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Buone Feste a Lettori e Lettrici!

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Tanti Auguri a tutti i Lettori e le Lettrici e arrivederci al 7 gennaio “Female Santas do it better” (“Babbo Natale lo fanno meglio le donne”): foto di Michaela Hintermayr, nell’àmbito del concorso fotografico 2023 sulla disabilità, promosso dall’EDF, il Forum Europeo sulla Disabilità

È stato un fine anno pieno di momenti importanti per il nostro giornale: dal compleanno dei vent’anni, festeggiato il 15 dicembre e coincidente con il primo articolo pubblicato esattamente il 15 dicembre 2004, il tutto con un “vestito nuovo” per il nostro sito, cercando di avvicinarci ancor meglio ai nostri Lettori e Lettrici, che sin dall’inizio sono stati la nostra forza e lo stimolo per andare avanti con impegno immutato.
Ora è giunto il momento di tirare un po’ il fiato e soprattutto di porgere i nostri più Cari Auguri di Buone Feste a tutti e a tutte. Lo facciamo insieme a un’immagine decisamente simpatica e “anticonvenzionale”, ovvero con una foto realizzata da Michaela Hintermayr, nell’àmbito del concorso fotografico 2023 promosso dall’EDF, il Forum Europeo sulla Disabilità (tema: Storie e voci di donne e ragazze con disabilità), dal titolo Female Santas do it better, ossia “Babbo Natale lo fanno meglio le donne”!

Ancora Tanti Auguri e arrivederci al 7 gennaio del nuovo anno, per la ripresa delle nostre pubblicazioni.

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Continui il monitoraggio degli istituti ove vivono persone con disabilità!

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Parlano chiaro le recenti indicazioni della Sottocommissione ONU della Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti: il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, attualmente presieduto da Riccardo Turrini Vita, dovrà riprendere il monitoraggio dei luoghi sanitari e sociali che ospitano persone con disabilità, anziani e minori, inserendoli nella propria Relazione annuale al Parlamento. Vediamo come e perché
(©Alamy)

Tra le altre ottime attività, un contributo importante fornito da Mauro Palma, precedente presidente dell’Ufficio del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, è stato quello di allargare il campo del rispetto dei diritti umani, non solo alle carceri, tradizionale campo di azione, ma anche a istituti a carattere sociale e sanitario, come quello dell’accoglienza delle persone con disabilità e degli anziani, oltre a quello dei migranti ospitati in luoghi in attesa di accettazione delle loro richieste di asilo.
Va qui ricordato che nel 2016 il Comitato ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, che monitora l’applicazione della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, ha chiesto all’Italia, in occasione delle Osservazioni Conclusive al relativo rapporto presentato dal nostro Paese e nell’àmbito dell’articolo 15 della Convenzione stessa (Diritto di non essere sottoposto a tortura, a pene o a trattamenti crudeli, inumani o degradanti) che il «MNP [Meccanismo Nazionale di Prevenzione] visiti immediatamente gli istituti psichiatrici o altre strutture residenziali per persone con disabilità, specialmente quelle con disabilità intellettive o psicosociali, e riferisca sulla loro condizione» (punto 42 delle Osservazioni Conclusive).
Proprio perché il Garante è il meccanismo di monitoraggio italiano, Mauro Palma attivò pertanto un’azione di visita di quegli istituti e di rapportistica nazionale nelle sue Relazioni al Parlamento. In tal modo è stato posto in evidenza il numero di persone che sono spesso segregate in istituti a carattere sanitario e sociale (RSA e RSD, ossia residenze sociali per anziani e persone con disabilità e case famiglia), dove le libertà individuali e i diritti umani vengono spesso ignorati.
Le recenti vicende di violenza di operatori verso le persone con disabilità in questi luoghi hanno rilanciato la frequente inadeguatezza della soluzione degli istituti, come è avvenuto ad esempio nel CEM di Roma, gestito dalla Croce Rossa.
Abbiamo così saputo – attraverso un’apposita anagrafe elaborata dallo staff del Garante, spesso in contrasto con i dati ISTAT – che in Italia (2019) erano 284.781 le persone con disabilità istituzionalizzate in 12.458 strutture (2018) (81,6% anziani non autosufficienti), 78.926 (27,7%) in strutture con oltre 100 posti letto.
Ebbene, delle 284.781 persone con disabilità in istituto, 3.131 erano minori con disabilità e disturbi mentali dell’età evolutiva; 49.025 adulti con disabilità e patologia psichiatrica; 232.625 anziani non autosufficienti (nell’81,6% dei casi, come già sottolineato, si trattava di anziani non autosufficienti con livello di assistenza sanitaria medio-alto).
Nel 98,3% dei casi, sottolineava poi il rapporto del Garante del 2022, erano ospiti di strutture che non riproducevano le condizioni di vita familiari e avrebbero dunque potuto risultare come potenzialmente segreganti. Allo stesso modo, il 93,2% dei 32.648 posti letto rivolti alle persone con disabilità risultavano collocati in strutture che non riproducevano l’ambiente della casa familiare.

Il tema è stato drammaticamente rilanciato durante la pandemia, dove una ricerca dell’Istituto Superiore di Sanità ha evidenziato che nei primi tre mesi della pandemia da Covid, negli istituti per anziani è morto il 42,2% dei ricoverati a causa del coronavirus. Lo stesso direttore regionale europeo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, Hans Henri P. Kluge, ha denunciato che la metà dei morti da coronavirus in Europa si è avuta proprio nelle residenze di lunga degenza. Né ad oggi si conoscono ancora i dati durante la pandemia relativi agli istituti che accoglievano persone con disabilità.
Non è un caso che sia l’Ufficio del Garante nel suo rapporto alternativo al rapporto italiano sulla Convenzione ONU contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti (CAT), sia il rapporto alternativo elaborato dal FID (Forum Italiano sulla Disabilità) abbiano denunciato i trattamenti crudeli, inumani e degradanti cui erano state sottoposte durante la pandemia le persone ospitate nelle residenze di lunga degenza (anziani, minori e persone con disabilità).

È proprio dalle considerazioni che il welfare sostanzialmente “di protezione”, che oggi interviene in quasi tutti i Paesi economicamente sviluppati, non ha protetto affatto le persone con disabilità e le loro famiglie, che si è aperta una discussione da cui è stata definita la Legge Delega 227/21 in materia di disabilità, prevista dal PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) e voluta dalla precedente ministra per le Disabilità Erika Stefani, una norma che sta riformando il nostro welfare in direzione dell’applicazione della Convenzione ONU nel nostro Paese.
Il 4 luglio scorso la Sottocommissione ONU della citata Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti ha emanato il 1° Commento Generale sull’articolo 4 del Protocollo Opzionale (Posti di privazione della libertà), ratificato dall’Italia il 3 aprile 2013.
Il Protocollo Opzionale definisce come «privazione della libertà» «ogni forma di detenzione o reclusione o il collocamento di una persona in un luogo pubblico o privato, ambiente detentivo dal quale la persona non è autorizzata a uscire a piacimento per ordine di un organo giudiziario, autorità amministrativa o altra». Questa definizione riconosce specificamente che tale privazione della libertà può verificarsi «sia in contesti pubblici che privati».
Partendo dunque da questi elementi, il documento ha definito i luoghi dove il meccanismo nazionale di monitoraggio, cioè il Garante dei diritti delle persone private della libertà, deve visitare per verificare il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Tali luoghi – cui la sotto commissione ha dato un’interpretazione la più estensiva possibile – sono «prigioni, ospedali, scuole e istituzioni impegnate nella cura di bambini, persone anziane o persone con disabilità, includendo persone con disabilità intellettive o psicosociali, servizi militari e altre istituzioni e contesti».
«La Sottocommissione – si legge ancora – rileva che si presume che molte persone con disabilità siano incapaci di vivere in modo indipendente, o che il sostegno per vivere in modo indipendente non sia disponibile o sia vincolato a specifiche modalità di vita. Sebbene possa non esistere alcun ordinamento giuridico o amministrativo che confini tali persone in una determinata struttura, la mancanza di sostegno le costringe a rimanervi in situazioni di vita che le privano della libertà e possono sottoporle a pratiche dannose. Questa forma di privazione della libertà specifica per disabilità può verificarsi nelle case familiari e in accordi istituzionali, compresi istituti di assistenza sociale, istituti psichiatrici, ospedali a lunga degenza, case di cura, reparti sicuri per la demenza, collegi speciali, bambini istituti di assistenza sociale, case famiglia, centri di riabilitazione, strutture psichiatriche forensi, ostelli per albini, lebbrosari, comunità religiose, case famiglia per bambini e campi di preghiera».

Anche il Comitato ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, in relazione agli articoli 14 e 15 della Convenzione ha riscontrato che «la pratica di collocare le persone con disabilità in strutture residenziali con decisioni senza consenso specifico o con il consenso di un sostituto del decisore porta alla privazione arbitraria della libertà». Pertanto «è importante che i meccanismi di prevenzione nazionali e la Sottocommissione ne accertino la presenza di soluzioni ragionevoli di sistemazione e sostegno per le persone con disabilità. Se non sono disponibili soluzioni e supporto ragionevoli, il luogo, la struttura o l’ambiente dovrebbero essere considerati come luogo di privazione della libertà». E lo stesso vale per quei lughi dove la persona non è libera di uscirne quando vuole.
Altre indicazioni riguardano i minori e gli anziani. Su questi ultimi il gruppo di esperti della Sottocommissione ha espresso la necessità che gli Stati Parte della Convenzione CAT considerino «tre situazioni specifiche in cui le persone anziane possono essere private della libertà e per le quali lo Stato detiene direttamente o indirettamente una responsabilità basata sui suoi obblighi ai sensi del diritto internazionale sui diritti umani: (a) quando hanno commesso crimini o illeciti legali; (b) quando sono stati detenuti a causa della loro stato migratorio; (c) quando sono sotto il controllo e la supervisione di alcuni istituti o accordi di assistenza, compresi quelli forniti attraverso la tutela legale da parte dei familiari».
Nel documento si prende atto che «un approccio globale alla definizione del termine “luoghi di privazione di libertà” è stata adottata anche dai meccanismi regionali per i diritti umani», che la Sottocommissione auspica possano tenerne conto nella definizione di altri nuovi luoghi di privazione delle libertà.

Infine, «con il presente Commento Generale, la Sottocommissione si esprime in maniera autoritativa sull’effettiva attuazione del Protocollo Opzionale, per chiarire gli obblighi degli Stati Parte e i mandati della Sottocommissione e i meccanismi di prevenzione nazionale di cui all’articolo 4 del Protocollo Facoltativo».
Risulta dunque del tutto chiaro, da questa indicazione, che il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, presieduto da Riccardo Turrini Vita, dovrà riprendere il monitoraggio dei luoghi sanitari e sociali che ospitano persone con disabilità, anziani e minori, inserendoli nella propria Relazione annuale al Parlamento.

*Membro del Consiglio Mondiale di DPI (Disabled Peoples’ International).

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I danni del Long Covid: una battaglia continua e frustrante

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Insieme a pochi altri organi d’informazione – purtroppo – siamo stati ben lieti, nei mesi scorsi, di dare visibilità alla battaglia delle persone con Long Covid, sindrome caratterizzata da sintomi che possono durare anche anni, con un generale peggioramento della qualità della vita, per quella che si caratterizza come una vera e propria nuova forma di disabilità. Oggi diamo spazio alla storia di Erika Olaya Andrade, riprendendo, per gentile concessione, quanto recentemente pubblicato da Mattia Abbate in «la Repubblica Milano online» Erika Olaya Andrade (al centro), durante il convegno del 3 dicembre scorso a Milano, intitolato “Long Covid cos’è e cosa causa”

«Ciao, mi chiamo Erika, sono colombiana e voglio raccontarti la mia storia, quella di una battaglia continua contro il Covid-19 con tutto quello che ha portato con sé. Prima della pandemia lavoravo per una multinazionale tedesca che ha attivato lo smart working in ritardo e non c’erano misure di sicurezza adeguate. Così mi sono ammalata e il virus mi ha colpito duramente: sono stata positiva per quattro mesi. Durante quel periodo mi hanno licenziata. Ora mi ritrovo con problemi respiratori, neurologici, una memoria che non funziona più come prima e un sistema immunitario completamente a pezzi. Stare in isolamento per quattro mesi è stato come essere in prigione. Non solo mi ha distrutto mentalmente, ma ha anche lasciato segni sul mio corpo. Dolore cronico, fatica continua e nessuna possibilità di recuperare la forza nei muscoli. Non riesco a curarmi come dovrei e la burocrazia è un incubo, soprattutto senza soldi.
Ora dovrei fare causa all’INAIL perché l’ex datore di lavoro ha denunciato la mia situazione solo dopo 9 mesi e il sindacato che seguiva la pratica non ha mai fatto una perizia medico legale. Essere straniera peggiora tutto: vengo trattata come se stessi cercando di approfittarmi del sistema. Ho svolto un test ematico in una clinica francese con diagnosi di retro virus Herv (sequenze retrovirali lasciate da antiche infezioni nelle cellule). Sono riuscita a fare il test perché era all’interno di una sperimentazione. Ho svolto la cura al Gemelli di Roma in via sperimentale, ma mi ha provocato molti problemi, peggiorando la mia situazione. Ho ottenuto l’invalidità civile all’85%, ma senza riconoscimento dell’aggravamento, godere dell’accessibilità ai servizi tra medici reticenti e disinformazione, sembra una missione impossibile. L’ozonoterapia, l’unica terapia che mi ha davvero aiutato e alla quale ho potuto accedere grazie alla Fondazione A.M.O.R., è per me inaccessibile economicamente.
Riesco ad avere i farmaci grazie all’aiuto dell’Associazione Opera San Fedele. Purtroppo per andare dove svolgo le terapie dovrei utilizzare i mezzi pubblici, ma quando fa molto freddo non posso aspettare a lungo alla fermata. L’unico modo sarebbe prendere un taxi o altro, ma senza lavoro è complicatissimo. Nel frattempo cerco di aiutare gli altri. Mi sto impegnando per sensibilizzare sul Long Covid nei bambini e sogno di scrivere un libro, per questo il 3 dicembre ho partecipato a un evento a Milano per far conoscere questa realtà. Ringrazio il dottor Buonsenso per il suo sostegno alla mia causa in qualità di esperto di Long Covid. Il Covid non è solo una malattia respiratoria: gli effetti non se ne andranno tanto presto. Servono più attenzione e supporto per chi, come me, lotta ogni giorno.
Ericka Olaya Andrade».

A distanza di quasi cinque anni dall’inizio della pandemia, dunque, siamo ancora costretti a contare i danni: oltre alle numerose morti, coloro che sono sopravvissuti alla prima ondata talvolta manifestano pesanti ripercussioni sulla salute. Questa è la storia di Erika, diventata disabile a causa delle complicazioni del virus e per cui non ci sono cure al momento. Più precisamente ci sarebbero terapie efficaci che però funzionano bene per alcune persone, ma non per tutti e spesso hanno costi elevati. Inoltre il mancato riconoscimento della patologia e, quindi, dell’aggravamento dell’invalidità non consente ad Erika di avere accesso a servizi e contributi importanti, per esempio il contributo per la vita indipendente con cui poter assumere un assistente.
Come può fare una persona che non ha altre fonti di reddito a potersi garantire le cure di cui ha bisogno senza alcun contributo? Sarà costretta a restare in casa senza fare nulla e veder progredire la sua malattia.
Erika non è più in grado di utilizzare correttamente le mani e, nei momenti di grande affaticamento e di stress, la situazione peggiora e diventa complicato svolgere anche le azioni quotidiane più semplici. Il tema del mancato riconoscimento di patologie invalidanti perché meno frequenti di altre o perché meno studiate, è purtroppo all’ordine del giorno. Queste persone soffrono tanto e devono poter trovare almeno un valido supporto nel Servizio Sanitario Nazionale che, oltre ad avere tempi biblici, non sempre ha risposte adeguate.

Erika Olaya Andrade con un cartello contenente un appello per le persone con Long Covid

La soluzione? Il privato, ma chiaramente non tutti hanno la disponibilità economica necessaria. Con patologie gravi la continuità del trattamento è fondamentale e posso assicurare che anche con la mia malattia, la distrofia muscolare di Duchenne, riconosciuta e conclamata, a volte ho incontrato resistenza da parte di alcuni medici nel somministrare alcuni trattamenti. Per esempio sostenevano che, crescendo, la fisioterapia non fosse più necessaria per me, ma dopo la richiesta perentoria di mettere per iscritto la loro affermazione, magicamente iniziavo la fisioterapia. Quando non la facevo, infatti, faticavo a guidare la carrozzina elettronica, perdevo quei piccolissimi movimenti che invece fanno una grande differenza per poter utilizzare la carrozzina e tutte le funzioni collegate e di conseguenza importanti autonomie.

Ogni patologia anche conosciuta ha le sue caratteristiche, ma l’esperienza personale della malattia varia da persona a persona, figuriamoci per le patologie rare dove non ci sono tanti dati oggettivi e il rischio è che il malato venga abbandonato al proprio destino finché non avrà più le forze per andare avanti. Il 3 dicembre sono stato presente al convegno Long Covid cos’è e cosa causa, alla Chiesa Rossa a Milano e vi ho raccontato le mie paure, le preoccupazioni durante la prima ondata del virus perché con la mia malattia dovevo stare molto attento alla situazione respiratoria.Non dobbiamo dimenticarci tutto quello che ha provocato il Covid perché purtroppo ci sono tante persone, anche dei bambini, nella stessa situazione di Erika.
Si deve lavorare ogni giorno per garantire il diritto alla cura per tutti, nessuno escluso, altrimenti staremo compiendo una discriminazione e staremo violando un diritto fondamentale dell’essere umano.

*Il presente contributo di Mattia Abbate è già apparso in «la Repubblica Milano online», nell’àmbito della sua rubrica “Ci vuole abilità” e viene qui ripreso, con diverso titolo e con minime modifiche al differente contenitore, per gentile concessione.

Mattia Abbate, che firma in «la Repubblica Milano online» la rubrica Ci vuole abilità, ha la distrofia muscolare di Duchenne. Per la rubrica stessa è stato nominato Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
A questo link vi è il profilo Instagram di Erika Olaya Andrade che ha anche avviato una raccolta fondi per cure mediche tramite questo link.

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Un 2024 da record per la Fondazione Telethon

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A poche ore dalla chiusura della tradizionale maratona televisiva, la Fondazione Telethon traccia un bilancio di questo 2024 ed è un bilancio da record, con oltre 69 milioni di euro raccolti durante il corso dell’anno, grazie al contributo di tutti coloro che, da gennaio a dicembre hanno voluto sostenere la ricerca sulle malattie genetiche rare Insieme a Ilaria Villa, direttrice generale della Fondazione Telethon, vi è la piccola Mavi, bimba con la SMA (atrofia muscolare spinale), protagonista del cortometraggio “Una giornata pazzesca“, diretto da Francesca Archibugi, dove realizza il sogno di incontrare e intervistare il presidente della Repubblica Sergio Mattarella

Oltre 69 milioni di euro raccolti durante il corso dell’anno: è il bilancio da record della Fondazione Telethon per questo 2024, ottenuto grazie al contributo di tutti coloro che, da gennaio a dicembre hanno voluto sostenere la ricerca sulle malattie genetiche rare. Tra di loro, gli oltre 170.000 donatori che hanno attivato una donazione continuativa, aderendo al programma Io adotto il futuro, tutte le persone che hanno donato attraverso il bollettino postale, il sito internet e lo shop solidale, le tante aziende partner, i numerosi volontari impegnati tramite le due campagne di piazza in primavera e a Natale, con i Cuori di biscotto e i Cuori di cioccolato, ma anche tutti coloro che hanno deciso di donare il 5 per mille alla Fondazione Telethon e chi ha contribuito alla raccolta con lasciti testamentari. Infine, storia di questi giorni, le donazioni pervenute tramite il numero solidale 45510 (ancora attivo fino al 31 dicembre), promosso grazie alla collaborazione con la RAI, nel corso della maratona televisiva appena conclusasi.

«Anche quest’anno – commenta Luca di Montezemolo, presidente della Fondazione Telethon – la generosità degli italiani si è rivelata straordinaria. Ma non possiamo fermarci: migliaia di famiglie in tutto il mondo sperano infatti nella ricerca e nella terapia genica per trovare una cura a malattie terribili. È una sfida difficilissima che affrontiamo però con passione ed entusiasmo, perché ci danno un’immensa forza il sorriso ritrovato di un bambino e l’aiuto dei tanti che ci credono. Come noi».

«È una fortuna – dichiara dal canto suo Ilaria Villa, direttrice generale della Fondazione Telethon – poter essere testimone dell’immenso lavoro dei ricercatori che fanno riferimento alla nostra Fondazione, un lavoro reso possibile grazie all’impegno di tutti i sostenitori. Ed è un onore anche testimoniare il coraggio delle persone con malattie genetiche rare e delle famiglie, che affrontano ogni giorno le difficoltà della malattia con grande speranza e fiducia nella scienza. Non posso che esprimere il mio più grande ringraziamento ai volontari e ai donatori, il loro supporto ci permette di continuare a lavorare per la nostra missione e di affrontare con forza anche le sfide che il nuovo anno ci riserverà».

Dalla sua nascita, va ricordato in conclusione, la Fondazione Telethon ha investito in ricerca 698 milioni di euro e finanziato oltre 3.000 progetti, con 1.771 ricercatori coinvolti e 637 malattie studiate. (S.B.)

Per ulteriori informazioni: Thomas Balanzoni (thomas.balanzoni@havaspr.com)

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