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L’Intervento Domiciliare Educativo: riflessione sul servizio

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Avviare una riflessione sul servizio IDE (Intervento Educativo a Domicilio) rivolto a minori e a persone con disabilità: è l’obiettivo della tavola rotonda organizzata dalla Cooperativa Sociale trentina GSH per l’11 febbraio a Mezzolombardo (Trento)

Avviare una riflessione sul servizio IDE, ovvero l’Intervento Educativo a Domicilio rivolto a minori e a persone con disabilità: è l’obiettivo della tavola rotonda denomminata appunto L’Intervento Domiciliare Educativo: riflessione sul servizio, organizzata dalla Cooperativa Sociale trentina GSH per il prossimo 11 febbraio, presso la Sala Spaur del Comune di Mezzolombardo, in provincia di Trento.

L’evento, moderato da Dario Ianes, condirettore del Centro Studi Erickson, servirà a confrontarsi in merito ad alcune criticità e difficoltà, ma anche ad esporre le buone prassi derivanti da questo tipo di intervento, a partire da alcuni spunti di riflessione: perché questo servizio viene scelto rispetto ad altri? Quali obiettivi si vogliono perseguire? Chi sono i protagonisti, la struttura del servizio e il suo setting? Quali caratteristiche deve avere l’educatore?
Gli Interventi Domiciliari Educativi, va ricordato in conclusione, vengono attivati attraverso il Servizio Sociale territoriale. (C.C.)

Per maggiori informazioni: GSH (info@gsh.it).

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Rendere la Carta Europea della Disabilità una realtà

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Come sfruttare al meglio queste nuove opportunità a vantaggio delle persone con disabilità: lo si spiegherà il 27 febbraio, durante un importante incontro online promosso dall’EDF, il Forum Europeo sulla Disabilità (con la disponibilità anche delle didascalie in italiano), tutto dedicato alla nuova Carta Europea della Disabilità e al Contrassegno Europeo di Parcheggio

Come avevamo riferito nel mese di ottobre dello scorso anno, dopo l’approvazione anche da parte del Consiglio dell’Unione Europea, sono giunti alla dirittura finale la Carta Europea della Disabilità (European Disability Card) e il Contrassegno Europeo di Parcheggio (European Parking Card for People with Disabilities). La “palla”, come avevamo scritto in quell’occasione, è passata ora ai 27 Stati Membri dell’Unione Europea, giacché se è vero che le Carte dovrebbero diventare realtà al più tardi entro il 2028, «gli Stati stessi – come aveva sottolineato l’EDF, il Forum Europeo sulla Disabilità – potranno (e dovrebbero) iniziare ad emetterle e ad accettarle prima».

In attesa quindi dei nuovi sviluppi, l’EDF stesso ha promosso un importante incontro di formazione online, denominato Making the European Disability Card a reality (“Rendere la Carta Europea della Disabilità una realtà”), che si terrà nella mattinata del 27 febbraio (ore 10-11.30) e che sarà segnatamente rivolto ai membri del Forum, alle altre organizzazioni di persone con disabilità a livello nazionale e comunitario, ma anche alle singole persone con disabilità, nonché alle autorità di attuazione nazionali, regionali o locali.
La lingua parlata dell’incontro sarà l’inglese (con sottotitoli in inglese in tempo reale), ma l’interpretazione dei segni internazionali e le didascalie in tempo reale in altre lingue, tramite traduzione automatica, saranno pure fornite su richiesta (va indicato nel modulo di registrazione, disponibile a questo link).

«Nel 2024 – spiegano dall’EDF – abbiamo celebrato il grande successo dell’approvazione e dell’adozione di una Legge europea sulla Carta Europea della Disabilità e sul Contrassegno Europeo di Parcheggio, ma il nostro lavoro non si ferma qui. Durante l’incontro del 27 febbraio, dunque, cercheremo di rispondere a una serie di domande, vale a dire: cosa dice il testo finale della Legge sulla Carta Europea della Disabilità? Quali sono i vantaggi concreti che questi nuovi documenti possono apportare? Quali i prossimi passi da compiere affinché i vari Stati inizino ad emettere e ad accettare le Carte? – Come possiamo garantire che la Legge sia applicata in modo ambizioso in tutti i Paesi dell’Unione Europea? Il tutto, dunque, per esplorare insieme come sfruttare al meglio queste nuove opportunità a vantaggio delle persone con disabilità». (Stefano Borgato)

Ricordiamo ancora il link al quale è disponibile il modulo di registrazione all’incontro online del 27 febbraio (in cui vanno richieste le didascalie in tempo reale in italiano).

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Centro Papa Giovanni XXIII di Ancona: un corso di “Servizio ai tavoli” per persone con disabilità

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Un corso, promosso dalla Cooperativa Sociale di Ancona Centro Papa Giovanni  XXIII, che si propone di fornire competenze pratiche e teoriche per l’inserimento lavorativo nel settore della ristorazione, con particolare attenzione all’autonomia e alla valorizzazione delle capacità individuali 

Il Centro Papa Giovanni XXIII di Ancona, ente che si occupa di inclusione e formazione nel territorio anche tramite la propria area formazione, ha annunciato l’avvio del corso Servizio ai tavoli di cibi e bevande, opportunità formativa gratuita, destinata a dieci partecipanti con disabilità intellettiva medio-lieve.
L’iniziativa, della durata di 100 ore, si propone di fornire competenze pratiche e teoriche per l’inserimento lavorativo nel settore della ristorazione, con particolare attenzione all’autonomia e alla valorizzazione delle capacità individuali. Il tutto è stato reso possibile grazie al sostegno di Intesa Sanpaolo, nell’ambito del progetto Un ponte per il lavoro, che mira a creare percorsi di inclusione sociale e professionale. Le lezioni si terranno presso lo stesso Centro Papa Giovanni XXIII e saranno condotte da professionisti del settore.
Questa organizzazione marchigiana conferma dunque il proprio impegno nel promuovere percorsi di crescita e autonomia per le persone con disabilità, ribadendo il valore della formazione come strumento di inclusione e realizzazione personale e professionale. (C.C. e S.B.)

Per ulteriori informazioni: Ufficio Comunicazione Centro Papa Giovanni XXIII (Marco Trillini), m.trillini@centropapagiovanni.it.

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Torna in scena “Mai mollare. Il battito sordo di Mauro Grotto”

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Una nuova replica di “Mai mollare. Il battito sordo di Mauro Grotto” è in programma al Centro Culturale Asteria di Milano per la serata del 7 febbraio. Si tratta dello spettacolo teatrale diretto da Luca Rodella e interpretato da Stefano Annoni, che racconta la vita di Mauro Grotto, calciatore della Nazionale Sordi

Una nuova replica di Mai mollare. Il battito sordo di Mauro Grotto è in programma al Centro Culturale Asteria di Milano per la serata del 7 febbraio (Piazza Francesco Carrara, 17, ore 9.30).
Si tratta dello spettacolo teatrale diretto da Luca Rodella e interpretato da Stefano Annoni, che racconta la vita di Mauro Grotto, calciatore della Nazionale Sordi.
«Il filo conduttore di questa storia – avevamo scritto a suo tempo nel presentare lo spettacolo – è la potente spinta vitale che porta costantemente Mauro Grotto a lottare contro l’isolamento causato dalla sua sordità, una condizione che ne ha radicalmente cambiato la vita durante l’adolescenza. Questa determinazione lo porta alla scoperta del calcio, un mondo che diventa per Mauro una nuova scuola di vita, attraverso momenti d’intenso calore negli spogliatoi, battaglie sul campo per integrarsi con compagni sia udenti che non, e soprattutto vittorie e sfide contro se stesso»
Portato in scena con il contributo del Pio Istituto dei Sordi di Milano, lo spettacolo disporrà dei sovratitoli in italiano. (S.B.)

Fare riferimento a questo link per altre notizie e prenotazioni biglietti. Per ulteriori informazioni: info@pioistitutodeisordi.org.

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Per imparare quel che vorrà dire lavoro

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Sono arrivati da tutta Italia, per partecipare a quattro giornate di formazione intensiva a Roma, allo scopo di acquisire strumenti e indicazioni utili nel lavoro: sono i venti futuri lavoratori e lavoratrici con sindrome di Down che hanno preso parte al seminario promosso dall’AIPD (Associazione Italiana Persone Down) e rivolto a giovani adulti, nell’ambito delle iniziative formative previste dal progetto “AIPD per tutti, tutti per AIPD” Foto di gruppo per i partecipanti alla quattro giorni di Roma

Arrivati da tutta Italia, hanno partecipato a quattro giornate di formazione intensiva a Roma, per acquisire strumenti e indicazioni utili nel lavoro: sono i venti futuri lavoratori e lavoratrici con sindrome di Down che hanno preso parte al seminario promosso dall’AIPD (Associazione Italiana Persone Down) e rivolto a giovani adulti, nell’ambito delle iniziative formative previste dal progetto AIPD per tutti, tutti per AIPD (se ne legga già anche la nostra ampia presentazione).
La Libreria Erickson, dunque, nel cuore della Capitale, si è trasformata in una grande aula e soprattutto in una palestra, per sperimentare l’autonomia e concentrarsi nell’apprendimento delle competenze. Ad accompagnare i partecipanti, dieci operatori delle rispettive (Anzio-Nettuno, Brindisi, Catanzaro, Grosseto, Latina, Lecce, Marca Trevigiana, Oristano, Sud Pontino, Versilia).
Il programma del seminario è stato curato da Monica Berarducci, responsabile dell’Osservatorio Lavoro dell’AIPD Nazionale, e gestito insieme a Francesco Cadelano, responsabile per l’Associazione dei Percorsi di Educazione all’Autonomia e a Carlotta Leonori, referente dell’Ufficio Internazionale e di Progettazione. Fondamentale anche il contributo di Barbara Riposo, HR business partner della Società GiGroup.

«Ci sono state lezioni in aula – spiegano dall’AIPD -, ma anche esperienze sul territorio, per scoprire i luoghi di lavoro dove sono impegnati altri giovani con sindrome di Down e per confrontarsi con un lavoratore e un tirocinante».
Il primo giorno, dunque, denominato I mestieri ignoti, è stato dedicato al tema dell’essere adulto e alla preparazione delle uscite. Il secondo giorno, invece, vi è stata una visita al Mercato Centrale e poi, al rientro nella Libreria Erickson, l’approfondimento sul tema dei comportamenti sul posto di lavoro. E ancora, il terzo giorno si è parlato di curriculum vitae e di colloqui di lavoro, mentre nella giornata conclusiva si è discusso di diritti e doveri dei lavoratori, con verifica finale, valutazione del seminario e consegna degli attestati di partecipazione.

«I seminari di orientamento al lavoro per giovani con sindrome di Down – spiega Monica Berarducci – che l’AIPD nazionale promuove dal 2008, sono sempre un momento di formazione importante per i partecipanti, che hanno la possibilità di crescere in consapevolezza su che cosa vorrà dire per loro andare a lavorare e conoscere regole e parole associate a questo mondo. Questa, inoltre, è anche una grande occasione per lasciare la propria casa e la propria città e vivere un’esperienza di indipendenza, confronto e socialità. Il viaggio e poi il soggiorno a Roma offrono infatti l’opportunità di sperimentarsi nelle proprie autonomie, di fare nuovi incontri e di vivere un’esperienza di viaggio e di svago che promuove l’adultità e la crescita di tutti e tutte».

La soddisfazione dei partecipanti è emersa non solo dalla partecipazione attenta e vivace, ma anche dai commenti scritti sui biglietti di valutazione. «Fare questo corso è utile – ha detto ad esempio Federica dell’AIPD di Lecce – anzi è fondamentale per tutti noi. Ci vuole molto impegno nel lavoro e bisogna assumersi delle responsabilità. Io lo consiglierei ai miei amici». «Mi sono divertita – ha aggiunto Cristina dell’AIPD Versilia -, ho imparato cose nuove e fatto altre amicizie». (S.B.)

Per ulteriori informazioni: ufficiostampaaipd@gmail.com.

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A ragionare sul tema della memoria e del suo rapporto con la storia

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«Prendo a prestito un articolo di Andrea Canevaro – scrive Andrea Pancaldi – pubblicato nel 2004 sulla rivista “Infanzia”, per una piccola sottolineatura, una decina di giorni dopo il Giorno della Memoria del 27 gennaio, sull’uso che si fa a volte nel mondo della disabilità delle vicende legate al programma “Aktion T4” relativo all’àmbito dell’eugenetica sotto il regime nazista»

Prendo a prestito qui di seguito un articolo di Andrea Canevaro, pubblicato nel 2004 sulla rivista «Infanzia», per una piccola sottolineatura, una decina di giorni dopo il Giorno della Memoria del 27 gennaio, sull’uso che si fa a volte nel mondo della disabilità delle vicende legate al programma Aktion T4 relativo all’àmbito dell’eugenetica sotto il regime nazista. A volte pare di cogliere una sorta di richiamo al «…ci siamo anche noi!», «…la giornata della memoria non ci deve dimenticare!».
Detto che il tema della memoria, e del suo rapporto con la storia, è un tema molto, molto complesso, Andrea Canevaro ci ricorda di essere attenti nel fare queste “operazioni”, a volte mentali, a volte mediatiche, perché, al di là delle migliori intenzioni, a volte si possono corrono grossi rischi.
Ma lasciamo alle sue stesse parole lo spiegare il perché.

Giuseppe Bartocci, “La memoria dell’acqua”

La parte giusta per essere aiutati e per essere protagonisti
di Andrea Canevaro*, pubblicato dalla rivista «Infanzia», n.12, 2004.

Le memorie che non c’erano
Questa riflessione nasce da un errore commesso involontariamente da chi fa questa stessa riflessione nello svolgere un compito di introduzione a un libro, un libro importante, costituito da una serie di riflessioni, ma soprattutto di testimonianze, sulle comunità di accoglienza e sui protagonisti, i minori e non solo, che vivono queste esperienze come possibilità di ricostruzione della loro vita.
L’introduzione al libro voleva indicare alcune chiavi di lettura contenute e suggerite dal libro stesso, ritenendo che un’introduzione non deve tanto permettersi dei giudizi quanto indicare a chi legge alcune chiavi di lettura e assumersi una responsabilità, così, da indirizzare chi legge verso un certo senso di lettura piuttosto che un altro. A volte, suggerire una chiave di lettura non è un gesto autoritario, al contrario, permette a chi legge di trovare altre chiavi e altri significati. In quel caso la chiave di lettura era anche suggerita dall’accostare a quel testo un libro che era da poco uscito e che raccontava le vicende autobiografiche di chi, bambino, aveva vissuto l’esperienza dei campi di sterminio, e aveva quindi maturato la convinzione che la propria vita fosse tra coloro che dovevano vivere di stenti: fra i topi, con poco da mangiare, nel freddo, senza acqua calda per lavarsi, ma anche con scarsa acqua fredda, con una impossibilità di pensare ad avere panni caldi, cibo in abbondanza, un letto pulito, perché tutto questo era dei torturatori, era degli aguzzini.

Il mondo degli aguzzini era fatto di cibo abbondante, acqua calda, caldo negli ambienti, letti puliti, vestiti. Quando l’uscita dal campo ha permesso a quel bambino di essere accolto in situazioni che avevano delle altre caratteristiche, quel bambino non ebbe tanto il conforto dell’accoglienza quanto il timore di essere finito ancor più prigioniero degli aguzzini. E quella situazione permetteva di rendere ancora più evidente il dovere dei centri di accoglienza e delle comunità di accoglienza di tener conto delle caratteristiche degli ospiti, e di capire che l’offerta di una vita migliore poteva anche non essere capita come una offerta positiva, ma poteva essere vissuta come minaccia di perdita di punti di contatto con la realtà che in qualche modo poteva essere controllata, che aveva una vita nelle strade, nelle stazioni, aveva maturato un riconoscimento dei segni in quegli ambienti che, per quanto miseri e a volte anche tragici, erano i suoi ambienti, mentre in una comunità di accoglienza, fatta di pasti caldi, di lenzuola pulite, di doccia possibile, tutto era sconosciuto e poteva fare paura.
A distanza di un po’ di tempo nacque il caso, perché quel libro, utilizzato per indicare una chiave di lettura, venne accusato di essere un falso, e il suo autore di non avere vissuto affatto l’esperienza dei campi di sterminio ma di averla inventata, o per lo meno di averla attribuita a una dimensione autobiografica, mentre aveva, con accenti di veridicità tali da costituire un documento di grande valore letterario, ma di averla in qualche modo falsata.
Dato che l’operazione venne condotta sui grandi mezzi di informazione, venne anche il sospetto che fosse una provocazione scandalistica. E l’autore si difese, si fece difendere, e la sua difesa si configurò come un risentimento doloroso, dando l’impressione di essere persona effettivamente ferita dalle accuse che gli venivano rivolte.

A distanza di altro tempo, altri mezzi, meno scandalistici, più capaci di credibilità, hanno reso più plausibile l’idea che l’autore abbia costruito, con molta verosimiglianza e quindi con credibilità, una autobiografia che non era vera. E qualcuno ha riflettuto su come poteva essere accaduto questo, e come poteva prestarsi un’operazione del genere ad essere a sua volta strumentalizzata dai negazionisti, cioè da coloro che negano la consistenza, o addirittura l’esistenza, dei campi di sterminio nazisti.
Sembra quasi accertato – il quasi è……, ma l’accertamento sembra proprio essere preciso – che Binjamin Wilkomirski, tale è il nome dell’autore di quella narrazione con pretesa autobiografica, non sia nato in Lituania, ma sia svizzero, sia stato adottato realmente da una coppia svizzera, ma non abbia una biografia coincidente con quella di un bambino vissuto nei campi di sterminio. Sarebbe nato un paio di anni dopo, e avrebbe vissuto in Svizzera.
Appena queste notizie furono precisate, chi aveva commentato e valorizzato l’autobiografia, ritenuta tale, di Binjamin Wilkomirski si era sentito tradito, ed anche chi fa queste riflessioni si è sentito tradito e a sua volta ha pensato di avere tradito e ingannato, sia pure involontariamente, i lettori, ma anche gli amici che gli avevano chiesto di fare un’introduzione a un libro degno, utile importante.

A distanza, ancora, di qualche tempo, un’altra voce è interessante per capire qualche cosa di più di questa vicenda veramente singolare. Elena Lappin ha voluto indagare, con un’attenzione delicata, le vicende di Wilkomirski, ha potuto incontrare più volte questa persona, ha potuto rendersi conto di una dimensione particolare della psicologia di quest’uomo, e quindi non ha tanto stabilito la personalità di un falsario, quanto una psicologia particolare che lei ha individuato in quella doppia testa che qualche studioso ha, sul piano letterario e sul piano psicologico, individuato come possibile, una testa visibile e una testa invisibile, una doppia personalità che non è necessariamente segno di schizofrenia, ma è possibilità di soffrire quello che non si è vissuto, immaginando di averlo vissuto. È possibile che colui che ha indossato il nome di Binjamin Wilkomirski abbia realmente vissuto e viva la sofferenza di quella vicenda che non ha vissuto nella cronaca, ma solo nella testa.
Il lavoro di Elena Lappin è attento e non porta a dichiarare Wilkomirski un falsario, porta a capire meglio qualche cosa che non è del tutto comprensibile e che non è del tutto spiegabile. Porta a incontrare un caso umano che permette di fare una serie di considerazioni non necessariamente appoggiate allo stesso autore Wilkomirski, allo stesso individuo Wilkomirski, ma più ampie, più libere. Permette, in particolare, di riattribuire a quell’introduzione e al libro che introduce un senso non più dubbio ma anche rinforzato.

La necessità di interpretare una parte
Vogliamo riflettere continuando quella chiave di lettura delle vite perdute e ritrovate che si incontrano, o che si possono incontrare, nelle comunità di accoglienza, in cui il disorientamento della buona accoglienza si accompagna, quasi, al rimpianto di un tempo sicuramente aspro, ma in cui c’era una maggiore padronanza degli elementi della propria vita.
Noi sappiamo essere abbastanza prudenti in questo, e non vorremmo intendere, né fare intendere, che sia meglio lasciare gli individui che soffrono nelle loro sofferenze perché sono loro. No, bisogna liberare dalle sofferenze, ma la liberazione ha bisogno di una possibilità di partecipazione. E le comunità di accoglienza sanno che è loro compito, che svolgono con molta qualità, con molta onestà, proprio quello di rendere partecipi della liberazione, e quindi di non fare che la liberazione sia una attività degli uni e una passività degli altri, ma che sia un intreccio, una condivisione, un’accoglienza e un lasciare spazio, un permettere che l’altro trovi un suo spazio, e non preordinare uno spazio per l’altro.
Tutto ciò si rinforza proprio con una certa interpretazione, assolutamente libera dalla necessità di essere l’interpretazione, ma come riflessione, appunto, della vicenda di Wilkomirski. Si potrebbe dire, semplificando di molto una situazione tanto ingarbugliata e complessa, che Wilkomirski, quello che continuiamo a chiamare con questo nome, rappresenti un caso esemplare di coloro che si autoconvincono con molta profondità che, per ottenere un ascolto che non sia unicamente da comparse, ma che permetta anche la maturazione di una parte da protagonisti, sia molto opportuno raggiungere l’intensità di sofferenza maggiore. Lo sentiamo dire, lo diciamo, è il commento che spesso si fa a certi usi della televisione e comunque anche dei grandi mezzi di comunicazione, indurre gli individui ad alzare il livello di drammaticità delle proprie situazioni, per potersi prendere una parte di attenzione, il più possibile e basta, del grande pubblico: quindi esasperare i toni, e non solo esasperarli per quel momento, ma con anche una vera e propria partecipazione della propria vita, interpretando fino in fondo la parte di coloro che hanno subito ingiustizia, ad esempio, o violenze; esasperare i toni per ottenere non solo una pietà, ma anche un ruolo da protagonisti. Ed è immaginabile che una delle più grandi tragedie che rimane, una delle più grandi tragedie di tutti i tempi, nonostante ve ne siano state anche altre – quella dello sterminio compiuto dai nazisti nei confronti di ebrei, zingari, omosessuali, dissidenti politici, oltre a quegli stermini in corso d’opera che riguardavano i malati mentali e gli handicappati – che questa grande tragedia attiri in qualche modo l’attenzione di chi ha capito, o ha creduto di capire che, se potesse fare coincidere la propria sofferenza con quella, avrebbe raggiunto il vertice della sofferenza e quindi avrebbe raggiunto la più grande possibilità di ascolto e anche la più grande possibilità di proporsi come protagonista della sofferenza, e quindi anche protagonista delle redenzione della sofferenza.

Questo è un elemento sicuramente discutibile, che non si può proporre come un assoluto, ma come appunto una riflessione: la possibilità di vivere ogni elemento della nostra vita in termini di classificazione competitiva, deforme, in maniera profonda. A volte abbiamo l’impressione che abbia anche qualche carattere di irrimediabilità, sia pure nell’orizzonte della storia che viviamo, e non certo in termini assoluti, la nostra percezione. E ci induce a fare un’operazione quanto mai contorta che è quella di immaginare come sarebbe meglio, se abbiamo una piccola sofferenza, scambiarla con una sofferenza grande, perché quella sarebbe ascoltata, avrebbe l’attenzione degli altri. E se noi abbiamo capito che la più grande sofferenza del secolo – anche se siamo con un calendario che ci parla di un altro secolo viviamo ancora quel secolo – è quella e non altra, la nostra aspirazione è di essere quella.
Questo è un utilizzo improprio dell’analogia e della metafora. La nostra sofferenza non è come quella di chi ha sofferto o paragonabile a…, no, vogliamo che sia quella! Le ragioni anagrafiche non permettono di potere identificarsi in termini tali da poter moltiplicare le autobiografie dei sopravvissuti ai campi di sterminio. Ma quando ci fosse una possibilità in tal senso, o quando ci fosse la possibilità di interpretare la parte dei perseguitati per altri stermini, per altri genocidi, per altri eccessi di disumanizzazione, noi potremmo anche aspirare a far parte di quei perseguitati, di quelle vittime, ed essere vittime di grandi ingiustizie è quasi essere protagonisti.
Questa riflessione rischia molto, nel senso delle forzature, perché parte da un caso estremo che ha voluto essere doppiamente estremo: estremo come individuo ed estrema la situazione storica in cui si è proiettato. E da quel caso estremo questa riflessione vuole dedurre delle indicazioni più ampie, meno circoscritte. È a rischio, ce ne rendiamo ben conto, ma abbiamo molti elementi che permettono di supportare l’estensione, e che vanno intesi in due direzioni molto diverse tra loro, ma con qualche analogia.

La prima, apparentemente più circoscritta, riguarda chi ha compiti intellettuali. Nel gioco delle assunzioni dei compiti intellettuali vi sono certamente le esigenze di essere ascoltati, di essere riconosciuti, di avere quindi un pubblico, si può dire.
E quale migliore pubblico di quello che potesse coincidere con il grande pubblico colpito dalle sofferenze? E quindi una prima riflessione riguarda il nostro ruolo di persone che hanno dei compiti intellettuali, e che possono mettere nel gioco del riconoscimento quelle attenzioni alle situazioni tragiche che permettono di avere il riconoscimento stesso, con tutte le possibilità che il termine gioco, usato in una concezione più dinamica che ludica, consente di avere, per cui ci si può identificare, ma si può anche, ed è il ruolo interpretato dai negazionisti, avere una ricerca di riconoscibilità proprio negando quella precisa sofferenza oppure, anche con disinvoltura, negando la possibilità che una sofferenza sia sofferenza. Ad esempio: la quotidianità ci porta a contatto con gravi violenze di vario tipo, anche di carattere sessuale, nei confronti dell’infanzia, e vi può essere una ricerca di riconoscimento nell’identificazione di quella sofferenza come “la mia”, oppure nella negazione di quella situazione come sofferenza, o invece nell’attribuire a quella situazione altre caratteristiche, anche di gioia, come una forzatura della realtà, leggibile più come desiderio di un proprio riconoscimento, che non come contributo alla conoscenza della realtà stessa.

Collegato a questo c’è il secondo elemento di riflessione che riguarda proprio l’infanzia. A volte si ha la sorpresa amara di scoprire che bambini e bambine testimoni, e non solo testimoni ma anche protagonisti, martiri di sofferenze, di violenze compiute su di loro da parte di adulti, in realtà avevano falsato quello che era stato compiuto, lo avevano inventato, ed erano diventati falsi martiri. Anche in questo caso la preoccupazione di molti, nell’educazione come nell’informazione, è che una storia inventata inquini le tante altre situazioni reali che purtroppo esistono.
La riflessione da fare è ancora una volta quella di come sia seducente, per chi desidera essere ascoltato, raggiungere quella che viene presentata, e finisce per essere creduta, la situazione in cui l’ascolto è garantito, e in cui si è sicuri protagonisti. E questo deforma in maniera profonda il senso della realtà. Si sovrappone alla realtà un’invenzione determinata da una ricerca di risultati che non può che essere del tutto precaria. E si collega a quella diffusa percezione di come sia più importante essere protagonisti, quale che sia il prezzo da pagare.

A volte questo diventa davvero un elemento di tragicità, quando l’opinione pubblica viene informata del grande successo – si può usare questa parola purtroppo – che hanno i protagonisti tragici di certi avvenimenti. In Belgio l’autore di fatti di violenza sessuale terminati con uccisioni, incarcerato, ci ha sempre informato la grande stampa, ha ricevuto un numero strepitoso di dichiarazioni appassionate da parte di molte donne – e non crediamo che questo voglia dire che le donne hanno un debole per le figure con queste caratteristiche, perché vale la stessa operazione per gli uomini. È una società che, stranamente, in termini veramente singolari, per quello che sappiamo, configura l’elemento del protagonismo come talmente più importante di ogni altra considerazione, da permettere di sperare, al peggiore dei delinquenti, di avere successo, perché diventa protagonista.
Sull’infanzia questa immagine si rivela immediatamente come fortemente importante, e fornisce a chi cresce una concezione sociale inevitabilmente violenta, in cui l’elemento violenza può diventare anche accettabile, purché sia lo strumento giusto per arrivare al successo del protagonismo. Violenza subita, ma anche violenza attiva, nei confronti degli altri.
Questo modo di percepire la società e l’organizzazione dei suoi valori colpisce soprattutto perché è molto presente a chi fa delle riflessioni educative, e sembra incapace di essere altrettanto presente in chi ha dei compiti così importanti, quali sono quelli dell’informazione. Moltissime occasioni di riflessione per l’informazione vengono arginate, circoscritte, e lo stesso termine pedagogico ha una connotazione di ridicolo, quasi, o di noiosamente pedantesco. Quando si suole indicare la strada sbagliata al mondo dell’informazione, si dice che la televisione non deve avere un carattere pedagogico, o la grande stampa e altrettanto. Questo significa proprio che l’idea della pedagogia come riflessione sugli elementi educativi che sono in tutte le azioni umane, e non solo umane, non è presente, o per lo meno è rifiutata, e forse il rifiuto è più duro ancora che la non presenza. Quindi vi è una deresponsabilizzazione molto ampia dei grandi settori dell’informazione che non ritengono necessario cambiare nulla di ciò che fanno, permettendo così che sia sempre più forte la percezione sociale del successo e del protagonismo come quelli che bisogna conquistare per forza, e quindi della strumentalizzazione della violenza.

Tutta questa riflessione nasce dalla possibilità di leggere la storia raccontata da Wilkomirski con la veridicità che essa contiene, e anche con l’altra storia che rimane tra le righe, quella del suo autore, capace di soffrire realmente per qualcosa che, al punto in cui è, probabilmente ritiene di avere vissuto, e che non ha vissuto, ma che è stato quasi costretto a vivere, per potere identificarsi con il successo della sofferenza. E usando questa espressione “il successo della sofferenza” si capisce quale possibile perversione stiamo vivendo: la sofferenza garantisce dei successi. E questo, per chi ha delle responsabilità educative nei confronti dell’infanzia, è un punto su cui non smettere di riflettere e non smettere di operare.

I grassetti nel testo sono di mano redazionale.

*Andrea Canevaro (1939-2022) è stato professore di Didattica e Pedagogia Speciale all’Università di Bologna (Scuola di Psicologia e Scienze della Formazione).

Nota bibliografica:
– AA.VV., Minori: luoghi comuni: crescere in comunità, a cura di Gabriella Gabrielli, Gruppo Minori CNCA, Capodarco di Fermo, Comunità Edizioni, 1996.
– Binjamin Wilkomirski, Frantumi. Un’infanzia (1939-1948), Milano, Mondadori, 1990 (edizione originale 1985).
– Elena Lappin, L’homme qui avait deux têtes, Paris, Éditions de l’Olivierd/Le Seuil, 2000 (edizione originale 1999).

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“Sessualità e SLA”: un tema da esplorare insieme

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“Sessualità e SLA”: si chiama così il documento nato dall’esperienza clinica maturata negli anni e dalle testimonianze raccolte dal Centro d’Ascolto di AISLA e che sarà presentato durante un incontro online organizzato per il prossimo 14 febbraio “Il bacio”, celebre dipinto di Klimt, scelto per illustrare il tema del webinar di AISLA

Sessualità e SLA: si chiama così il documento nato dall’esperienza clinica maturata negli anni e dalle testimonianze raccolte dal Centro d’Ascolto dell’AISLA (Associazione Italiana Sclerosi Laterale Amiotrofica), che sarà presentato, durante un incontro online, nel pomeriggio del 14 febbraio (ore 17). Questo lavoro evidenzia l’importanza di mantenere una vita sessuale attiva e di sentirsi liberi di parlarne, anche per le persone con la SLA e per i loro partner.

L’Associazione, da sempre impegnata nel rispondere alle esigenze delle persone affette da SLA, ha promosso questo progetto con l’obiettivo di «informare e sensibilizzare su un tema spesso trascurato; normalizzare una sessualità sana basata su consensualità, legalità e piacevolezza; offrire un supporto qualificato non solo alle coppie ma anche agli operatori sanitari che si confrontano con questo argomento».

Il documento è rivolto sia alle persone con SLA e ai loro partner, sia ai professionisti della salute, che talvolta possono incontrare difficoltà nell’affrontare il tema della sessualità in modo adeguato, per mancanza di strumenti o per timori legati alla privacy.
Il link di accesso al webinar sarà fornito dopo l’iscrizione (tramite questo link) e per arricchire il dibattito e rendere la presentazione ancora più significativa, è possibile condividere in forma anonima una domanda o una riflessione. (C.C.)

A questo link il programma completo del webinar. Per ulteriori informazioni: ufficiostampa@aisla.it; formazione@aisla.it.

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Prima riunione dell’anno per l’Osservatorio Nazionale sulla Condizione delle Persone con Disabilità

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Al centro della prima riunione del 2025 tenuta dall’Osservatorio Nazionale sulla Condizione delle Persone con Disabilità vi è stato segnatamente l’avvio, dal 1° gennaio scorso, della sperimentazione avviata in nove Province, per l’applicazione del Decreto Legislativo 62/24, riguardante la definizione della condizione di disabilità, della valutazione di base, di accomodamento ragionevole, della valutazione multidimensionale per l’elaborazione e l’attuazione del progetto di vita individuale personalizzato e partecipato I componenti dell’Autorità Garante Nazionale dei diritti delle persone con disabilità, insieme alla ministra Locatelli. Da sinistra: Francesco Vaia, Alessandra Locatelli, Antonio Pelagatti e Maurizio Borgo

Al centro della prima riunione del 2025 tenuta dall’Osservatorio Nazionale sulla Condizione delle Persone con Disabilità vi è stato segnatamente l’avvio, dal 1° gennaio scorso, della sperimentazione avviata in nove Province (Brescia, Catanzaro, Firenze, Forlì-Cesena, Frosinone, Perugia, Salerno, Sassari e Trieste), per l’applicazione del Decreto Legislativo 62/24, riguardante la definizione della condizione di disabilità, della valutazione di base, di accomodamento ragionevole, della valutazione multidimensionale per l’elaborazione e l’attuazione del progetto di vita individuale personalizzato e partecipato, norma attuativa della Legge Delega 227/21 in materia di disabilità. «Dobbiamo proseguire uniti e convinti in questa direzione – ha dichiarato per l’occasione la ministra per le Disabilità Alessandra Locatelli -, il cambiamento è iniziato e indietro non si torna».

Durante la riunione, poi, che ha visto anche la presentazione ufficiale dell’Autorità Garante Nazionale dei diritti delle persone con disabilità, con l’intervento del presidente di essa Maurizio Borgo, Locatelli ha anche ricordato l’appuntamento degli Special Olympics Winter Games, in programma a Torino dall’8 al 15 marzo, mentre Carmela Pace, presidente del Comitato Italiano per l’UNICEF, ha illustrato la traduzione italiana del Commento Generale n. 9 del Comitato ONU sui Diritti dell’Infanzia, che dedica una particolare attenzione ai bambini e agli adolescenti con disabilità.

Da segnalare infine anche la presentazione da parte di Luigi Colombo del Festival del Cinema Nuovo di Bergamo, concorso internazionale di cortometraggi interpretati da persone con disabilità, e l’intervento di Camillo Galluccio, che ha illustrato il 3° Festival Nazionale dello sport per bambini e ragazzi, organizzato dall’ENS (Ente Nazionale Sordi). (S.B.)

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Accessibilità nei trasporti: una collaborazione tra FlixBus e l’Associazione Coscioni

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Grazie soprattutto a un costante confronto con l’Associazione Luca Coscioni, l’azienda tedesca di autobus Flixbus ha migliorato il trasporto delle persone con disabilità incrementando la propria flotta con diciassette nuovi mezzi dotati di pedane

Grazie soprattutto a un confronto continuativo con l’Associazione Luca Coscioni, l’azienda FlixBus ha migliorato il trasporto delle persone con disabilità, incrementando la propria flotta con 17 nuovi autobus dotati di pedane, che si sommano ai 15 già introdotti nel 2023.
Dopo questi interventi, dunque, il numero totale di autobus idonei al trasporto di persone con disabilità è passato dagli 82 del 2020 ai 114 di oggi, registrando un incremento complessivo del 30%.
L’azienda tedesca di autobus low cost ha inoltre già da tempo predisposto all’interno del proprio sito un’area dedicata volta a garantire una corretta assistenza alle persone con disabilità, oltre ad avere messo a disposizione, in svariate città italiane, il servizio di accompagnamento di UGO per persone anziane e a mobilità ridotta che vengono assistite nella salita e nella discesa dagli autobus, così come nella gestione dei bagagli e negli spostamenti da e verso le fermate di partenza e di arrivo. (C.C.)

Per maggiori informazioni: Gianandrea Bufi (Ufficio Stampa Associazione Coscioni), gianandrea.bufi@associazionelucacoscioni.it.

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Arrivi finalmente la Legge che dia piena cittadinanza alle persone con epilessia!

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«La clandestinità a cui sono costrette 550.000 persone con epilessia del nostro Paese e le loro famiglie è il frutto della mancanza di una Legge che dia loro piena cittadinanza»: lo dice Giovanni Battista Pesce, presidente dell’AICE, nell’imminenza della Giornata Internazionale dell’Epilessia del 10 febbraio, ed è proprio sull’esigenza di arrivare finalmente all’approvazione di una Legge, che la stessa AICE punta tutta la propria attenzione Una delle tante realizzazioni grafiche elaborate per la Giornata Internazionale dell’Epilessia

«Quando si spegneranno le luci viola e i comunicati celebranti la Giornata Internazionale, le nostre famiglie, che vedono per una semplice crisi il figlio rifiutato nelle gite scolastiche o nei centri sportivi o se stessi rifiutati o licenziati dal lavoro, senza poter accedere al collocamento mirato e a quel minimo di misure inclusive riconosciute a quanti siano in condizione di disabilità, forse pochi avranno compreso che la clandestinità in cui sono costrette le persone con epilessia non è frutto di uno “stigma culturale”, ma della mancanza di una Legge che rimuova le barriere che impediscono a 550.000 italiani e alle loro famiglie pari diritti come per tutti»: a dirlo è Giovanni Battista Pesce, presidente dell’AICE (Associazione Italiana Contro l’Epilessia), nell’imminenza della Giornata Internazionale dell’Epilessia (International Epilepsy Day) del 10 febbraio, evento che si celebra ogni anno il secondo lunedì del mese di febbraio.

È dunque proprio sull’esigenza di arrivare a una Legge che dia finalmente piena cittadinanza alle persone con epilessia, che punta tutta la propria attenzione l’AICE, per il 10 febbraio di quest’anno. «Sono oltre 550.000 – ricorda infatti ancora il Presidente dell’Associazione – i cittadini e le cittadine del nostro Paese che, insieme alle loro famiglie, vivono le numerose e distinte condizioni patologiche, tutte caratterizzate dalla manifestazione di crisi epilettiche, raccolte in un termine di origine greca, epilessia che esprime nell’immediato il forte impatto, personale e sociale, di questa malattia: “essere colti di sorpresa”. I monumenti illuminati di viola, il colore che contraddistingue questa patologia vissuta da oltre 50 milioni di persone al mondo, e che il 10 febbraio prossimo rimarranno accesi, coincideranno dunque con una nostra precisa e diretta richiesta al ministro della Salute Schillaci, alla ministra per le Disabilità Locatelli e al sottosegretario all’Economia e alle Finanze Freni, di adoperarsi affinché venga consegnata la relazione tecnica richiesta dal Senato dal mese di giugno dello scorso anno, per poter procedere all’approvazione del Disegno di Legge 898 (Disposizioni per la tutela delle persone affette da epilessia), promosso dalla nostra Associazione e sul quale vi è volontà bipartisan, un testo, per altro, trattato congiuntamente con altri, promossi anch’essi dalla nostra Associazione (Disegni di Legge 122, 410 e 269)».

Sul fronte, infine, della ricerca scientifica, e sempre in occasione della Giornata Internazionale del 10 febbraio, «tenendo conto del permanere del 40% dei casi di epilessia farmaco-restistente – dichiara Pesce -, della disponibilità di farmaci che non curano le cause della malattia, ma, per i più fortunati, ne sedano solo i sintomi, oltreché nell’assenza di dispositivi che preallertino l’insorgenza di una crisi, la nostra Associazione conferma il proprio impegno a sostegno della ricerca, destinando 40.000 euro, tramite il 19° bando AICE FIRE (Fondazione Italiana per la Ricerca sull’Epilessia)». (S.B.)

Per ulteriori informazioni: assaice@gmail.com.

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Abilismo e stigma: l’attivismo delle persone con disabilità e la lotta contro le discriminazioni

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«Abilismo e discriminazione – scrive Elisa Marino – sono strettamente interconnessi, poiché spesso il primo è la causa e l’origine della seconda. Le persone con disabilità affrontano quotidianamente, e nei vari àmbiti della vita, discriminazioni sia dirette che indirette. Per eliminare gli episodi di discriminazione basata sulla disabilità e l’abilismo, le persone, sia con che senza disabilità, devono sapere riconoscere tali fenomeni ed essere a conoscenza degli strumenti di contrasto esistenti» La “piramide dell’abilismo”

Abilismo e discriminazione sono strettamente interconnessi, poiché spesso il primo è la causa e l’origine della seconda. Le persone con disabilità affrontano quotidianamente, e nei vari àmbiti della vita, forme di discriminazione, sia dirette che indirette.
Molto frequentemente tali fenomeni, talvolta ancora presenti anche nella normativa, derivano da stereotipi e da una visione della disabilità basata sul cosiddetto “modello medico”, che considera le persone con disabilità come individui bisognosi di carità e di aiuto, e non come soggetti titolari di diritti e doveri, capaci di autodeterminarsi, di decidere per sé e di governare le proprie vite.

La Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, strumento di diritto internazionale sui diritti umani, basato appunto sul modello dei diritti umani e su un concetto di disabilità intesa come condizione della persona derivante da un ambiente pieno di barriere, anche di tipo culturale, riconosce esplicitamente e chiaramente sia il principio di non discriminazione, come uno dei suoi princìpi fondamentali per l’implementazione dei diritti delle persone con disabilità, sia la necessità di abbattere stereotipi e pregiudizi nei loro confronti, al fine di garantire e tutelare i loro diritti e le loro libertà fondamentali in condizioni di parità con gli altri.
L’articolo 8 della Convenzione (Accrescimento della consapevolezza) stabilisce l’obbligo per gli Stati di adottare azioni e politiche di sensibilizzazione, al fine di promuovere la consapevolezza delle capacità e dei contributi delle persone con disabilità. Tra le azioni previste: «comma 1, (a) avviare e condurre efficaci campagne di sensibilizzazione del pubblico, al fine di: (i) favorire un atteggiamento recettivo verso i diritti delle persone con disabilità; (ii) promuovere una percezione positiva e una maggiore consapevolezza sociale nei confronti delle persone con disabilità; (iii) promuovere il riconoscimento delle capacità, dei meriti e delle attitudini delle persone con disabilità, e del loro contributo nell’ambiente lavorativo e sul mercato del lavoro; (b) promuovere, a tutti i livelli del sistema educativo, con particolare attenzione ai minori sin dalla più tenera età, un atteggiamento di rispetto per i diritti delle persone con disabilità; (c) incoraggiare tutti i mezzi di comunicazione a rappresentare le persone con disabilità in modo conforme agli obiettivi della presente Convenzione; comma 2: (d) promuovere programmi di formazione per accrescere la consapevolezza riguardo alle persone con disabilità e ai loro diritti».
Questo dovere è stabilito proprio per il legame stretto tra il diniego dei diritti e la diffusione di stereotipi.

Il ruolo del movimento associativo si è dimostrato essenziale nella lotta alla discriminazione e all’abilismo. Sia a livello nazionale che internazionale, le Associazioni rappresentative sono state tra le forze motrici dei principali riconoscimenti e tutele dei diritti. Si pensi alla stessa Convenzione ONU, alla Carta Europea della Disabilità (European Disability Card) e, in Italia, alla Legge 104/92 o alla recente Legge Delega 227/21 in materia di disabilità. A tal proposito, la FISH (già Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap, oggi Federazione Italiana per i Diritti delle Persone con Disabilità e Famiglie), da più di trent’anni si impegna affinché le persone con disabilità possano essere parte attiva della società e vivere una vita indipendente. Lo fa attraverso attività di informazione contro le discriminazioni, tramite i propri strumenti, e su come riconoscere tali fenomeni, organizzando azioni di sensibilizzazione sulle condizioni di vita delle persone con disabilità, e fornendo notizie e chiarimenti giuridici e sulle procedure amministrative relative ai diritti delle persone con disabilità.

Per eliminare gli episodi di discriminazione basata sulla disabilità e l’abilismo, è necessario che le persone, sia con che senza disabilità, sappiano riconoscere tali fenomeni e siano a conoscenza degli strumenti di contrasto esistenti. È questa conoscenza che ci si impegna a diffondere, attraverso convegni, webinar, eventi rivolti a tutti e corsi di formazione per gli addetti ai lavori. Portiamo avanti il nostro compito anche utilizzando, in tutte le nostre azioni politiche e progettuali, un linguaggio corretto sul tema della disabilità. Ci confrontiamo, infine, con il Legislatore nazionale ed europeo, grazie all’EDF, il Forum Europeo sulla Disabilità, proponendo e spingendo per riforme normative che vadano a garantire il rispetto dei diritti delle persone con disabilità.

Per combattere la discriminazione, come detto, è essenziale conoscere il fenomeno e quindi raccogliere i dati. Da anni, il mondo associativo che rappresentiamo chiede una raccolta dati strutturata e organizzata riguardo alle condizioni di vita delle persone con disabilità e alle realtà discriminatorie, di diniego dei diritti o di violenza che esse vivono. In assenza di tali dati, noi stessi abbiamo effettuato raccolte e progetti per conoscere meglio queste realtà.

*Componente dell’Ufficio Legislativo della FISH (Federazione Italiana per i Diritti delle Persone con Disabilità e Famiglie). Il presente testo corrisponde ai contenuti dell’intervento pronunciato il 28 gennaio scorso, in occasione del webinar “La tutela dei diritti fondamentali in Italia. Strategie di resistenza e risposta alle discriminazioni”, organizzato dalla Fondazione Brodolini nell’ambito del progetto “FAIR”(“EU Charter of fundamental rights: awareness raising and instrument to promote a culture of rights”).

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San Marino e Andorra: i diversi percorsi per la Vita Indipendente in due piccoli Stati

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San Marino e Andorra sono due piccoli Stati accomunati da molteplici aspetti e tuttavia, come viene spiegato dall’Associazione sammarinese Attiva-Mente, nel campo delle politiche per la disabilità in generale, ma in particolare nella promozione della Vita Indipendente delle persone con disabilità, emergono differenze profonde e significative  I due piccoli Stati europei di San Marino e Andorra

L’autonomia, secondo il movimento per la Vita Indipendente, non va intesa come l’essere autosufficienti o il fare tutto da soli, ma piuttosto come la capacità di scegliere e gestire consapevolmente le proprie dipendenze, avendo a disposizione gli strumenti e le opzioni possibili.
A San Marino, i princìpi fondamentali della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, ratificata nel 2008 dalla Repubblica del Titano [22 febbraio 2008, N.d.R.], restano ancora lontani dall’essere pienamente attuati. L’articolo 19 della Convenzione (Vita Indipendente ed inclusione nella società), che sancisce il diritto alla Vita Indipendente, è rimasto del tutto inapplicato: non esistono, a San Marino, fondi per la non autosufficienza, provvedimenti di alcun genere a sostegno di progetti “Dopo di Noi” o in favore dei caregiver familiari, né un sistema strutturato di assistenza personale autogestita. Le poche iniziative legislative in materia (Istanze d’Arengo) sono state respinte o non hanno avuto seguito concreto.
Mancano, inoltre, campagne mirate di sensibilizzazione che trasformino la percezione pubblica della disabilità e tanto altro. La visione prevalente è ancora legata a doppio filo al modello medico-assistenziale, il quale, piuttosto che favorire, ostacola la piena partecipazione delle persone con disabilità alla vita pubblica, politica e sociale.

San Marino e Andorra sono due piccoli Stati accomunati da molteplici aspetti. Uno dei più rilevanti, soprattutto in questo momento storico, è il percorso condiviso di associazione all’Unione Europea, un processo che comporta sfide e opportunità con possibili future ricadute anche sulle politiche sociali.
Ma le affinità tra i due Paesi non si fermano qui: entrambi condividono caratteristiche economiche, culturali e sociali, oltre a tradizioni, dimensioni territoriali contenute e un numero ridotto di abitanti.
Tuttavia, nel campo delle politiche per la disabilità in generale, ma in particolare nella promozione della Vita Indipendente delle persone con disabilità, emergono differenze profonde e significative (per rendersene conto basta consultare i rispettivi portali ufficiali a questo e a questo link).
Andorra, pur avendo ratificato la Convenzione ONU nel 2014 [11 marzo 2014, N.d.R.], sei anni dopo San Marino, si è distinta anche nei consessi internazionali per politiche innovative e avanzate a favore delle persone con disabilità. Tra queste, ad esempio, il Servei d’Assistència Personal, che rappresenta un pilastro fondamentale, offrendo supporti personalizzati per attività quotidiane, lavorative e sociali, promuovendo autonomia e inclusione.
Un altro programma chiave è Vida Independent: “Me’n vaig a casa meva”, che garantisce il diritto di scelta in àmbito abitativo, permettendo alle persone con disabilità di vivere dove e come preferiscono, con accesso ai servizi necessari.
Questi programmi, finanziati pubblicamente, sono progettati e gestiti con il coinvolgimento diretto delle persone con disabilità, assicurando un approccio realmente inclusivo. Inoltre, Andorra ha avviato forti campagne di sensibilizzazione per promuovere la cultura dell’inclusione e del rispetto dei diritti umani.

Garantire il diritto alla Vita Indipendente significa abbracciare un cambiamento culturale profondo, traducendo i principi della Convenzione ONU in azioni concrete, mettendo al centro le persone con disabilità. San Marino non può continuare a voltare le spalle ai loro bisogni e ai loro diritti.
Guardare al modello andorrano e ad altri esempi virtuosi non è solo un’opportunità, ma una responsabilità, perché una società inclusiva, oltre a essere un vanto, è una necessità.

*Attiva-Mente è un’Associazione della Repubblica di San Marino (contatto@attiva-mente.info).

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Una guida sul supporto tra pari nell’area della salute mentale

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Mental Health Europe (MHE), la principale organizzazione non governativa europea indipendente impegnata nella tutela dei diritti delle persone con disabilità psicosociali, ha pubblicato una guida sul supporto tra pari nell’area della salute mentale, ove si illustra l’evoluzione storica del supporto tra pari che ha portato al consolidamento di questa pratica e che ha validato, anche in termini di evidenze scientifiche, i benefìci dell’impiego di essa nei team dei servizi per la salute mentale L’immagine di copertina della guida prodotta dall’MHE

Lo scorso dicembre l’MHE (Mental Health Europe) – la principale organizzazione non governativa europea indipendente impegnata nella tutela dei diritti delle persone con disabilità psicosociali – ha pubblicato la Short Guide. Peer Support in Mental Health Care (in italiano: “Guida breve. Il supporto tra pari nell’assistenza [nell’area della] salute mentale). Il testo originale in inglese è disponibile a questo link, mentre la versione in italiano, prodotta in modo automatico, e dunque non verificata, è disponibile a quest’altro link.
Scopo della Guida – viene spiegato nell’introduzione – è quello di fornire a chi legge una migliore comprensione del ruolo della figura del peer supporters (sostenitore/sostenitrice tra pari) nel percorso di recupero delle persone con problemi di salute mentale o disabilità psicosociali, di mostrare come il supporto tra pari sia stato implementato nei diversi Paesi europei, di riflettere sulle lezioni apprese e di fornire raccomandazioni per il trasferimento di tali pratiche in tutta Europa.
Si tratta della sesta pubblicazione di una serie di guide brevi prodotte dall’MME nelle quali sono stati approfonditi diversi altri argomenti inerenti all’area della salute mentale.
La Guida breve sul supporto tra pari è stata redatta dallo Psychosocial Approach Expert Group (Gruppo di esperti/e sull’approccio psicosociale) e si è avvalsa dei contributi dei/delle componenti di MHE.

Il supporto tra pari si concretizza «quando le persone usano le proprie esperienze per aiutarsi a vicenda». Si tratta di persone che vivono o hanno vissuto situazioni simili nell’àmbito della salute mentale, e che dunque sono in grado di relazionarsi personalmente e supportare altre persone nei percorsi di recupero che desiderano intraprendere.
Nella Guida ricorre spesso il concetto di recupero, espressione con la quale si intende «il raggiungimento di uno stato ottimale di benessere personale, sociale ed emotivo, come definito da ogni individuo, mentre si vive o ci si riprende da una difficoltà di salute mentale».
La condivisione, che è uno degli elementi centrali della pratica, fa sì che le persone si relazionino su un piano di parità e che le diverse opinioni ed esperienze siano tutte ugualmente apprezzate.
Nella Guida viene sinteticamente illustrata l’evoluzione storica di queste pratiche che ha portato al consolidamento delle stesse e che ha validato, anche in termini di evidenze scientifiche, i significativi benefìci del loro impiego all’interno dei team dei servizi per la salute mentale. Questi benefìci non riguardano i fruitori e le fruitrici dei servizi, giacché è stato dimostrato che questa pratica è in grado di produrre cambiamenti sistemici all’interno dei servizi stessi.

Il supporto tra pari può assumere diverse forme, la qual cosa fa sì che sotto la medesima denominazione siano ricompresi tipi di supporto che si strutturano e funzionano in modo diverso. Nella Guida sono indicate tre ampie categorie: i Gruppi di supporto informali, i Gruppi di auto-aiuto, e il Supporto tra pari propriamente detto, in cui gli esperti/e per esperienza collaborano con i servizi per la salute mentale e lavorano insieme ad altri/e professionisti/e.
La Guida, pur senza sminuire l’importanza dei primi due Gruppi, si focalizza in modo specifico su quest’ultimo tipo di pratica. Per far comprendere meglio le differenze, riprendiamo di seguito le definizioni proposte nella Guida stessa.

I Gruppi di supporto informali possono essere inquadrati come gruppi di amicizia o gruppi di attività (ad esempio: giardinaggio, passeggiate, sport, cinema ecc.). Essi sono spesso interamente locali (ad esempio, possono essere collegati a uno studio di medicina generale o essere gestiti da un’organizzazione di volontariato locale) e possono essere organizzati da persone che hanno avuto una cattiva esperienza con i servizi per la salute mentale.
L’attività può essere ispirata da idee su ciò che costituisce uno stile di vita sano, ma non vi è alcun contributo terapeutico formale e i/le partecipanti possono scegliere in che misura desiderano condividere le proprie esperienze personali.
Tali Gruppi hanno particolare successo nell’attenuare la solitudine o i sentimenti di isolamento e la perdita di un senso di scopo nella vita.

Diversa è la fisionomia dei Gruppi di auto-aiuto, che invece forniscono supporto reciproco ed educativo a persone con particolari difficoltà o diagnosi, come, ad esempio, persone con dipendenze, persone che “odono le voci” o persone con disturbo bipolare. In questo caso l’enfasi è posta sull’empatia, il confronto e l’auto-rappresentanza (self-advocacy), al fine di educare i/le partecipanti e il pubblico (inclusi i familiari e gli assistenti) sulla particolare condizione di cui si tratta e su come gestire le conseguenze personali e sociali della convivenza.
In genere questi Gruppi rifiutano l’approccio ai problemi psicosociali “basato sulla malattia” (o sulla diagnosi), sia pure con diverse sfumature. Alcuni, pur riconoscendo che i servizi per la salute mentale spesso svolgono un ruolo importante nella vita dei propri membri, valorizzano la propria indipendenza dai servizi stessi, mentre altri sono ancora legati all’approccio tradizionale e, più che cercarne uno nuovo, chiedono che vengano migliorati i trattamenti.

Infine c’è il supporto tra pari propriamente detto che può essere svolto come parte o in collaborazione con i servizi per la salute mentale. Esso è noto anche con la denominazione di supporto tra pari intenzionale. In questo caso il servizio di salute mentale recluta nuovi membri del team con esperienza vissuta di problemi di salute mentale i quali sono disposti a condividere ciò che hanno imparato nei loro percorsi di recupero e ad offrire consigli e supporto pratici nella gestione della vita quotidiana.
La relazione con i fruitori e le fruitrici del servizio può includere compagnia, amicizia e aiuto per l’accesso alle risorse disponibili nella comunità locale. Essendo una relazione tra pari, la forma che assume, l’impostazione e le attività svolte in questo tipo di pratica sono solitamente negoziate tra i fruitori e le fruitrici del servizio, il/la sostenitore/sostenitrice tra pari e il team del servizio per la salute mentale.
Il supporto potrebbe assumere semplicemente la forma di un incontro per un caffè in un bar locale, una gita in una struttura ricreativa o un incontro con un addetto all’edilizia abitativa o un consulente per i sussidi. Ma soprattutto il/la sostenitore/sostenitrice tra pari, in accordo con il diretto interessato/a, si presta a facilitare attività che rendano la persona responsabile della propria situazione, trovando soluzioni adeguate alle proprie preferenze, senza forzare e rispettando i tempi. In ogni caso esso dovrebbe sempre essere adattato alle esigenze individuali dell’utente del servizio.

La Guida dell’MHE ha un taglio operativo che entra nel merito dell’importanza che la figura del/la sostenitore/sostenitrice tra pari sia inclusa all’interno di servizi specialistici per la salute mentale e illustra le “lezioni apprese” nella pratica. In particolare viene sottolineato l’impatto trasformativo che il supporto tra pari è in grado di produrre all’interno dei servizi stessi, ma sono sottolineate anche le sfide che il lavoro di squadra comporta, nonché le criticità che possono scaturire, ad esempio, quando il/la sostenitore/sostenitrice tra pari viene inserito/a in team per la salute mentale che operano facendo riferimento all’approccio “basato sulla malattia”.
Agli elementi descrittivi è affiancata una parte programmatica dedicata alle raccomandazioni, che pur richiamando la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, è sviluppata anch’essa con taglio operativo.
Infine, nella parte conclusiva della Guida, sono segnalate alcune risorse bibliografiche e d’altro tipo, ma anche esempi concreti di come il supporto tra pari è stato implementato in tutta Europa, con focus specifici sul Regno Unito, la Grecia, la Polonia e l’Italia. Riguardo al nostro Paese vengono considerate due realtà: l’Associazione Diritti alla Follia e l’AISMe (Associazione Italiana per la Salute Mentale) di Prato, in Toscana.

Il tema del riconoscimento dell’autorevolezza e delle competenze delle persone con disabilità rispetto alla propria condizione è una delle conquiste più preziose che il movimento mondiale delle persone con disabilità ha faticosamente acquisito. Un punto fermo, pur nelle differenti declinazioni in cui tale riconoscimento si è concretizzato. In questo contesto, il supporto tra pari nell’area della salute mentale si configura come una pratica strategica per garantire anche alle persone con disabilità psicosociale il diritto all’autodeterminazione e le libertà fondamentali enunciate nella già menzionata Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità.

Ci piace concludere questo approfondimento con una testimonianza riportata nella Guida che, a parere di chi scrive, rende molto meglio di qualsiasi descrizione teorica la sostanza del supporto tra pari: «… l’esperta in supporto tra pari che avevo con me ha in un certo senso convalidato la mia esistenza come persona e il mio scopo nella vita. [Ora] c’erano persone che credevano in me, nel mio posto nel mondo e nell’importanza della mia esistenza, e non volevano sbarazzarsi di me, volevano vedermi volare, e vedevano in me un’abilità e non una disabilità. Se non avesse avuto quella [esperienza vissuta condivisa] e avesse solo cercato di interagire con [me] in un modo che fosse di supporto ma… senza capirlo, non avrebbe funzionato, e ora non sarei seduta qui. Perché non avrei mai trovato fiducia nel mio psicologo, in nessuno. Penso che allora non mi fidassi di nessuno, nemmeno del 10%. Qualcuno chiedeva il mio nome… “perché hai bisogno di sapere il mio nome? Vaffanculo”, [rispondevo] semplicemente così. E penso che ciò di cui avevo bisogno in quel momento fosse di trovare qualcuno di cui potessi davvero fidarmi. E quando ho trovato quella fiducia nell’[esperta nel supporto tra pari], mi ha in un certo senso aiutato a pensare che forse c’è fiducia anche altrove» (estratto della trascrizione di un’intervista pubblicata in Peer support in mental health and social care services: Where are we now?, Emma Watson e Julie Repper, ImROC Briefing Paper 22, 2021).

*Responsabile di Informare un’H-Centro Gabriele e Lorenzo Giuntinelli, Peccioli (Pisa), nel cui sito il presente contributo di approfondimento è già apparso. Viene qui ripreso, con minimi riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.

Sui temi trattati nel presente approfondimento, segnaliamo anche l’ottimo testo di Susanna Brunelli, Esperta in Supporto tra Pari o Esperta Per Esperienza (ESP), dal titolo Il “Supporto tra Pari” come strumento trasformativo (29 dicembre 2024). Ringraziamo inoltre l’Associazione Diritti alla Follia per la segnalazione della Guida.

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A proposito della figura del tiflologo

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«Almeno per adesso – scrive Salvatore Nocera, prendendo spunto da un precedente intervento da noi pubblicato – mi sembra francamente difficile ottenere il riconoscimento del tiflologo, poiché ancora non è stato seriamente realizzato il profilo degli assistenti per l’autonomia delle persone con minorazione della vista e, su un altro versante, i docenti di sostegno hanno una scarsissima preparazione polivalente, ciò che penalizza fortemente gli alunni e gli studenti con minorazione della vista»

Nel ringraziare Gianluca Rapisarda per avere citato su queste stesse pagine la Memoria presentata dalla FISH (Federazione Italiana per i Diritti delle Persone con Disabilità e Famiglie) alle Commissioni Riunite del Senato che stanno esaminando le Proposte di Legge sull’assistente all’autonomia e alla comunicazione, oltre ad avere direttamente invitato chi scrive [Salvatore Nocera] e il presidente della stessa FISH Falabella a sostenere la proposta dell’istituzione del tiflologo*, desidero esprimere qualche mia riflessione su tale tema.

Mi sembra francamente difficile, almeno per adesso, ottenere il riconoscimento del tiflologo, poiché ancora non è stato seriamente realizzato il profilo degli assistenti per l’autonomia delle persone con minorazione della vista e dell’insegnante di sostegno. Infatti, dei primi ancora manca tutto, e dubito che gli emendamenti sulla questione proposti dalla FISH vengano recepiti, data l’impostazione del Testo Unificato in esame, mentre rispetto ai docenti di sostegno, essi hanno una scarsissima preparazione polivalente che penalizza fortemente gli alunni e gli studenti con minorazione della vista. Quella preparazione, pertanto, andrebbe fortemente approfondita, portando a due anni l’attuale specializzazione polivalente.

Questi due problemi mi sembrano prioritari rispetto al tiflologo, figura che mi sembra da collegare strettamente all’Istituto Augusto Romagnoli di Roma, che potrebbe assumere un ruolo importante. Se esso, infatti, avesse un riconoscimento governativo anche come scuola di specializzazione post-laurea, potrebbe effettuare master che sostanzierebbero i contenuti della preparazione di un tiflologo. Ciò potrebbe avvenire anche tramite una convenzione con le Università, ma tutto ciò mi sembra che potrebbe essere facilitato qualora l’UICI (Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti) ritenesse questo progetto prioritario.

*La tiflologia è la scienza che studia le condizioni e le problematiche delle persone con disabilità visiva, al fine di indicare soluzioni per attuare la loro piena integrazione sociale e culturale.

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Quali elementi per una comunicazione inclusiva?

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Sono aperte le iscrizioni per il ciclo di seminari “Elementi di Comunicazione Inclusiva”, organizzato nell’àmbito del Corso di Design del Prodotto Industriale dell’Università di Ferrara. “Ipovisione e cecità: strumenti e buone pratiche di comunicazione”, “Comunicazione e disturbi specifici dell’apprendimento”, “Elementi di comunicazione legati alle non-neurotipicità”: sono alcuni dei temi che saranno affrontati L’immagine scelta a corredo del ciclo di seminari che si terranno a Ferrara

Ipovisione e cecità: strumenti e buone pratiche di comunicazione, Comunicazione e disturbi specifici dell’apprendimento, Elementi di comunicazione legati alle non-neurotipicità: sono solo alcuni dei temi che verranno affrontati a Ferrara, durante il ciclo di seminari denominato Elementi di Comunicazione Inclusiva, cui è possibile iscriversi gratuitamente.
Progettata dall’architetta Maddalena Coccagna, socia di CERPA Italia (Centro Europeo di Ricerca e Promozione dell’Accessibilità), l’iniziativa è organizzata nell’àmbito delle attività del Corso di Design del Prodotto Industriale, in collaborazione con l’Ufficio di Coordinamento delle Politiche per l’Inclusione dell’Università di Ferrara.

I seminari presenteranno metodi, strumenti e casi studio, evidenziando le relazioni che si instaurano con gli utenti anche in presenza di persone con disabilità e, più in generale, delle possibili criticità legate ai fattori sensoriali, psicologici e sociali della comunicazione. «Riteniamo centrale la conoscenza di come le persone comunicano, tenendo conto delle loro capacità psicofisiche, del rischio di abilismo, dei bias sociali, della lingua, di genere», sottolineano gli organizzatori.
I partecipanti saranno stimolati ad analizzare e mettere in discussione ciò che vedono e sentono, attraverso analisi critiche dello stato dell’arte e l’esame di buone pratiche, di tipo multimediale, insieme ad esperti.

I moduli didattici sono indirizzati a studenti, studentesse e personale dell’Università di Ferrara: si tratta di seminari pubblici e gratuiti e quindi è gradita e auspicata la partecipazione di chiunque sia interessato ai temi trattati (ad esempio studenti e insegnanti delle scuole, professionisti della comunicazione, cittadini e cittadine, associazioni ecc.).
Gli otto eventi formativi, prenotabili anche singolarmente, avranno una durata di 3 ore e mezza ciascuno, L’iniziativa si svolgerà in presenza presso Palazzo Tassoni Estense, sede del Dipartimento di Architettura dell’Università di Ferrara, garantendo anche la possibilità di partecipazione in streaming sincrono. (C.C.)

Il flyer dei seminari. Per ulteriori informazioni: CERPA Italia (cerpa@cerpa.org).

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Milano-Cortina 2026: un ponte tra grandi opere, sicurezza e sport

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In programma per il 6 febbraio a Milano e fruibile anche in streaming, l’evento “Milano Cortina 2026: un ponte tra grandi opere, sicurezza e sport”, promosso dall’INAIL, proporrà una riflessione approfondita a un anno dall’apertura dei prossimi Giochi olimpici e paralimpici invernali. Parteciperanno i vertici dell’INAIL stesso

La Direzione Regionale INAIL Lombardia e la Direzione Territoriale di Milano Nord-Est, in collaborazione con la Regione e con il patrocinio della Fondazione Milano Cortina 2026, hanno organizzato il convegno dal titolo Milano Cortina 2026: un ponte tra grandi operesicurezza e sport, in programma per giovedì 6 febbraio a Milano, presso la Sala Biagi di Palazzo Lombardia.
Al centro dell’evento, realizzato su proposta del Comitato Consultivo Provinciale INAIL di Milano, l’importanza di una gestione integrata della sicurezza nell’organizzazione dei Giochi Olimpici e Paralimpici del prossimo anno e il valore sociale che lo sport rappresenta brillantemente in ogni appuntamento olimpico e paralimpico.
Aperti dal direttore regionale dell’Istituto, Alessandra Lanza, i lavori del convegno valorizzeranno la riflessione sulla salute e sulla sicurezza nel contesto delle grandi opere, oltre al patrimonio valoriale che lo sport rappresenta per la collettività in occasione degli eventi olimpici e paralimpici. Una tavola rotonda sarà dedicata al tema dello sport per la ripresa di una vita di relazione degli atleti assistiti dall’INAIL, nel segno del lavoro pionieristico svolto per l’Istituto da Antonio Maglio, ideatore delle Paralimpiadi. (C.C.)

Per consultare il programma e seguire lo streaming, ecco il link. Per ulteriori informazioni: lombardia-comunicazione@inail.it.

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Aggiustare il destino di una persona con sofferenza mentale

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Questa intervista nasce sostanzialmente da una nota a margine di un suo libro («Il dolore mentale è un fatto universale») e spesso Superando con i suoi articoli lo testimonia. L’autore della frase è Francesco Colizzi, psichiatra e psicoterapeuta, direttore del Centro di Salute Mentale di Brindisi, impegnato nel volontariato internazionale

Questa intervista nasce sostanzialmente da una nota a margine di un suo libro («Il dolore mentale è un fatto universale») e spesso Superando con i suoi articoli lo testimonia. L’autore della frase è Francesco Colizzi, psichiatra e psicoterapeuta, direttore del Centro di Salute Mentale di Brindisi, impegnato nel volontariato internazionale (coordina il Festival della Cooperazione Internazionale, di cui abbiamo scritto puntualmente riferito sulle nostre pagine). In questa conversazione parliamo in particolare di due suoi volumi, L’aggiustatore di destini e La suggeritrice.

Nei suoi libri, sia L’aggiustatore di destini – in cui il protagonista è proprio un giovane psichiatra – sia La suggeritrice, il cui filo rosso è una costante autoanalisi, emerge in maniera palese la sua professione di psichiatra e psicoterapeuta. Mi verrebbe da dire che per lei la scrittura di romanzi “non è che la continuazione del suo lavoro con altri mezzi”, riprendendo una famosa citazione.
«È almeno in parte vero. Come per Anton Čechov, per il quale la medicina era la moglie legittima e la letteratura l’amante, per me la psichiatria è la moglie legittima e la scrittura l’amante. Lo scrittore di Taganrog aveva volto lo sguardo a diverse realtà di dolore, indagando direttamente quella dei deportati nell’isola di Sachalin e descrivendo la condizione degli internati nel “Reparto n. 6” di un manicomio di fine Ottocento. Così io sono convinto che la psichiatria debba contribuire ad una evoluzione culturale e politica della società, trascendendo se stessa nella più ampia dimensione della salute mentale, il cui stato dipende da una moltitudine di determinanti, non ultimi quelli sociali.
La letteratura, e in particolare la forma romanzo col suo intreccio di storie, favorisce un ampliamento della mente. Ogni racconto letto (e per quanto mi riguarda anche scritto) è un incontro con parti di sé e con le menti altrui. Si attivano i circuiti nervosi dell’empatia cognitiva e affettiva, si stimola l’intelligenza emotiva, aumenta la connettività in diverse aree cerebrali. Migliora la metacognizione, cioè la capacità di approfondire il senso dei nostri pensieri, di autoosservarsi, di riflettere sui propri stati mentali e di comprendere quelli altrui (la cosiddetta “Teoria della mente”), contestualizzando gli eventi vitali all’interno di storie relazionali ad evoluzione temporale. E poi, i romanzi stimolano il desiderio, ciò che rende davvero vive le nostre vite, che amplia l’orizzonte esistenziale, ci apre allo sconosciuto, ci fa riconoscere il sogno, la vocazione di cui siamo portatori».

Lo psichiatra, col suo ruolo di guida verso i propri pazienti, è un “aggiustatore di destini”, ma ritiene che sia sempre possibile farlo con ogni persona o almeno provarci, tenendo presente che la salute mentale non è semplicemente legata ad una dimensione individuale, ma addirittura sociale e relazionale?
«Vi sono destini segnati non tanto biologicamente quanto socialmente, nei quali le forze sistemiche sono debordanti e l’impegno di un singolo non è sufficiente ad arginarle o deviarle. Ma anche nelle sconfitte si può salvare almeno la dignità di una persona o il legame relazionale che può impedire la disperazione».
Aggiustare il destino di una persona con sofferenza mentale non ha un senso “ortopedico”, come quando si aggiusta qualcosa di rotto, sia esso un oggetto o un osso. E non è sempre possibile, soprattutto quando vi sono ritardi nella diagnosi – a volte di alcuni anni – e conseguentemente nella cura. Il dottor Nilo, protagonista dell’Aggiustatore di destini, raccoglie la suggestione del giovane Commissario Maigret di Simenon, che prima di entrare alla Sûreté [commissariato di Parigi] voleva diventare un medico per “aggiustare i destini” di chi pativa gravi malattie. La coglie nel suo senso più profondo, che anche Maigret conserverà nelle sue indagini, cioè la possibilità di rendere più giusto il destino di alcune persone. E questo è un obiettivo sempre perseguibile, possibilmente non da soli, dato che la salute mentale è il risultato dinamico di innumerevoli fattori biopsicosociali che agiscono durante tutto il nostro ciclo vitale e le imprimono una determinata traiettoria esistenziale. Aggiustare un destino, per lo psichiatra, significa prendersi cura tempestivamente di una sofferenza mentale, agendo sui diversi fattori di rischio, riducendo al minimo eventuali ricoveri, prevenendo i disturbi psicopatologici più gravi, le complicanze sulla qualità della vita e a volte anche giudiziarie, la morte precoce, che nei casi gravi è anticipata di dieci-quindici anni rispetto alla aspettativa di vita. E poi lottare culturalmente, anche con la letteratura, contro i pregiudizi ancora così diffusi e lo stigma che i diversi contesti sociali appongono sulla persona, fino a farglielo interiorizzare. Aggiustare il destino non sarà a volte la piena guarigione, come avviene in tante altre patologie, ma potrà essere una recovery, il recupero della positiva relazionalità e della qualità della vita all’interno di contesti resi più inclusivi. Se pensiamo alla lotta per l’abolizione dei manicomi, che ha riaperto vie esistenziali alternative a circa 100.000 persone nel 1978, ecco stagliarsi la figura di un grande “aggiustatore di destini”, Franco Basaglia».

Nella Suggeritrice uno psichiatra vive l’esperienza sanitaria di paziente: volendo escludere il pensiero di tradizione religiosa che attribuisce al dolore una funzione purificatrice, le chiedo: cosa insegna veramente il dolore?
«La nostra sensibilità dolorifica ha una funzione altamente protettiva. Il dolore è sempre un’esperienza corpo/mente e ci insegna, se sappiamo ascoltarlo, a custodire il corpo. La nostra prolungata frequentazione col corpo lo rende negli anni, paradossalmente, meno presente alla coscienza, nonostante esso sia ciò che ci fa stare al mondo e ciò che consente al mondo di esistere per noi. Il dolore ci ridona il senso della preziosità del corpo, le cui meraviglie spesso diamo per scontate: poter parlare, leggere, camminare, ascoltare, nuotare, abbracciare, fare l’amore… Il dolore ci insegna a contrastare la forte tendenza culturale a nascondere l’umanità essenziale, fatta anche delle nostre fisiologiche funzioni, riconoscendo pienamente la nostra animalità, la nostra vulnerabilità, la nostra mortalità. Quando è di più lunga durata, ci invita a coltivare una competenza fondamentale, la pazienza, intesa come accettazione attiva, che comprende la compassione per noi stessi e la ricerca di possibili alternative alla pura sopportazione. Essa è necessaria per vivere il conflitto tra desiderio e realtà senza disperare, con la consapevolezza profonda che se i momenti di felicità passano, anche le sofferenze passano, restando intatta la bellezza dell’essere vivi.
Per uno psicoterapeuta, poi, vale come splendido motto quel che Didone, nel primo libro dell’Eneide di Virgilio, dice ad Enea per convincerlo a raccontare la tragedia di Troia: posso dare soccorso agli infelici in quanto non ignoro la sofferenza.
E infine, la cognizione dei dolori umani può, anzi deve, indurci a lottare contro ogni dolore evitabile, soprattutto quello, tremendo, che alcuni uomini infliggono ad altri uomini».

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