utenti con disabilità, e di famiglie con persone con disabilità in carico, alcuni di noi hanno familiari con disabilità motoria, sensoriale e anche anziani. Nei giorni scorsi abbiamo avuto un incontro presso la sede del II Municipio di Roma (Via Tripoli, 136; Municipio accorpato al già III), con Gianluca Bogino, assessore alle Politiche Sociali del Municipio stesso, incontro stimolato da una segnalazione di Carla Fermariello, presidente dell’XI Commissione Consiliare Permanente (Scuola) del Comune di Roma, inviata alla presidente del II Municipio Francesca Del Bello, allo stesso assessore Bogino e ad Alberto Belloni, presidente della Consulta delle Persone con Disabilità e delle Loro Famiglie del II Municipio.
Già a propria volta assessora alle Politiche Sociali nel II Municipio di Roma, Fermariello si era infatti prontamente attivata, su intervento del presidente della Consulta Regionale per i problemi della disabilità Umberto Emberti e dell’utenza territoriale, per sostenere alcune nostre istanze e discutere relativamente a una serie di problemi riscontrati in questi ultimi tempi, aggravati dalle criticità degli ultimi due mesi, quali la diminuzione della ridistribuzione dei Fondi Welfare, assegnati per fasce di età parziali, le interruzioni dei servizi di assistenza domiciliare e dei laboratori, ma anche e soprattutto per il disagio procurato alla comunità delle persone con disabilità del II Municipio, divise e in parte trasferite d’emblée, senza consultare né l’utenza, né la Consulta Cittadina né quella Regionale, presso la sede di Via Goito, 35, mentre alcuni sono rimasti nella sede territoriale di residenza in Via Tripoli, 136.
Ebbene, l’edifico di Via Goito, sito nel distretto del I Municipio, non è accessibile, non ha un portiere all’ingresso, l’ascensore non è a norma e la stanza per l’utenza è dislocata al primo piano in un vero e proprio labirinto di stanze, prima di arrivare a destinazione. Per di più lo stabile, oltre ad essere in ZTL (Zona a Traffico Limitato), è in un luogo senza appositi parcheggi né scivoli, per i cittadini e le cittadine con disabilità, tant’è che alcune persone con disabilità motoria in carrozzina sono rimaste bloccate, tra le fughe dei sanpietrini e le buche, e solo l’intervento dei passanti ha scongiurato il peggio. Altri utenti, per tornare nella propria abitazione, sono stati soccorsi dalla Croce Rossa, o hanno dovuto rincasare a piedi.
Le sedi storiche precedenti, per i servizi rivolti alle persone con disabilità, erano dislocate nel Municipio di residenza, ovvero in Via Tripoli, 136 e in Via Dire Daua, 11, disponendo di parcheggi interrati, di ascensori a noma e di posti dedicati, con l’accessibilità totale su strada. Oltretutto, per un lungo periodo e senza alcuna comunicazione agli interessati, l’utenza era stata rimbalzata nuovamente al servizio in Via Tripoli, 136, e successivamente ri-spedita in Via Goito, 35, con risvolti letteralmente disastrosi per vari motivi, anche amministrativi.

*Carla Patrizi (Ass. Altovoltaggio), carla_patrizi@virgilio.it; Giorgio De Tommaso (Associazione Mille Bambini a Via Margutta); Giorgia Mascia (Associazione Casaliò); Roberta Sibaud (Associazione Donne per la Sicurezza); Anna Consiglia Ricciardi (Associazione Ucciero); Rino Iacorossi (Associazione Harmonia); Donatella De Santis (Associazione Il Labirinto); Mirella Ciani, cittadina con disabilità; Alberto Belloni, presidente della Consulta delle Persone con Disabilità e delle Loro Famiglie del Municipio II di Roma.

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Aggiornata quella “Guida ai diritti e alle prestazioni sanitarie e sociosanitarie”

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Il Gruppo Solidarietà ha aggiornato al presente mese di gennaio la propria “Guida ai diritti e alle prestazioni sanitarie e sociosanitarie”, la cui prima parte riguarda la normativa nazionale, mentre la seconda è dedicata specificatamente alla normativa e alla regolamentazione della Regione Marche

Ben volentieri segnaliamo a Lettori e Lettrici l’aggiornamento al presente mese di gennaio di un utile strumento realizzato dal Gruppo Solidarietà, vale a dire la Guida ai diritti e alle prestazioni sanitarie e sociosanitarie (disponibile a questo link), che viene presentata così dall’organizzazione marchigiana: «Alla nostra Associazione si rivolgono spesso persone che hanno un congiunto con una malattia che produce non autosufficienza e non trovano risposte adeguate rispetto ai loro bisogni di assistenza e cura. Allo stesso modo riceviamo richiesta di informazioni da parte di Associazioni che svolgono attività di tutela. L’obiettivo di questo opuscolo è dunque quello di aiutare cittadini e associazioni a conoscere, condizione per tutelarli, i diritti in àmbito sanitario e sociosanitario».
Dopo una prima parte riguardante la normativa nazionale, la seconda parte della guida è dedicata specificatamente alla normativa e alla regolamentazione della Regione Marche. (S.B.)

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Due strumenti digitali per migliorare l’accessibilità cognitiva nei luoghi pubblici

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Continua il progetto europeo “Mind Inclusion 3.0” per migliorare l’accessibilità cognitiva nei luoghi pubblici, attraverso strumenti digitali a supporto non solo delle persone con disabilità intellettive, ma anche dei professionisti e gestori degli spazi pubblici. Due gli strumenti digitali sviluppati: una piattaforma dedicata ai professionisti del sociale e un corso online per gestori dei luoghi pubblici Partecipanti all’ultimo meeting internazionale a Valladolid, in Spagna, per il progetto “Mind Inclusion 3.0”

Continua il progetto europeo Mind Inclusion 3.0, il cui obiettivo è migliorare l’accessibilità cognitiva nei luoghi pubblici, creando strumenti digitali volti a supportare non solo le persone con disabilità intellettive, ma anche i professionisti e i gestori degli spazi pubblici. Due gli strumenti digitali sviluppati: una piattaforma dedicata ai professionisti del sociale come educatori e operatori socio-sanitari e un corso online per gestori dei luoghi pubblici.

All’interno della piattaforma digitale (Online Learning Centre) gli utenti possono trovare risorse preziose riguardo alla metodologia di inclusione delle persone con disabilità intellettiva nelle comunità, l’approfondimento del concetto di autodeterminazione nella disabilità intellettiva, come lavorare con le famiglie delle persone con disabilità e le strategie per affrontare il burnout come professionisti del sociale. Inoltre, la piattaforma offre un forum dove professionisti e famiglie possono scambiarsi informazioni e supporto, promuovendo un confronto costruttivo a livello nazionale ed europeo.
Per quanto riguarda invece il corso online, rivolto ai gestori dei luoghi pubblici, vengono fornite indicazioni pratiche su come rendere gli spazi più inclusivi sia dal punto di vista architettonico che cognitivo.
Gli argomenti trattati spaziano dall’organizzazione degli spazi (bagni, tavoli, scale) all’attenzione a elementi sensoriali come luci, odori e rumori. È interessante notare che molte delle soluzioni proposte non solo beneficiano le persone con disabilità, ma risultano utili anche per persone anziane e famiglie con bambini piccoli.

Nel panorama europeo dedicato all’inclusione delle persone con disabilità, il progetto Mind Inclusion 3.0 rappresenta un importante passo avanti, consolidando e ampliando le iniziative precedentemente avviate nel 2018 con Mind Inclusion 2.0 e già approfondite nel 2022 e nel 2023 su questo giornale.
Un aspetto fondamentale di Mind Inclusion 3.0 è la metodologia di co-partecipazione che ha caratterizzato lo sviluppo dei materiali. Professionisti e gestori hanno avuto infatti la possibilità di esprimere i propri bisogni e contribuire alla valutazione delle piattaforme digitali, garantendo così una maggiore efficacia e rilevanza degli strumenti creati. Attualmente, il progetto si sta avviando verso una fase di test, coinvolgendo i due gruppi target per verificare l’efficacia degli strumenti finalizzati, già disponibili in quattro lingue: inglese, italiano, romeno e spagnolo.

«Il successo di Mind Inclusion 3.0 – sottolineano dalla Cooperativa Margherita, partner anche di questa versione del progetto – è il risultato di una collaborazione sinergica tra diversi Enti. Un particolare riconoscimento va a Polibienestar, capofila del progetto, ai partner operativi, che oltre alla noistra Cooperativa Sociale, sono la Fundaciòn Intras e Pro Act Suport, per il coinvolgimento di professionisti e gestori con l’attuazione della metodologia di co-partecipazione attraverso la raccolta dati utili al progetto, oltreché a Social IT Srl, come partner tecnico per lo sviluppo delle piattaforme, e a Confartigianato Vicenza, per il lavoro di comunicazione e disseminazione del progetto». (C.C.)

Per maggiori informazioni: Niccolò Pellegrini (niccolo.pellegrini@cooperativamargherita.org).

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Se la disperazione diventa un mercato: terapie ingannevoli e autismo

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Continuano ad emergere casi di genitori che, sopraffatti dalla disperazione, cadono vittime di percorsi alternativi e truffe in cerca di cure e soluzioni per l’autismo. Ringraziamo dunque con particolare calore Marie Helene Benedetti, presidente dell’Associazione Asperger Autismo, per il presente approfondimento, mirabile guida pratica che fornisce alle famiglie strumenti utili a riconoscere e ad evitare pratiche ingannevoli

Lanciare un allarme su un fenomeno tanto pericoloso quanto preoccupante è oggi più che mai necessario. Nonostante gli sforzi della nostra Associazione [Asperger Abruzzo, N.d.R.] per diffondere informazioni corrette e affidabili, continuano ad emergere numerosi casi di genitori che, sopraffatti dalla disperazione, cadono vittime di percorsi alternativi e truffe in cerca di cure e soluzioni per l’autismo. Questo problema non è solo preoccupante: ha risvolti etici e rappresenta un attacco diretto alla dignità e al benessere delle famiglie, sfruttando la loro vulnerabilità per meri scopi di lucro.
La cattiva informazione, spesso amplificata dalla rete e dal passaparola, diventa un’arma nelle mani di chi specula sulla sofferenza e sull’incertezza di chi cerca risposte. Le false promesse di “cure miracolose” non solo portano a ingenti perdite economiche, ma infliggono un danno ancora più grave: il tempo sottratto ai bambini, che potrebbero invece beneficiare di interventi scientificamente validati. Ancora peggio, alcune di queste pseudo-terapie si rivelano dannose, mettendo in serio pericolo la salute e il futuro dei più piccoli.
L’autismo non è una malattia, è una condizione complessa che richiede interventi basati su solide prove scientifiche per offrire il miglior supporto possibile alle persone nello spettro e alle loro famiglie. Permettere che truffatori senza scrupoli si approfittino della fragilità dei genitori non è solo irresponsabile: è inaccettabile. Distinguere tra supporto serio e pratiche ingannevoli è una priorità che coinvolge tutti noi.
Per combattere questa piaga, abbiamo deciso di raccogliere e condividere informazioni chiare e approfondite sui trattamenti ingannevoli più comuni, analizzando i loro rischi e fornendo strumenti per riconoscere ed evitare pratiche ingannevoli. Vogliamo aiutare le famiglie a fare scelte consapevoli, proteggendo sia la loro serenità che il benessere dei loro bambini.
In questo approfondimento esamineremo dunque in dettaglio alcuni dei trattamenti ingannevoli più diffusi, confrontandoli con le prove scientifiche disponibili. Il nostro obiettivo è offrire una sorta di guida pratica per orientarsi in un panorama complesso e spesso insidioso, garantendo alle famiglie il supporto necessario per evitare errori che porterebbero perdite di tempo prezioso, danni economici e conseguenze devastanti.

Terapia chelante o chelazione
La chelazione è un trattamento medico sviluppato per trattare l’avvelenamento da metalli pesanti la cui esistenza deve essere provata dal laboratorio con analisi del sangue. Questo processo utilizza agenti chimici specifici che si legano ai metalli nel sangue, permettendo loro di essere parzialmente eliminati attraverso l’urina.
Sebbene la chelazione possa essere efficace per il trattamento di avvelenamenti acuti o cronici, l’applicazione di essa come trattamento per l’autismo è scientificamente infondata. Ad oggi, infatti, nessun chelante è stato approvato per il trattamento dell’autismo, e l’uso di tale pratica per questa condizione non ha alcun supporto nella letteratura medica.
L’idea errata alla base di questa pratica è che l’autismo sia causato da “tossine” o metalli pesanti accumulati nell’organismo a causa delle vaccinazioni. Tuttavia, non esistono prove scientifiche che supportino questa teoria. Studi condotti su bambini nello spettro autistico non hanno mostrato livelli di metalli pesanti superiori rispetto alla popolazione generale, escludendo così la possibilità che l’autismo sia causato da una contaminazione tossica. Perciò, l’uso della chelazione per trattare l’autismo non ha alcuna giustificazione.
Piuttosto che portare benefìci, invece, la chelazione può risultare estremamente dannosa. Oltre infatti a eliminare i metalli pesanti, il trattamento rimuove anche minerali essenziali come calcio, magnesio e zinco, con conseguenze gravi per la salute, tra cui danni ai reni, alterazioni cardiovascolari, squilibri elettrolitici e, in casi estremi, rischio di morte. Questo trattamento, oltre a essere inefficace, comporta pertanto anche un alto rischio di effetti collaterali dannosi.
Inoltre, la chelazione sottrae risorse economiche e tempo che potrebbero essere meglio investiti in terapie valide, supportate da prove scientifiche, e che abbiano un impatto positivo sul benessere del bambino.
L’adozione di trattamenti non validati come la chelazione rappresenta un esempio di come pratiche senza fondamento scientifico possano causare più danni che benefìci. È fondamentale che i genitori siano adeguatamente informati sui rischi (come per tutti i farmaci ci sono possibili effetti dannosi connessi alla chelazione vera, tramite fleboclisi, mentre quella tramite pomate è inefficace, pur non presentando rischi, se non sporcare la biancheria e buttare dei soldi) e sull’inefficacia di tali trattamenti, per poter prendere decisioni consapevoli e proteggere la salute dei propri figli.
Costi: dopo il primo consulto con il medico, che può costare circa 200 euro, si dovranno affrontare costose analisi del sangue per la valutazione del caso. Il trattamento, che può variare da 200 a 500 euro a seduta, dovrà essere effettuato settimanalmente per un periodo che il medico valuterà. In totale, i costi possono accumularsi rapidamente, con un impatto significativo sul bilancio familiare (si legga anche a questo link).

Terapie con cellule staminali
La terapia con cellule staminali è una pratica che ha suscitato molta attenzione in àmbito medico, soprattutto per il suo potenziale di rigenerare tessuti danneggiati e ripristinare funzioni compromesse. Tuttavia, nel contesto dell’autismo, non esistono prove scientifiche che ne dimostrino l’efficacia. Nonostante ciò, alcune cliniche e pratiche non regolamentate la promuovono come una soluzione possibile per trattare l’autismo, ma tale approccio è, come detto, privo di fondamento scientifico: non esiste infatti alcuna prova che suggerisca che la rigenerazione di tessuti cerebrali o l’intervento sulle cellule cerebrali possa avere un impatto positivo sui sintomi dell’autismo. Gli studi esistenti non hanno mai dimostrato alcun miglioramento significativo delle capacità sociali, comportamentali o cognitive nei bambini trattati con cellule staminali. Al contrario, il trattamento rimane una pratica sperimentale, non approvata dalle principali autorità sanitarie come la FDA statunitense (Food and Drug Administration) o l’EMA (Agenzia Europea per i Medicinali), e non ha alcun riconoscimento ufficiale come trattamento per l’autismo.
I rischi legati alla terapia con cellule staminali sono notevoli. Infatti, l’uso di cellule staminali non trattate adeguatamente può portare a gravi complicazioni, come rigetti immunologici, infezioni, e in alcuni casi, la formazione di tumori. Inoltre, i trattamenti che utilizzano cellule staminali non sono regolamentati in modo uniforme, e le cliniche che li offrono possono non garantire standard di sicurezza elevati, esponendo i pazienti a rischi significativi.
Costi: i costi sono estremamente elevati e variano a seconda della clinica e del tipo di trattamento proposto. Dopo il primo consulto, che può costare tra i 150 e i 300 euro, si dovranno affrontare costi aggiuntivi per test diagnostici e valutazioni preliminari. Ogni seduta di terapia con cellule staminali può costare tra i 2.000 e i 10.000 euro, e potrebbe essere necessaria una serie di trattamenti ripetuti, aumentando significativamente la spesa complessiva.
Questi trattamenti sono spesso effettuati in cliniche non regolamentate e non garantiscono alcun risultato positivo, mentre i rischi associati sono notevoli. Pertanto, il denaro speso per tali terapie, oltre a essere ingente, potrebbe non portare a nessun miglioramento, esponendo al contempo il bambino a rischi sanitari gravi.

Trapianto fecale
Il trapianto fecale è una procedura medica che consiste nel trasferire microbiota intestinale da un donatore sano a un paziente, con l’obiettivo di ripristinare un equilibrio della flora batterica intestinale. Sebbene abbia mostrato risultati promettenti nel trattamento di alcune malattie gastrointestinali, come la colite da Clostridium difficile, il suo utilizzo nell’autismo è completamente privo di basi scientifiche e non supportato da alcuna prova clinica che dimostri un beneficio reale.
Nel contesto dell’autismo, infatti, alcuni che propongono trattamenti alternativi sostengono che l’intestino possa influenzare il comportamento e lo sviluppo neurologico, e che il trapianto fecale possa correggere disbiosi intestinale (squilibrio microbiotico), migliorando così i sintomi dell’autismo. Tuttavia, non esistono studi clinici controllati che dimostrino che il trapianto fecale abbia un effetto positivo sui disturbi comportamentali, sociali o cognitivi tipici dell’autismo. Inoltre, la ricerca in questo campo è estremamente limitata e le teorie che collegano la flora intestinale all’autismo non sono supportate da solide prove scientifiche.
I rischi associati al trapianto fecale sono significativi e non trascurabili. La procedura, seppur generalmente sicura quando eseguita per malattie gastrointestinali specifiche, comporta il rischio di trasmettere infezioni, batteri patogeni o virus, soprattutto se i donatori non sono sottoposti a rigorosi screening. Inoltre, non essendo una pratica regolamentata per l’autismo, l’intervento potrebbe avvenire in cliniche non autorizzate, con conseguenti pericoli per la salute del paziente.
Costi: i costi sono elevati, variando in base alla clinica e alla complessità del trattamento. Dopo il primo consulto medico, che può costare tra i 100 e i 250 euro, si dovranno affrontare spese per esami diagnostici e preparazione del trattamento. Il trapianto fecale in sé può costare tra i 3.000 e i 10.000 euro per ogni seduta, e in alcuni casi il trattamento potrebbe richiedere più di un intervento. Inoltre, i costi per la gestione post-operatoria, che possono includere il monitoraggio e il follow-up, vanno ad aggiungersi.
Poiché la procedura non ha alcuna base scientifica nel trattamento dell’autismo e non porta a risultati comprovati, il denaro speso per il trapianto fecale potrebbe essere completamente vanificato, lasciando i genitori con un significativo impegno economico e senza alcun beneficio per la salute del bambino.

Clisteri e lavaggi intestinali con candeggina
L’uso di clisteri e lavaggi intestinali con candeggina è una pratica estremamente pericolosa e priva di qualsiasi fondamento scientifico. La candeggina è una sostanza chimica altamente tossica e corrosiva, comunemente utilizzata come disinfettante, ma non ha alcun ruolo nel trattamento di patologie mediche, tanto meno nell’autismo. Non esistono studi o prove che suggeriscano che l’applicazione di candeggina nell’intestino possa portare benefìci in relazione all’autismo o a qualsiasi altra condizione neurologica. Al contrario, l’uso di candeggina in questo modo è dannoso e può avere conseguenze devastanti per la salute.
L’idea sottesa a questa pratica infondata è che la candeggina possa eliminare tossine o agenti patogeni nel tratto intestinale, contribuendo così a migliorare i sintomi dell’autismo. Tuttavia, questa teoria è priva di basi scientifiche e non è mai stata validata da ricerche mediche.
L’uso di sostanze chimiche così aggressive nel corpo umano può provocare gravi danni, tra cui ustioni interne, danni ai tessuti intestinali, infezioni, e può compromettere gravemente l’equilibrio microbiotico intestinale. In alcuni casi, l’ingestione o l’uso di candeggina può portare ad avvelenamenti che richiedono interventi medici urgenti.
Anche se alcune persone potrebbero erroneamente credere che i clisteri con candeggina possano migliorare i sintomi dell’autismo, le conseguenze di questa pratica sono estremamente pericolose e potenzialmente letali. Non solo non esistono prove a favore di tale trattamento, ma i danni che può causare sono irreparabili. È fondamentale, pertanto, che i genitori siano consapevoli dei gravi rischi per la salute che comporta l’uso di questa sostanza, e che si astengano completamente dall’adottare tali pratiche.
Costi: i clisteri e i lavaggi intestinali con candeggina vengono promossi da alcune cliniche alternative e pratiche non regolamentate, ma i costi sono difficilmente standardizzabili. Un trattamento di questo tipo può costare tra i 100 e i 300 euro per singola sessione, ma i costi complessivi per più sedute potrebbero essere molto più elevati.

Camera iperbarica
La camera iperbarica è un trattamento che prevede l’esposizione a un’alta pressione di ossigeno in un ambiente sigillato. Sebbene l’ossigenoterapia iperbarica sia utilizzata in àmbito medico per il trattamento di condizioni quali intossicazioni da monossido di carbonio, ferite da decompressione e alcune infezioni gravi, l’utilizzo di essa nell’autismo non è supportato da prove scientifiche e risulta privo di fondamento. Alcune teorie non scientifiche, infatti, suggeriscono che l’ossigeno in alta pressione possa migliorare la funzione cerebrale e alleviare i sintomi dell’autismo, ma non esistono studi validati che dimostrino un impatto positivo sul comportamento, sull’apprendimento o sulle capacità sociali dei bambini nello spettro autistico. Gli studi scientifici condotti finora non hanno mai mostrato alcun beneficio significativo dell’ossigenoterapia iperbarica nell’autismo. L’uso della camera iperbarica in questo contesto è quindi una pratica non comprovata e non approvata dalle principali agenzie sanitarie internazionali.
Anche se i genitori possono essere attratti dalla promessa di un miglioramento nei sintomi dell’autismo, si tratta di una terapia che non solo è inefficace, ma che può anche comportare rischi per la salute. Gli effetti collaterali includono infatti danni ai polmoni, agli occhi e, in alcuni casi, il rischio di convulsioni dovute a un eccesso di ossigeno. Inoltre, l’esposizione prolungata ad alte pressioni può causare danni ai tessuti corporei e, in casi rari, può portare a complicazioni fatali.
Costi: i trattamenti con la camera iperbarica sono estremamente costosi e, seppur non garantendo alcun beneficio scientifico per l’autismo, sono spesso proposti da cliniche che cercano di sfruttare la speranza delle famiglie. Ogni seduta di ossigenoterapia iperbarica può costare tra i 100 e i 300 euro, e potrebbe essere necessaria una serie di trattamenti ripetuti, che aumentano notevolmente i costi complessivi. In alcuni casi, il trattamento può arrivare a costare fino a 10.000 euro per un ciclo completo di terapie.
Poiché la terapia non ha alcun impatto comprovato sull’autismo, il denaro speso per questi trattamenti potrebbe essere impiegato in modo più produttivo per supportare interventi terapeutici validi e scientificamente riconosciuti.

Stimolazione transcranica
La stimolazione transcranica è una tecnica non invasiva che utilizza correnti elettriche a bassa intensità per stimolare specifiche aree del cervello. Sebbene sia stata studiata in relazione a varie condizioni neurologiche, come la depressione e il dolore cronico, l’utilizzo di essa nell’autismo non ha fondamento scientifico e non è supportato da prove concrete.
Accade in pratica che alcuni proponenti di trattamenti alternativi sostengano che la stimolazione transcranica possa migliorare i sintomi dell’autismo, influenzando la neuroplasticità e migliorando la comunicazione tra le diverse aree del cervello. Tuttavia, come detto, non esistono studi clinici validi che dimostrino un miglioramento significativo nel comportamento, nelle capacità sociali o cognitive dei bambini nello spettro autistico, né le ricerche finora effettuate hanno prodotto risultati convincenti. La stimolazione transcranica, pertanto, non è mai stata approvata come trattamento per l’autismo da parte delle principali autorità sanitarie.
Sebbene tale trattamento sia generalmente considerata sicuro, l’uso non supervisionato o non adeguatamente regolato può comportare effetti collaterali, come mal di testa, vertigini, nausea e, in casi estremi, influire negativamente sulla salute mentale e fisica. L’applicazione di esso nell’autismo rimane una pratica sperimentale, senza alcuna validazione da parte della comunità scientifica.
Costi: i trattamenti di stimolazione transcranica sono relativamente costosi, e i genitori che decidono di intraprendere questa strada si trovano di fronte a una spesa significativa. Ogni sessione può costare tra i 100 e i 400 euro, e il trattamento potrebbe richiedere una serie di sedute settimanali, con un ciclo che può arrivare a costare tra i 3.000 e i 10.000 euro, a seconda della durata e della clinica scelta.
Nonostante l’elevato costo, non vi è alcuna garanzia che il trattamento porti a miglioramenti concreti.

Dispositivi esterni: Mente Autism
Mente Autism è un dispositivo che promette di migliorare i sintomi dell’autismo attraverso l’uso di una fascia da indossare sulla testa e auricolari da inserire nelle orecchie, il tutto per stimolare il cervello con frequenze sonore. La promessa è quella di ridurre l’ansia, migliorare l’interazione sociale e aumentare le capacità comunicative nei bambini autistici. Tuttavia, dietro a questa presentazione si nasconde una totale mancanza di prove scientifiche che supportino l’efficacia del trattamento. Non esistono infatti studi clinici validati volti a dimostrare che l’uso di stimolazioni sonore o frequenze specifiche possa influire positivamente sui sintomi dell’autismo. Di fatto, non si tratta di un trattamento medico riconosciuto, ma di una semplice proposta commerciale che sfrutta la non conoscenza e la speranza dei genitori.
L’efficacia del dispositivo non è stata mai dimostrata da ricerche scientifiche indipendenti, e la diffusione di esso si basa esclusivamente sul marketing e sulle testimonianze non verificate. La realtà è che Mente Autism non offre alcun beneficio terapeutico tangibile e non modifica in alcun modo le caratteristiche neurologiche e comportamentali dell’autismo. Utilizzare questo dispositivo non solo è inutile, ma può anche creare un senso di falsa speranza e frustrazione nei genitori, che potrebbero essere indotti a credere che un “miracolo tecnologico” stia avvenendo senza alcuna base scientifica.
Inoltre, sottoporre un bambino a 40 minuti al giorno di applicazione del dispositivo, con la fascia sulla testa e gli auricolari nelle orecchie, non è solo inutile, ma può anche essere fonte di disagio e fastidio. Non è raro, infatti, che i bambini provino resistenza, irritazione e frustrazione durante l’uso di dispositivi invasivi come questo, e farli abituare a una pratica quotidiana che non ha alcun effetto positivo sulla loro condizione è una vera e propria perdita di tempo e di energia. Per un genitore, questa routine diventa solo un ulteriore stress da affrontare, senza alcuna ricompensa.
Costi (e fastidio): Mente Autism viene venduto a un prezzo di circa 2.300 euro più IVA, un costo ingiustificato per un dispositivo che non ha alcuna validità terapeutica. Non solo si sprecano risorse economiche per un prodotto inefficace, ma si aggiunge anche il disagio di costringere il bambino a sottoporsi a 40 minuti di applicazione quotidiana. La speranza dei genitori viene sfruttata per ottenere profitti, senza alcun beneficio tangibile per il bambino. Invece di investire tempo e denaro in questo tipo di truffa, le famiglie dovrebbero concentrarsi su trattamenti terapeutici validi, basati su prove scientifiche concrete.
Il costo elevato di Mente Autism e l’inefficacia di esso lo rendono dunque una truffa vergognosa che sottrae risorse utilizzabili per il benessere del bambino in modo più costruttivo. Inoltre, sul sito ufficiale di Mente Autism viene suggerito di richiedere all’INPS l’agevolazione IVA al 4%, facendo leva sulla possibilità di ridurre i costi per il consumatore. Questo tentativo di legittimare ulteriormente il dispositivo, offrendo vantaggi fiscali su un prodotto privo di qualsiasi base scientifica e terapeutica, aumenta notevolmente la sensazione di inganno. La proposta di ottenere benefìci fiscali per un dispositivo che non ha alcuna efficacia dimostrata nei confronti dell’autismo non fa che intensificare il carattere truffaldino di questa pratica, spingendo ulteriormente i genitori a credere in una soluzione miracolosa che, in realtà, non porta alcun beneficio.
È fondamentale quindi che i genitori siano consapevoli di come queste strategie possano manipolare la loro fiducia e le loro risorse, facendo leva su speranze infondate.

Cliniche straniere
Alcune cliniche straniere – molto gettonata è la Svizzera – offrono trattamenti non autorizzati e, in molti casi, vietati in Italia e in altri Paesi con regolamenti sanitari rigorosi. Queste cliniche, spesso situate in Paesi con normative meno restrittive, propongono terapie non approvate e talora potenzialmente pericolose per il trattamento dell’autismo.
Si parla di trattamenti che spaziano da terapie invasive a metodi sperimentali, senza validità scientifica, che possono sembrare allettanti per le famiglie in cerca di soluzioni alternative, ma che mancano di prove concrete di efficacia e che comportano rischi gravi per la salute.
Alcuni dei trattamenti ingannevoli più comuni offerti da queste cliniche includono l’uso di sostanze non approvate, trattamenti sperimentali come l’infusione di farmaci non autorizzati, terapie con sostanze chimiche o addirittura pratiche estreme, come l’uso di tecniche chirurgiche invasive, senza alcuna prova di beneficio. Questi trattamenti, purtroppo, vengono spesso proposti a genitori disperati, i quali, spinti dalla speranza di trovare una soluzione, si rivolgono a strutture che non rispettano gli standard sanitari internazionali.
Nonostante le promesse di miglioramenti nei sintomi dell’autismo, non esistono dati scientifici che supportino l’efficacia di questi trattamenti e molti di essi, come detto, possono risultare estremamente dannosi. I rischi associati, infatti, possono variare da infezioni, danni ai tessuti, effetti collaterali a lungo termine, fino a complicazioni fatali. Inoltre, il fatto che queste cliniche non seguano le normative sanitarie e non siano soggette a una supervisione adeguata implica un’ulteriore fonte di pericolo per la salute dei pazienti.
Costi: i costi per trattamenti presso cliniche estere possono variare enormemente a seconda del tipo di terapia proposta, della durata del trattamento e della clinica stessa. Una singola sessione di trattamento in queste strutture può costare da 1.000 a 10.000 euro e, in alcuni casi, l’intero ciclo di terapie può superare i 30.000 euro.
Questi trattamenti, purtroppo, non solo sono costosi, ma espongono anche i pazienti a gravi rischi, con la possibilità di non ottenere alcun miglioramento nei sintomi dell’autismo. Inoltre, le spese di viaggio e alloggio per recarsi in queste cliniche estere possono aumentare ulteriormente i costi complessivi.
Investire denaro in trattamenti non approvati, senza alcuna prova scientifica della loro efficacia, rappresenta un rischio non solo economico, ma soprattutto per la salute.

Comunicazione facilitata
La comunicazione facilitata (CF) è una tecnica proposta per aiutare persone con disabilità comunicative, come l’autismo, a esprimersi attraverso il supporto fisico di un facilitatore. In questa pratica, il facilitatore sostiene o guida la mano dell’individuo mentre scrive o digita su una tastiera. Nonostante le promesse iniziali di questa tecnica, la comunità scientifica ne ha ripetutamente smentito la validità. Numerosi studi controllati hanno dimostrato infatti che il contenuto prodotto durante la comunicazione facilitata riflette le intenzioni del facilitatore, piuttosto che quelle della persona assistita. Questo fenomeno, noto come “effetto ideomotorio”, avviene quando il facilitatore, spesso inconsapevolmente, influenza i movimenti dell’assistito. Le ricerche hanno chiaramente indicato che, in assenza di un vero controllo indipendente, non è possibile distinguere il contributo della persona assistita da quello del facilitatore.
Di conseguenza, Associazioni mediche e scientifiche di rilievo, come l’APA (American Psychological Association) e l’ABAI (Association for Behavior Analysis International), hanno dichiarato che la comunicazione facilitata non è supportata da evidenze scientifiche e ne sconsigliano fermamente l’uso.
Qui si parla di un esempio emblematico di come tecniche non validate possano sfruttare la speranza delle famiglie in difficoltà. Per proteggere i propri cari, è essenziale basare ogni decisione su prove scientifiche solide e affidarsi a professionisti qualificati. Solo così possiamo garantire interventi che rispettino la dignità e il benessere delle persone nello spettro autistico.
Costi: oltre ai danni emotivi e psicologici, l’adozione della comunicazione facilitata comporta spese economiche che possono includere consulenze, formazione e acquisto di materiali specifici. Questi costi possono accumularsi rapidamente, aggravando ulteriormente il carico sulle famiglie.

Omeopatia
L’omeopatia è un sistema di medicina alternativa fondato alla fine del XVIII secolo dal medico tedesco Samuel Hahnemann. La teoria alla base di essa si fonda sul principio del “simile cura il simile”, cioè l’idea che una sostanza che causa sintomi simili a una malattia in una persona sana possa curare quella stessa malattia in una persona malata. Per applicare questo principio, l’omeopatia utilizza rimedi che sono sottoposti a un processo di diluizione estrema e dinamizzazione, consistente in ripetuti cicli di diluizione e agitazione. L’idea è che l’acqua, che entra in contatto con la sostanza originaria, “ricordi” la sua presenza, anche dopo che essa è stata diluita così tanto da non lasciare tracce fisiche della sostanza stessa. Questa teoria è conosciuta come “memoria dell’acqua” ed è una delle colonne portanti dell’omeopatia.
Secondo i sostenitori dell’omeopatia, l’acqua “memorizza” la sostanza diluita e, anche a concentrazioni estremamente basse, conserva un imprinting che sarebbe in grado di stimolare la guarigione nel corpo umano. Tuttavia, la teoria della memoria dell’acqua non ha mai ricevuto una validazione scientifica adeguata, né gli esperimenti scientifici condotti su questa teoria hanno mai fornito prove solide che l’acqua possa effettivamente “ricordare” le sostanze con cui è venuta a contatto. La maggior parte della comunità scientifica considera dunque questa teoria altamente improbabile e priva di basi.
Nel contesto dell’autismo, l’omeopatia viene talvolta proposta come trattamento alternativo, con l’idea che questi rimedi possano migliorare il comportamento, la comunicazione e le capacità sociali dei bambini. Tuttavia, non esistono studi scientifici validi che dimostrino l’efficacia dell’omeopatia nel trattamento dell’autismo. In realtà, la maggior parte degli studi clinici ha mostrato che i rimedi omeopatici non producono effetti superiori a quelli del placebo. L’uso di questi rimedi, quindi, non solo è inefficace, ma può anche ritardare l’accesso a trattamenti medici comprovati che potrebbero davvero fare la differenza per la vita di un bambino.
Inoltre, sebbene i rimedi omeopatici siano generalmente considerati sicuri, in quanto estremamente diluiti, il vero rischio dell’omeopatia sta nel fatto che, se usata come trattamento principale, può indurre i genitori a rinunciare a terapie mediche valide e basate su prove scientifiche, mettendo in pericolo la salute del bambino.
Costi: il costo di un trattamento omeopatico varia a seconda del medico e della durata della terapia. Una visita iniziale con un omeopata può costare tra i 50 e i 150 euro, mentre ogni seduta successiva può oscillare tra i 30 e i 100 euro. I rimedi omeopatici, pur essendo relativamente economici per singola dose, possono accumularsi nel tempo se il trattamento si protrae.
Nonostante l’investimento economico, è importante ribadire ancora che l’omeopatia non ha basi scientifiche concrete, e che quindi il denaro speso in questi trattamenti non porta a miglioramenti reali e misurabili nei bambini nello spettro autistico. Inoltre, la spesa per il trattamento omeopatico potrebbe sottrarre risorse a interventi terapeutici validi, con conseguenze dannose per la salute e lo sviluppo del bambino.

“Diete miracolose”
Le cosiddette “diete miracolose” sono regimi alimentari estremi che vengono proposti come trattamenti per l’autismo, senza una base scientifica solida a supporto. Tra le più diffuse vi sono diete prive di glutine, caseina, zuccheri o alimenti ad alto contenuto di istamina, ma anche diete a base di integratori o alimenti specifici. Queste diete spesso vengono presentate come soluzioni rapide per migliorare i sintomi dell’autismo, come difficoltà comunicative, comportamenti ripetitivi e problemi di comportamento, e vengono promosse in molti contesti, sia da parte di genitori che da operatori non qualificati. Tuttavia, l’applicazione di essa senza una valutazione medica adeguata, come ad esempio esami specifici per identificare sensibilità o allergie alimentari, può essere estremamente dannosa per la salute dei bambini. L’eliminazione indiscriminata di interi gruppi alimentari, infatti, senza una diagnosi precisa, può comportare carenze nutrizionali gravi, con conseguenti problemi di crescita, sviluppo e benessere generale.
I bambini autistici, che spesso presentano selettività alimentare e difficoltà nel mangiare una varietà di cibi, sono particolarmente vulnerabili a questi effetti negativi. L’introduzione di diete restrittive senza una giustificazione medica può pertanto peggiorare la situazione, accentuando i problemi legati all’alimentazione e alla nutrizione.
Alcuni studi preliminari hanno suggerito che modifiche dietetiche mirate possano avere effetti positivi in alcuni casi. Ad esempio, ricerche su modelli animali hanno indicato che una dieta a basso indice glicemico potrebbe ridurre alcuni sintomi comportamentali associati all’autismo. Tuttavia, questi risultati sono ancora preliminari e ottenuti in contesti non clinici, e quindi non è ancora chiaro se possano essere applicabili agli esseri umani. Inoltre, la maggior parte delle prove scientifiche sugli effetti delle diete specifiche nell’autismo non hanno mostrato miglioramenti significativi rispetto al placebo.
Un altro aspetto da considerare è che il trattamento nutrizionale per l’autismo dovrebbe essere personalizzato e basato su prove scientifiche. Interventi come l’eliminazione di specifici alimenti dovrebbero essere eseguiti solo sotto la guida di un medico o di un dietista esperto, dopo avere effettuato esami diagnostici adeguati, per determinare se esistono intolleranze o allergie alimentari reali. La gestione delle diete speciali senza una guida medica può portare a squilibri nutrizionali, indebolendo il sistema immunitario e impedendo al bambino di ricevere le sostanze nutritive di cui ha bisogno per crescere e svilupparsi correttamente.
Costi: i costi associati alle “diete miracolose” possono variare ampiamente. Il costo principale deriva dall’acquisto di alimenti specifici e integratori, che sono spesso più cari rispetto agli alimenti comuni. Le diete prive di glutine e caseina, ad esempio, richiedono alimenti specializzati, come pane, pasta e latte, che possono avere un prezzo significativamente più elevato rispetto ai prodotti tradizionali. Inoltre, il seguire una dieta restrittiva senza il supporto di esami clinici può comportare costi aggiuntivi per visite mediche, test diagnostici e consulenze dietetiche, che potrebbero non portare a risultati positivi. Questo tipo di approccio può, infine, sottrarre risorse che potrebbero essere investite in trattamenti validi e basati su prove scientifiche, impedendo al bambino di ricevere l’assistenza adeguata.

Integratori e supplementi
Gli integratori e i supplementi vengono frequentemente proposti come trattamenti per migliorare i sintomi dell’autismo, con l’idea che possano correggere presunti squilibri nutrizionali o influire positivamente sul comportamento e sulle capacità cognitive.
Tra gli integratori più comuni vi sono quelli contenenti vitamine, minerali, acidi grassi omega-3, probiotici, antiossidanti e aminoacidi. Questi prodotti sono spesso commercializzati come soluzioni naturali e sicure per i disturbi legati all’autismo, promettendo miglioramenti nella comunicazione, nell’attenzione e nella riduzione dei comportamenti problematici. Tuttavia, nonostante la loro diffusione nel trattamento dell’autismo, le prove scientifiche che ne supportano l’efficacia sono molto limitate. Sebbene alcuni studi abbiano suggerito che determinati integratori, come gli acidi grassi omega-3 o la vitamina D, possano avere effetti benèfici sulla salute cerebrale e sul comportamento, i risultati sono variabili e non sufficientemente consistenti da giustificare l’uso sistematico di questi prodotti come trattamento primario per l’autismo. La maggior parte delle ricerche, infatti, non ha mostrato miglioramenti significativi rispetto al placebo, e molti degli studi condotti sono di bassa qualità metodologica, con campioni di piccole dimensioni e senza gruppi di controllo adeguati.
Inoltre, l’assunzione indiscriminata di integratori senza una diagnosi medica precisa o un monitoraggio appropriato può essere pericolosa. Alcuni integratori, se assunti in dosi eccessive, possono infatti causare effetti collaterali gravi, come danni al fegato, ai reni, o squilibri elettrolitici. E ancora, l’uso non controllato di supplementi può mascherare carenze nutrizionali reali o interferire con altri trattamenti medici necessari. In particolare, integratori come quelli contenenti vitamine liposolubili (A, D, E, K) possono accumularsi nel corpo e causare tossicità.
Gli integratori dovrebbero essere considerati solo come parte di un piano terapeutico più ampio e sempre sotto la supervisione di un medico o di un nutrizionista specializzato. L’assunzione di questi prodotti senza una guida professionale può portare a rischi inutili per la salute del bambino, soprattutto se non siano stati identificati specifici bisogni nutrizionali o carenze attraverso esami diagnostici.
Costi: i costi degli integratori possono variare ampiamente a seconda del tipo di prodotto e della marca. Integratori come gli omega-3, la vitamina D, i probiotici o gli aminoacidi specializzati possono essere molto costosi, specialmente se utilizzati regolarmente. Inoltre, i genitori che ricorrono a integratori senza una valutazione medica adeguata potrebbero dover sostenere anche il costo di visite mediche aggiuntive, test diagnostici e consulenze dietetiche. Questo può comportare un esborso economico significativo senza risultati comprovati.

Probiotici
I probiotici sono microrganismi vivi, generalmente batteri o lieviti, che vengono introdotti nell’organismo per favorire l’equilibrio della flora intestinale. Vengono comunemente proposti come trattamento per una varietà di condizioni, tra cui l’autismo, con l’idea che possano migliorare la salute intestinale e, di conseguenza, influire positivamente sui sintomi comportamentali. Si ritiene che la salute intestinale sia strettamente legata al benessere cerebrale, tanto che alcuni studi suggeriscono che l’equilibrio del microbiota intestinale potrebbe avere effetti sulle funzioni cognitive, emozionali e comportamentali.
Tuttavia, mentre i probiotici sono generalmente considerati sicuri e possono essere utili per trattare alcune problematiche digestive, come la diarrea o il disturbo da sindrome del colon irritabile, le prove che supportano l’efficacia dei probiotici nel trattamento dell’autismo sono ancora limitate e non definitive. Alcuni studi preliminari hanno suggerito che i probiotici possano avere effetti positivi sul comportamento e sulla riduzione dei sintomi dell’autismo, ma questi studi sono piccoli, non sempre di alta qualità e i risultati spesso contraddittori. In particolare, non esistono prove sufficienti per confermare che i probiotici possano migliorare in modo significativo i principali sintomi dell’autismo, come le difficoltà comunicative o i comportamenti ripetitivi.
Un altro aspetto da considerare è che il microbiota intestinale nei bambini autistici è un campo di studio ancora in fase di sviluppo. Sebbene alcuni studi suggeriscano che i bambini nello spettro autistico possano avere una flora intestinale diversa rispetto alla popolazione generale, non c’è consenso su quali siano i meccanismi esatti che collegano la salute intestinale ai disturbi dello spettro autistico. La somministrazione di probiotici, sebbene generalmente sicura, potrebbe non avere un impatto significativo sui sintomi comportamentali e potrebbe anche non essere necessaria in assenza di disturbi intestinali specifici.
Infine, l’uso di probiotici senza una supervisione medica può essere problematico, poiché alcuni ceppi di probiotici possono non essere adatti a tutti i bambini, e potrebbero causare effetti collaterali come gonfiore, gas o diarrea, soprattutto in bambini con un sistema immunitario indebolito o altre condizioni preesistenti. Come per altri integratori, è essenziale che l’uso dei probiotici sia valutato da un medico che possa indicare il trattamento appropriato in base alle necessità individuali del bambino.
Costi: i probiotici sono generalmente accessibili, ma i costi possono variare in base al tipo e alla marca del prodotto. Esistono molteplici formulazioni di probiotici, alcune delle quali contenenti ceppi specifici per il trattamento di disturbi digestivi o altre problematiche. I genitori che decidono di somministrare probiotici al proprio bambino senza una consulenza medica potrebbero trovarsi a dover acquistare diversi integratori, aumentando i costi complessivi. Inoltre, l’efficacia dei probiotici nell’autismo non è stata dimostrata in modo conclusivo, il che implica che il denaro speso per questi trattamenti potrebbe non portare ai benefìci sperati.
Un ulteriore aspetto da considerare è che l’uso di probiotici potrebbe essere un’aggiunta ai costi di altri trattamenti, come le visite mediche, le consulenze nutrizionali o altre terapie, riducendo ulteriormente le risorse disponibili per approcci terapeutici con una base scientifica più solida.

Terapie e attività extrascolastiche, ovvero un uso improprio del termine “terapia”
Spesso vengono proposti trattamenti e attività etichettate come “terapie”, come la musicoterapia, la pet therapy, la sensory therapy, l’arteterapia, la mototerapia e altre pratiche simili. Sebbene queste attività possano certamente avere effetti positivi sul benessere e sulla qualità della vita dei bambini, è importante fare chiarezza sul loro effettivo ruolo nel contesto dell’autismo. La verità è che queste pratiche non sono vere e proprie terapie riabilitative, ma piuttosto attività di supporto che, se piacevoli per il bambino, possono essere utili come esperienze integrative. Non dovrebbero essere considerate come sostituti delle terapie riabilitative, che sono strutturate per affrontare le difficoltà specifiche legate all’autismo e che si basano su prove scientifiche.
In sostanza, queste attività possono essere benefiche, ma non dovrebbero essere confuse con trattamenti terapeutici veri e propri. Sono, infatti, più simili a laboratori extrascolastici o ad attività ricreative che, se piacciono al bambino, possono avere un impatto positivo sul suo umore e sul suo sviluppo sociale, ma non sono in grado di sostituire terapie mirate e strutturate. È importante, quindi, che i genitori non siano indotti a credere che tali attività, per quanto piacevoli e stimolanti, possano avere gli stessi effetti delle terapie specialistiche, né che possano sostituire i percorsi abilitativi fondamentali per il bambino.
Costi: etichettare queste attività come “terapie” può portare ad aumentare i costi per le famiglie, che potrebbero essere convinte di pagare per un trattamento che in realtà non è né una terapia certificata né una riabilitazione professionale.
Le attività extrascolastiche, pur avendo un valore educativo e ricreativo, non dovrebbero essere paragonate a terapie vere e proprie, e farle passare come tali potrebbe costringere le famiglie a sostenere spese aggiuntive, inutili e prive di fondamento.
È essenziale quindi fare attenzione alla terminologia e comprendere che un’attività che può essere utile e piacevole per il bambino, come andare al parco o partecipare a un laboratorio di arte, di musica o di mototerapia, non è una “terapia” nel senso medico e riabilitativo del termine.

Un impegno per il futuro
Proteggere i nostri bambini significa anche proteggerli da false promesse e truffe che sfruttano la vulnerabilità dei genitori. La speranza è un motore potente, ma deve essere guidata dalla consapevolezza e dalla conoscenza. Ogni decisione deve basarsi su prove scientifiche, con l’obiettivo di garantire il benessere e lo sviluppo del bambino, senza cadere preda di chi approfitta della disperazione.
Come Associazione, continueremo ad impegnarci per informare e supportare le famiglie, offrendo strumenti concreti per riconoscere le insidie e costruire un percorso che metta al centro il bambino e il suo futuro. Perché ogni genitore merita di fare scelte sicure e consapevoli, e ogni bambino merita il meglio che la scienza e l’amore possano offrire.

*Presidente dell’Associazione Asperger Abruzzo.

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Le contraddizioni dell’inclusione

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La lettura delle pagine di “Le contraddizioni dell’inclusione”, lavoro collettivo curato da Matteo Schianchi, ci costringe a fare i conti con la forza dei meccanismi sociali e culturali che generano l’attuale situazione di esclusione delle persone con disabilità

Curato da Matteo Schianchi, Le contraddizioni dell’inclusione (mimesis, 2024) è un lavoro collettivo che raccoglie i contributi anche di Cristina Palmieri, Benedetto Saraceno, Carlo Francescutti, Stefano Onnis, Maria Turati, Edgar Contesini, Mario Paolini e di chi scrive [Giovanni Merlo].
Il libro nasce dall’esigenza di rilanciare il significato, il valore e la bellezza del lavoro degli operatori sociali con le persone con disabilità, di fronte alle frequenti situazioni di difficoltà che si riscontrano nei servizi come in àmbito formativo. Non a caso, il tema attorno a cui si sviluppano i ragionamenti degli autori è quello dell’inclusione, un concetto di per sé abbastanza chiaro («Un processo complesso che mira al riconoscimento e alla valorizzazione delle differenze delle caratteristiche di ciascuno/a, attraverso un’azione sugli ambienti educativi, di vita, di lavoro, tale da promuovere la piena partecipazione a tali contesti», C. Palmieri, Agire l’inclusione sociale: condizioni di possibilità e limiti del lavoro educativo, IRIS, 2018), nella Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti delle Persone con Disabilità viene fatto equivalere alla «partecipazione alla società su base di uguaglianza con gli altri» e affermato come diritto di tutte le persone con disabilità. Un concetto che, invece, pone non pochi problemi e ambiguità: sia quando si cerca semplicemente di inserire le persone con disabilità nei contesti ordinari della vita e, ancora di più, quando si vanno a creare contesti “dedicati”.

Il merito del lavoro curato da Schianchi è quello di fare emergere le contraddizioni del lavoro sociale. Quando non ci si può più limitare ad affermare l’inclusione, ma si deve provare a realizzarla in pratica, emerge sempre la complessità della questione. La tensione verso l’inclusione, ad esempio, non può essere semplificata in procedure e prestazioni e questo genera problemi e tensioni in organizzazioni che, negli anni, si sono sempre adeguate a standard di funzionamento.
In altre parole, la lettura delle pagine di Le contraddizioni dell’inclusione ci costringe a fare i conti con la forza dei meccanismi sociali e culturali che generano l’attuale situazione di esclusione delle persone con disabilità.
In questi anni è cambiato il linguaggio e il modo di rappresentare la disabilità: anche nel campo del welfare si sono affacciate nuove misure e nuove norme nel tentativo di rendere concreto il diritto all’inclusione. Ma leggi e proclami, questo è uno dei messaggi del libro, non sono sufficienti se non si interviene sulle dinamiche sociali che determinano l’esclusione delle persone con disabilità, in particolare dal mondo degli adulti.
In questo contesto, andremo a scoprire come l’esclusione possa prendere la forma della sostituzione delle persone con disabilità dalle scelte che riguardano la loro vita. Si potrà apprezzare il legame fra questa condizione con il processo costante e sempre presente di inferiorizzazione e di infantilizzazione delle persone con disabilità, confinate, non a caso, nei servizi nel ruolo di utenti (“i ragazzi”) o di “casi”. Un processo così radicato, normalizzato, da impedirci di riconoscere e di cogliere le tante dimensioni della discriminazione di cui sono vittime le persone con disabilità: nel mondo della scuola, del lavoro, della vita sociale, economica e politica, ma anche e soprattutto nelle relazioni più importanti, come quelle affettive e di amicizia, determinando condizioni di solitudine.
Un contesto che richiama gli operatori sociali a prendere posizione sul senso e l’orizzonte del loro lavoro: per comprendere come sia possibile oggi pensare e ripensare a interventi e servizi che, in nome della “protezione”, non si trasformino in trappole dell’esclusione da cui è difficile emanciparsi.
È un bellissimo lavoro, quello degli operatori, che rischia però di essere schiacciato da tecnicismi, procedure e burocrazia e che, al contrario, può e deve essere rilanciato nella sua bellezza: quella della relazione, della libertà, dell’emancipazione, dell’appartenenza alla stessa comunità.

*Direttore della LEDHA (Lega per i Diritti delle Persone con Disabilità, componente lombarda della FISH-Federazione Italiana per i Diritti delle Persone con Disabilità e Famiglie).

Le contraddizioni dell’inclusione. Il lavoro socio-educativo nei servizi per la disabilità tra criticità e prospettive, a cura di Matteo Schianchi, Mimesis, 2024 (collana “Minority Reports”).

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Linee Guida per Reti Antiviolenza accessibili

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Prodotte nell’àmbito del progetto “Artemisia”, sono state presentate alla Regione Lombardia le “Linee Guida per Reti Antiviolenza accessibili”, documento che ha come obiettivo quello di fornire alle operatrici gli strumenti necessari per semplificare l’accesso di donne e ragazze con disabilità ai Centri Antiviolenza (CAV) e rendere maggiormente fruibili gli spazi per la loro presa in carico, comprese le Case Rifugio Artemisia Gentileschi, “Autoritratto come allegoria della Pittura” (particolare), (1638-39), Royal Collection Trust, Londra (Foto: Bridgeman/Aci). Alla pittrice secentesca si ispira il nome del progetto promosso in Lombardia

Prodotte nell’àmbito del progetto Artemisia (Attraverso reti territoriali emersione di situazioni di violenza), iniziativa di cui Superando si è già occupato in varie occasioni, sono state presentate alla Regione Lombardia le Linee Guida per Reti Antiviolenza accessibili.
Si tratta di «un documento che ha come obiettivo quello di fornire alle operatrici gli strumenti necessari per semplificare l’accesso di donne e ragazze con disabilità ai Centri Antiviolenza (CAV) e rendere maggiormente fruibili gli spazi per la loro presa in carico, comprese le case rifugio. L’obiettivo è quello di realizzare luoghi accessibili e inclusivi, che siano in grado di prendersi cura di tutte le donne, comprese quelle con disabilità», spiegano le Associazioni aderenti al progetto.

Avviato il 3 dicembre 2022 e tuttora in corso, il progetto Artemisia – così nominato in onore di Artemisia Gentileschi (nata nel 1593 e deceduta tra il 1652 e il 1656), la nota pittrice che subì una violenza sessuale a cui reagì facendo processare e condannare il colpevole – è promosso dalle Fondazioni Somaschi, ASPHI (Tecnologie Digitali per migliorare la Qualità di Vita delle Persone con Disabilità) e Centro per la famiglia card. Carlo Maria Martini, insieme alla LEDHA (la Lega per i Diritti delle Persone con Disabilità che costituisce la componente lombarda della FISH-Federazione Italiana per i Diritti delle Persone con Disabilità e Famiglie) e al CEAS (Centro Ambrosiano di Solidarietà).
Ideata per favorire l’emersione e la presa in carico delle donne e delle ragazze vittime di violenza, l’iniziativa ha portato al coinvolgimento delle reti territoriali antiviolenza di Milano, Melzo, Rho, Rozzano, San Donato Milanese, Legnano e Cinisello Balsamo.

È Chiara Sainaghi, responsabile del Centro Antiviolenza della Fondazione Somaschi, a indicare le motivazioni che hanno portato alla realizzazione delle Linee Guida: «Poter estendere il sistema di supporto a tutte le donne che subiscono violenza, a prescindere dalle loro condizioni o dalle loro abilità, è uno scenario che da oggi inizia a potersi concretizzare. E questo per noi è un primo motivo di soddisfazione».

Le Linee Guida rappresentano una prima risposta a un problema concreto e molto pressante: sul territorio nazionale e regionale, infatti, i Centri Antiviolenza e le Case Rifugio sono spesso inaccessibili alle persone con disabilità motoria e sensoriale. «Il nostro auspicio è che la Regione Lombardia possa sostenere, rafforzare e ampliare le azioni di supporto alle vittime di violenza attraverso la diffusione delle Linee Guida a tutte le Reti antiviolenza presenti nel territorio regionale – commenta Laura Abet, responsabile del Centro Antidiscriminazione Franco Bomprezzi della LEDHA -. Crediamo che un intervento coordinato e strutturato a livello regionale possa migliorare l’efficacia degli interventi di supporto, garantendo una maggiore uniformità e qualità dei servizi offerti. La collaborazione della Regione, attraverso la diffusione di queste linee di indirizzo, sarà determinante per l’attuazione di un sistema di protezione e aiuto ancora più capillare e accessibile per tutte le vittime di violenza».

Le Linee Guida sono rivolte alle Associazioni e agli Enti che gestiscono Centri Antiviolenza e Case Rifugio. Contengono molte indicazioni utili per rendere accessibili e fruibili alle donne e alle ragazze con disabilità le loro strutture. Ad esempio, sugli accorgimenti da adottare per superare le barriere architettoniche per chi si sposta in sedia a rotelle e che deve accedere ai locali di un Centro Antiviolenza per una consulenza.
Ma l’accessibilità non riguarda solo il superamento dei gradini. Significa anche garantire l’accesso alle informazioni (realizzando, ad esempio, testi in formato Easy to Read, “facile da leggere e da comprendere”), ai siti internet e ai canali di comunicazione tra le potenziali vittime e le operatrici del Centro Antiviolenza, permettendo così alle persone con disabilità sensoriale di utilizzarli in autonomia.
Per questo motivo le Linee Guida illustrano gli strumenti digitali attualmente disponibili per favorire la comunicazione con le donne con disabilità cognitiva. Nell’esperienza del progetto Artemisia, ad esempio, sono state costruite delle tabelle di comunicazione semplificata analogica (attraverso disegni e immagini), che sono poi state inserite in tabelle di comunicazione digitali presenti su tablet che le operatrici hanno iniziato a utilizzare.
Infine, all’interno delle Linee Guida è stato inserito anche un questionario di autovalutazione che può essere utilizzato dalle operatrici del singolo Centro Antiviolenza per verificare l’accessibilità della struttura, registrando la presenza o meno di barriere architettoniche, di segnaletica interna e di bagni accessibili. Uno strumento utile da cui partire per valutare quali interventi mettere in atto.
Le Linee Guida diventeranno liberamente fruibili alla fine del progetto Artemisia, prevista per il prossimo mese di maggio. (Simona Lancioni)

Il presente contributo è già apparso nel sito di Informare un’h-Centro Gabriele e Lorenzo Giuntinelli di Peccioli (Pisa) e viene qui ripreso, con alcuni riadattamenti dovuti al diverso contenitore, per gentile concessione. Suggeriamo anche, nel medesimo sito di Informare un’h, la consultazione di Linee guida per accogliere donne con disabilità vittime di violenza (repertorio – 2024), nonché delle Sezioni dedicate alla Violenza nei confronti delle donne con disabilità e a Donne con disabilità.

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